Storie di eroi dai cuori spezzati. Intervista al fotografo Mauro De Bettio

di Teresa Lanna.

"Storie di eroi dai cuori spezzati. Intervista al fotografo Mauro De Bettio" di Teresa Lanna

Gran parte delle professioni presuppone preparazione ed abilità tecnica; per alcuni mestieri, poi, più che per altri, è necessario aggiornarsi di continuo per stare al passo coi tempi e con i mezzi, che si evolvono senza sosta. È il caso, ad esempio, del lavoro del fotografo.

A questo proposito, però, cosa ci porta a dire, o a pensare, guardando un’immagine, che quella determinata foto è bella? Beh, sicuramente il fatto che riesce a trasmetterci un’emozione e ci fa vibrare le corde dell’anima.

Ecco, allora, che, se è vero che conta saper usare bene la macchina ed i suoi accessori, ciò che fa la differenza tra un fotografo ed un altro è senza dubbio la capacità di guardare “oltre” un volto o un paesaggio, fissando in un click l’infinita varietà di storie e stati d’animo dei quali l’uomo e la natura si fanno specchio, e suo riflesso, sin dalla notte dei tempi.

Questa dote innata è presente, a mio avviso, nel fotografo Mauro De Bettio.

Nato e cresciuto in un piccolo villaggio sulle Alpi italiane, ora Mauro De Bettio risiede a Barcellona. Sin da piccolo, ha sentito dentro di sé la voglia di raccontare. Scoprì molto presto, quindi, che la macchina fotografica fosse lo strumento giusto per lui; il linguaggio attraverso il quale comunicare col mondo; uno strumento dal quale non si sarebbe mai separato e che, oggi, continua ad accompagnarlo nel suo infinito cammino di scoperta.

Ho intervistato Mauro De Bettio in occasione della presentazione del suo progetto fotografico “40 Seasons of Humanity”, presso lo spazio The Warehouse, a Milano. Si tratta di oltre quaranta scatti, catturati in differenti Paesi del mondo, nei quali De Bettio ha incontrato e fotografato persone di culture, caratteri e dogmi diversi, che hanno aperto una finestra sulle loro storie, lasciando trasparire emozioni, traumi, gioie e sofferenze. Ecco che affiorano, allora, in superficie, i colori dell’India, il tetto del mondo in Nepal, i contrasti del Bangladesh, le tradizioni antiche in Romania, le tribù dell’Africa e molto altro. Ogni singola foto esprime la forza e la resilienza dell’essere umano; quella che vien fuori in tutta la sua potenza soprattutto quando la vita ti sottopone alle battaglie più dure e non si ha altra scelta se non quella di darsi coraggio ogni giorno e reagire.

[Teresa Lanna]: Iniziamo dai primi passi nel mondo della fotografia: quando ha cominciato per la prima volta a coltivare questa passione?

Mauro De Bettio

[Mauro De Bettio]: Quello che sono ora è frutto di un processo lento, di un viaggio lunghissimo. Mi ci è voluto molto tempo per capire che cosa volessi comunicare con la macchina fotografica; è stato un cammino nel quale ho sperimentato diverse forme di fotografia. Essendo nato e cresciuto in montagna, ho iniziato fotografando fauna; poi ho fatto paesaggio, un po’ di macro e, solo alla fine, mi sono avvicinato al ritratto. Le persone erano quelle che mi facevano più paura. Per questo, quindi, ho iniziato da molto lontano e, piano piano, ho preso confidenza con loro. La fotografia documentaristica, dunque, è senza dubbio la cima che ho raggiunto dopo tutte queste tappe intermedie; è un tipo di fotografia che rappresenta la mia maniera di parlare e che, soprattutto, mi permette di vivere come io desidero vivere.

Lei è nato e cresciuto in un piccolo villaggio sulle Alpi italiane; ora risiede a Barcellona. A prescindere dal suo desiderio di girare il mondo, quanto le manca l’aria di casa?

