La domanda di “occasioni” capaci di articolare una reale vita culturale nei grandi come nei piccoli centri urbani, è di quelle centrali nel dibattito politico che impegna i partiti democratici, le organizzazioni dei lavoratori e le associazioni culturali.
Queste forze, però, non sembrano purtroppo in grado di aprirsi ad una più vasta e articolata esperienza, coinvolgendo direttamente e organicamente il mondo della cultura, sia scientifica che artistica.
Di qui la debolezza delle istituzioni e la loro incapacità a dare risposte adeguate.
Il capitalismo, per affermare un modello di sviluppo che lo garantisca, ha prodotto una forte accentuazione delle « separazioni » proprie della società borghese: nel lavoro, attraverso le specializzazioni intese come netta ripartizione dei compiti e della conoscenza; nella cultura, allontanando tra loro ricerca e quotidianità, per poter agire a quel livello culturale che si definisce come realismo spontaneo, col risultato che ciò che era popolo diviene sempre più massa.
La scuola è intesa come strumento per la riduzione della conoscenza a nozioni, per la formazione di tecnici, mortificando la formazione dell’individuo.
L’acquisizione alla conoscenza della realtà oggettiva attraverso il pensiero scientifico è per il capitalismo una necessità vitale, ma è anche un pericolo mortale perché sottrae l’uomo ai condizionamenti delle costruzioni idealistiche, attraverso le quali le classi dominanti reprimono la capacità critica e le spinte all’emancipazione che si sviluppano nel sociale.
Ora, l’arte, quando è ricerca, è pensiero scientifico: rispecchiamento della realtà al di là del quotidiano; anche se, al contrario della scienza che è disantropomorfizzata, agisce la tendenza dell’uomo a cogliere la realtà oggettuale come proiezione di sé e ritorno di sé a sé.
L’arte è esercizio della tendenza antropormofizzante implicante un grado di consapevolezza; è indagine della realtà che l’uomo compie attraverso l’uomo, e considerando sé come parte della realtà, la quale si modifica continuamente dal momento che a sua volta l’indagine condotta è immediatamente parte della realtà da indagare.
Questo discorso può voler dire (molto sommariamente) che cosa è l’arte come ricerca, e non è da confondersi con una risposta alla domanda — che cosa è l’arte? —.
Ma è proprio questa la domanda da porsi, e non invece quella di quale sia il ruolo dell’artista.
Il fatto che non si possa dare una risposta esauriente e sufficientemente definita, quando ci si interroga su cosa sia l’arte, ne che si possa dire dove l’arte comincia e dove finisce; il fatto che l’uomo, così come è spinto a ricercare i termini della realtà per quella che essa oggettivamente è, non può soffocare la tendenza alla proiezione di sé sulla stessa realtà, e dal momento che, come si diceva più sopra, l’arte è esercizio di questa tendenza, significa che essa è nell’uomo ed è intrecciata con la vita stessa.
Ed ecco perché l’arte, come qualcuno ha detto, non è una necessità (non appare come tale), non riempie un vuoto.
Non vedo come si possa pretendere di pensare ad un vuoto corrispondente ad una qualche manifestazione della vita.
Questo ragionamento si potrà forse applicare alle costruzioni che l’uomo si da: non all’uomo.
Al limite, all’interno dell’arte sarebbe anche possibile far corrispondere ad una data manifestazione un «vuoto»; non però all’arte stessa.
Dunque, se l’arte intreccia il rapporto uomo-realtà, quello di individuare un ruolo dell’artista nel sociale è un falso problema.
Infatti, sostenere che l’artista può agire in quanto artista, e cioè direttamente, con i suoi « strumenti », nel sociale; insomma, voler ricercare un ruolo per l’artista, significa pretendere di dare un risposta esauriente alla domanda — che cosa è l’arte? —, e significa anche individuare e definire quel “vuoto” cui l’arte corrisponderebbe; l’arte come necessità quindi, dopo aver negato che essa lo sia.
D’altra parte, la società borghese, come già quella feudale, ha attribuito all’artista un suo ruolo, proprio per staccarlo dalla contestualità relegandolo nel ghetto del giullare, del creatore di oggetti estetici, o del “diverso” che sapeva dare momenti di alta espressione poetica.
In questi anni che hanno visto crescere enormemente nelle masse popolari la consapevolezza che non vi può essere vera democrazia ne vera libertà, se non si danno alle strutture culturali le possibilità di agire per un momento culturale che non sia consumo di una “produzione culturale”, ma intima partecipazione, gli artisti hanno certamente compreso l’urgenza di un loro impegno.
Si sono però lasciati imbrigliare dalla falsa esigenza di ricercare un loro proprio ruolo che li ha messi nella contraddizione di voler essere nel sociale isolandosi però in questo (ruolo), e pretendendo la chiamata ad agirvi i propri strumenti.
Ma, se l’artista evita di farsi carico di quel ruolo che è invece di ciascun cittadino al di là della propria esperienza, ma portatore di questa, come può essere che il momento politico sia comprensivo anche della sua esperienza e quindi essere in grado di formulare ipotesi per una funzione corretta delle strutture necessario perché il lavoro dei gruppi della ricerca (il suo, dell’artista) possa divenire esperienza culturale e, quindi, non elaborazione (culturale?) che si chiude in sé stessa e per gruppi elitari, ma rinnovamento nel rispecchiamento quotidiano della realtà? Quando gli artisti — e lo abbiamo ancora sotto gli occhi — hanno inteso agire come direttamente sociali i loro strumenti, si è verificato che taluni sono approdati all’idea dell’arte come didattica dell’arte; come se il problema fosse di dare a tutti i mezzi per capire l’arte, e soltanto questo.
Altri invece hanno inteso l’arte come visualizzazione di condizioni che si verificano nel sociale, e cioè l’arte direttamente al servizio di altri strumenti nella lotta politica.
E sappiamo dove si arriva per questa strada.
In ogni caso l’artista sembra come soffocato in un impasto di velleitarismo e senso di impotenza che ha le sue radici nella contraddizione — da cui sembra non voler uscire — di « partecipare » restando « particolare », quindi isolandosi, in un dibattito che invece lo coinvolge come tutti.
Altri ancora si sono rifugiati in esercitazioni solipsistiche e misticheggianti, quindi, sostanzialmente, assumendo una posizione reazionaria che evita certe domande Proclamare poi, — come qualcuno ha fatto — di essere, splendenti di generosità in attesa della chiamata di chi ha pubbliche responsabilità, è tragicamente grottesco.
Agostino Bonalumi
Milano, febbraio 1976
Tratto dal Catalogo: “Agostino Bonalumi”
Ed. Galleria Lorenzelli – Bergamo – 1976
Per la Mostra organizzata in collaborazione con la Galleria del Naviglio, Milano – Marzo / Aprile 1976.
Testi di Germano Celant, Daniela Palazzoli, Gillo Drfles, Giulio Carlo Argan, Eugen Thiemann, Agostino Bonalumi.