Rifletto spesso su chi sono e al posto a cui appartengo. Uno dei motivi che mi ha spinto a partire per questo lungo viaggio (che probabilmente non finirà mai), è stato un avvenimento triste accaduto nella mia famiglia. Da quel momento, e per molto tempo, ho provato rabbia per la montagna, i boschi, gli alberi. Ma, con il passare degli anni, c’è stato un riavvicinamento ad essi. Quando mi stavo arrampicando sulle montagne per raggiungere le chiese in Etiopia, per esempio, oppure quando ho scalato le rocce in Nepal, per fotografare i cacciatori del miele “pazzo”, ho sentito un’energia particolare; una connessione con le rocce e la natura. Ed ho capito che sento tutto ciò perché appartengo a loro e, quindi, al posto dal quale provengo: Longarone.

Il contatto diretto con la sofferenza ed i problemi insanabili di migliaia di persone sparse per il mondo, ha cambiato la sua visione delle cose e, se sì, in che modo?

La curiosità per culture con canoni di vita diversi da quelli occidentali mi porta a catturare storie, emozioni e, sì, anche i traumi e le sofferenze di un’infinita varietà di individui. Ho esplorato il fragile equilibrio tra le persone e ritratto la cruda realtà di ambienti come i cantieri navali, fabbriche di pelli e di mattoni, comunità transessuali, bordelli dove vivono e lavorano bambine, e sopravvissuti agli attacchi con l’acido. Realtà durissime che, sì, a volte mi buttano a terra, ma tutte queste esperienze mi hanno reso più forte e fiducioso per il futuro. Per questo motivo è estremamente importante, per me, mettere in luce tali, particolari, emozioni; esse, infatti, rappresentano la forza e la resistenza di cui l’essere umano è capace, e sono dunque una fonte d’ispirazione per tutti noi, in quanto sottolineano come tutto sia possibile nel momento in cui si affrontano le cose con cuore e coraggio.

Lei afferma che, attraverso la fotografia, cerca di esprimere l’essenza delle cose e dei volti; anche se complicato, può scegliere un soggetto, in particolare, che le ha “comunicato” una storia profondamente toccante da narrare?

Ho conosciuto e fotografato talmente tanti “eroi” nella mia vita che è difficile scegliere. Ma posso dire di essere particolarmente affezionato a suor Priscilla (che tra l’altro ho scelto per la copertina del mio libro). Suor Priscilla appartiene alla tribù Turkana nel nord del Kenya. Esattamente come il clima estremo da cui proviene, anche la sua storia porta con sé un clima colmo di estremi. Priscilla, infatti, cadde in una profonda depressione dopo che suo padre fu ucciso da una tribù rivale, sua madre morì per un morso di serpente e suo marito la lasciò con sei figli. Il trauma che ha subìto le ha spezzato il cuore e, contemporaneamente, le ha aperto la strada per diventare suora. Ha seguìto il sentiero davanti a lei e ha trovato una via di guarigione in Dio. In quel momento, ha cominciato a vincere l’oscurità con la Luce. Oggi, per comprare il cibo per i suoi sei figli, vende carbone e legna da ardere; un impegno complicato, che l’ha portata addirittura a perdere i capelli a causa del carbone caldo che porta sulla testa. Una realtà durissima, che potrebbe spezzare chiunque. Ma non appena afferra e stringe il suo crocifisso fra le mani, e guarda verso la Luce, ritrova forza e fiducia. La sua voce smette di tremare e tutto si calma, e diventa sacro e puro: «Quando prego Dio, sono sollevata e so di non essere sola». L’oscurità non vincerà mai la Luce.

40 Seasons of Humanity è il suo primo libro e contiene le testimonianze di un cammino iniziato dieci anni fa col desiderio di scoprire il mondo, ma che ben presto si è trasformato in un “viaggio” interiore. Che importanza riveste per lei la spiritualità?

Il viaggio per me è sempre un percorso per ritrovare anche me stesso. In viaggio ci si arricchisce di cose preziose, visto che si ha la possibilità di conoscere altre culture, usanze e tradizioni. È un percorso che apre la mente e ci fa crescere dentro; si trasforma da un qualcosa che inizialmente è fisico, ma che, poi, si evolve in qualcosa di mentale, diventando, infine, un viaggio spirituale.

Le sue foto hanno avuto importanti riconoscimenti; quale, tra i tanti, le ha fatto particolarmente piacere ricevere, e perché?

Sì, i riconoscimenti sono tanti, ma il più importante, per me, è sicuramente il Premio San Martino, ricevuto qualche settimana fa a Belluno, la città in cui sono nato. Sono state queste le preziose parole del sindaco Oscar De Pellegrin: «Il Premio San Martino 2022, consegnato a Mauro De Bettio, ha tanti significati, ma per prima cosa ci ricorda che l’uomo è fatto per esercitare la cura, per essere aiuto e supporto al prossimo. Ci ricorda l’attenzione, il riguardo, l’interessamento affettuoso verso l’altro. Trovo che quella di spendersi per il prossimo sia l’espressione più alta dell’essere umano». Questo premio lo vedo come un riscatto, un ritorno verso casa dopo questi dieci (e oltre) anni di viaggio che mi hanno portato in terre sempre più lontane.

Tra i suoi progetti, ci sono Sweet Gold e Life in Balance; come sono nati?

Sweet Gold è il progetto dedicato ai cacciatori del cosiddetto “miele pazzo”. Esistono isolate tribù nelle vaste catene montuose del Nepal centrale che, da secoli, raccolgono questo miele speciale sui pendii dell’Himalaya. Vivono in villaggi remoti, le cui abitazioni in legno e pietra sono incastonate sui versanti delle catene montuose nel distretto del Dhaulagiri, all’ombra del Monte Everest. La caccia al miele è una tradizione atavica, tramandata di generazione in generazione, praticata ancor oggi con l’ausilio di strumenti rudimentali e senza alcun sistema di sicurezza. È un rituale pericoloso, folle, talvolta fatale. Le api giganti dell’Himalaya sono le più grandi al mondo e producono diversi tipi di miele, ma è solo in primavera che questo miele contiene una tossina prodotta dai fiori che sbocciano sugli alberi di rododendro. Il miele primaverile ha proprietà allucinogene: due cucchiaini da caffè sono sufficienti per provocare effetti psicotropi simili a quelli della cannabis. C’è chi descrive l’effetto come “leggermente inebriante”; altri, invece, sostengono sia un veleno mortale. La preparazione di questo reportage ha previsto un importante impegno organizzativo; la ricerca per trovare i contatti giusti, e la certezza dell’accessibilità ai luoghi, hanno richiesto un anno di tempo. È stato difficile, soprattutto perché ho deciso di partire in solitaria e, nel corso dei mesi, ho più volte perso le speranze e visto svanire la possibilità di partire.

Life in balance, invece, è nato durante il mio primo viaggio in Africa, qualche anno fa, durato cinque mesi, dal Cairo a Città del Capo. Mentre camminavo per le strade di Nairobi, vedendomi con la fotocamera al collo, un ragazzo mi ha fermato. Questo giovane, che insegna tuttora danza ai bambini di Kibera, la più grande baraccopoli dell’Africa, mi chiese se volessi fare un corso di fotografia ai bambini che vivevano lì. Il giorno dopo ero sul posto. Ho insegnato ai piccoli un po’ di teoria e poi siamo passati alla pratica, fotografando le ballerine mentre si allevavano. Quell’immagine, da allora, mi è rimasta scolpita dentro per anni. Anni passati immaginando quelle ballerine in punta di piedi, al punto che tutto questo diventò, per me, quasi un’ossessione, tanto è vero che l’anno scorso decisi di recarmi in loco e fare un progetto proprio sulle ballerine di Kibera. Ci son voluti giorni, settimane di ricerca, prima di riuscire a scovare Mike, il ragazzo che avevo conosciuto anni prima per strada. Gli ho parlato della mia idea ed è così che è nato il progetto.

Nel videoclip Risk My Life For One Shot lei mostra tutti i rischi cui si espone facendo il suo lavoro; ha mai pensato di programmare un ritorno alle radici, anche se in un futuro non ancora prossimo?

Tanti scatti che eseguo sono, per così dire, casuali, ossia ritratti di persone che conosco al momento, durante i miei viaggi. Ma la maggior parte delle mie foto sono “pensate”, cioè sono frutto di idee e di intuizioni. Mi capita spesso di disegnare la fotografia su un pezzo di carta; in seguito, poi, decido di partire apposta per fare quello scatto. Molti di essi sono abbastanza strani, sì; scatti che mi portano ad entrare nel cratere d’un vulcano, a viaggiare sul tetto di un treno in corsa o appeso ad una corda avvolto da milioni di api… E le idee sono ancora così tante che, per il momento, non c’è bisogno di rivivere quelle passate.

Lei incoraggia costantemente le persone ad esplorare il mondo attraverso la fotografia. Offre infatti, poche volte all’anno, dei tour per piccoli gruppi, in zone remote del pianeta. Qual è la prossima tappa di questo viaggio?

Il prossimo viaggio fotografico è nella mia amatissima Bangladesh! Non vedo l’ora… L’elemento principale e più importante quando organizzo e porto le persone con me nei miei viaggi è “l’etica”. Per questo ne organizzo due, al massimo tre all’anno, e con piccoli gruppi di 5-6 persone. I miei tour sono stati creati grazie ad approfondite ricerche sul campo; si è investito molto tempo nella ricerca delle aree, villaggi, paesaggi e popolazioni per garantire la migliore esperienza che questi luoghi possano offrire. I percorsi sono incentrati sulla fotografia e sul raggiungimento delle migliori opportunità fotografiche, ma sempre favoriti da un’atmosfera rilassata che aiuta i partecipanti a massimizzare il potenziale creativo e tecnico. Una delle cose più belle è anche l’aiuto che vien dato alle persone che visitiamo; oltre al sostegno finanziario per tutte le comunità in cui ci rechiamo, infatti, arrivano sempre rifornimenti, vestiti e viene offerta loro l’opportunità di guadagnare vendendo i propri prodotti. Conosco molto bene quei luoghi e le persone che vi abitano; con esse, ormai, si è già instaurata una fiducia reciproca, e quello dato loro è un aiuto davvero importante. Di questo sono molto orgoglioso.

Nel 2021, ha dato vita a Malaika, una fondazione nata per aiutare a nutrire i bambini senzatetto di Nairobi, in Kenya. Ci parla delle varie attività che promuove e come può essere sostenuta da chi volesse dare un contributo libero?

Ho visitato luoghi fantastici che mi hanno permesso di creare reportages unici. Ma la cosa migliore che abbia mai fatto e di cui sono particolarmente fiero è avvenuta a Nairobi. Durante uno dei miei viaggi in Kenya, ho avuto l’opportunità di condividere molto tempo e di avvicinarmi sempre di più ai bambini di strada di Nairobi. Mi sono accorto presto che queste anime avevano un estremo bisogno di aiuto e ho deciso di dare vita a quella che oggi si chiama Fondazione Malaika. Ci sono tra i 250.000 e i 300.000 bambini che vivono per le strade in tutto il Kenya; di questi, più di 60.000 nella sola capitale Nairobi. Sono creature indifese, cui manca la certezza di avere cibo ogni giorno. In questo momento la Fondazione Malaika è in grado di offrire un pasto settimanale cucinato in casa a oltre 120 bambini, ma abbiamo bisogno di più supporto. Vorremmo, infatti, aumentare il numero dei bambini a 150 e garantire loro due pasti settimanali. Chiedo la grande cortesia di visitare il sito e, per quelli che decideranno di donare anche solo un euro, sappiate che persino quel piccolo contributo farà una grandissima differenza.

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