di Mariateresa Zagone.
Questo articolo è parte della rassegna “Gender Fluid. L’Arte sfida i binarismi di genere – Mostra virtuale 3d“
La musica degli Anni Settanta ha visto traghettare il rock, soprattutto britannico, verso il cosiddetto glam. Il background dei giganti di quegli anni includeva, infatti, la performance, il mimo, il vaudeville, il cabaret, il circo.
In contrapposizione alle immagini rassicuranti del precedente decennio, ad esempio a quella dei Beatles, la scena rock inglese degli anni ‘70 si è focalizza sugli aspetti della messa in scena, del fantasy – da J.R. Tolkien a C.S. Lewis – e soprattutto su una concezione del corpo maschile soft, flessuosa, orientata all’androginia, e della sessualità in flirt con l’omoerotismo e la bisessualità.
Se si escludono alcuni outfit di Mick Jagger che già negli anni precedenti indossava boa di struzzo dai colori sgargianti senza tuttavia mettere in discussione una visione fortemente testosteroidea, è infatti negli anni ‘70 che, in maniera dirompente, personaggi come David Bowie con i suoi 4 emblematici alter ego, cominciano a sgretolare l’immagine di genere come fissa ed immutabile.
Considerato uno dei musicisti più influenti della musica contemporanea, il cui DNA in riferimento agli artisti che lo hanno preceduto o imitato è arduo mappare, è stato un osservatore attento.
Personalità poliedrica e multiforme, in grado di assorbire qualsiasi stimolo che riproponeva con rielaborazioni personali e geniali, era imprevedibile e metteva gli osservatori costantemente in attesa della sua prossima mossa. Affascinato, come molti teeneger britannici suoi coetanei, dall’ondata del rock americano, in particolare da Little Richard e Chuck Berry , è attratto dalle luci del West-end londinese di cui spesso frequenta i piccoli jazz club. Dopo aver fondato varie band giovanili con cui suona essenzialmente un jingle-pop anni ‘60, studia mimo con Lindsay Kemp e scopre il proprio talento per la performance. Nel 1967 esordisce come solista e nel 1971 la copertina del vinile “The Man Who Sold The World” lo ritrae in abiti femminili, languidamente sdraiato su un divano: la copertine viene censurata e sostituita negli Stati Uniti. Il brano è una metafora della sua tendenza alla trasformazione continua e una celebrazione del fascino irresistibile e pericoloso della doppia personalità, un brano personale e malinconico che Kurt Cobain riprenderà del 1993.
Bowie non è stato solo un cantante ma anche un artista visuale, un attore e un ballerino che ha proposto una nuova estetica incentrata sul corpo e sull’immagine. Kemp gli insegna i segreti della mimica e Bowie interpreta la performance come veicolo di un’estetica dal sofisticato dandysmo. Entra quindi in contatto con i Velvet Underground i cui brani, che parlavano apertamente di libertà sessuale, fluidità di genere e omosessualità, furono un flop in termini di vendite e comincia a proporre il suo stile. Di lì a poco Bowie dominerà le classifiche mondiali. Attingendo a piene mani a Lou Reed (che dal 1970 aveva lasciato il gruppo), alla New York intellettuale, alle atmosfere trasgressive che ruotano intorno alla Silver Factory di Andy Warhol, i cui frequentatori, personaggi affascinanti dalla sessualità ambigua ed indefinita, diventano modelli da cui trarre il make-up della scena Glam; nasce “Hunky Dory“, tributo alle influenze degli States, nel quale tre brani sono rispettivamente dedicati ad Andy Warhol (una ballata), Lou Reed (Queen Bitch) e Bob Dylan (Song For), “un cocktail pansessuale, un urlo di tradimento e gelosia proveniente da un’oltretomba gay” (Bill Wymann, New York Magazine, 2013). Bowie promuove il disco con roboanti e provocatorie affermazioni riguardo alla sua ormai ostentata bisessualità.
Nel 1972 si trasmuta in un alieno androgino, il suo primo alter ego, quell’uomo delle stelle che si dipana nel racconto dell’album “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars“.
Nessuna popstar aveva mai creato un alter ego da utilizzare come canale espressivo, una maschera che pian piano lo soffocherà, una creatura ingestibile che prenderà il sopravvento; Ziggy gli si appiccicherà talmente addosso da essere difficile prenderne le distanza. E si trasforma ancora, diventa Halloween Jack, mutante canino, inquietante personaggio tratto dal libro di Burroughs “Ragazzi Selvaggi” e da “1984” di Orwell, e pubblica “Diamond Dogs“. Schiacciato da una forte pressione interna e dall’uso crescente di droghe decide di vivere per due anni e mezzo a Berlino. C’è anche Iggy Pop.
La città è lontanissima da quella capitale aperta, cuore culturale pulsante della mitteleuropa di adesso. Città squallida, divisa da un muro, fredda e rigida i cui grigi palazzi fanno da sfondo ad un uomo magro come un chiodo, fisicamente segnato dagli abusi della cocaina che negli anni americani gli aveva quasi spappolato il cervello che gira in bicicletta felice che nessuno lo riconosca, o finga di non riconoscerlo. E’ questo il periodo della trilogia berlinese e di “Heroes” in cui attinge alle vibes della città divisa ed esplora il concetto di fenditura, dello scisma politico causato dalla Guerra Fredda traslando ogni stimolo in sonorità straordinariamente cupe e decadenti, cucendosi addosso l’immagine del Duca Bianco, perfetto ariano pseudo-romantico dai capelli tirati indietro, dall’espressione glaciale priva di pathos e dai tratti androgini. I musicologi lo definiscono camaleontico, sempre un passo avanti, personalità multipla in cui se ne fondono varie, suonava tredici strumenti.
La produzione berlinese di Iggy Pop e David Bowie è oggi considerata tra le più innovative nella storia del rock; in album come “The Idiot” e “Low” i due riuscirono a dimostrare fino a che punto la musica potesse spingersi, sottolineando come la sperimentazione sonora non conoscesse più limiti… e nella canzone che da’ nome ad uno dei migliori album mai pubblicati, “Heroes“, appunto, il racconto di un bacio visto dalla finestra sotto il Muro diventa poesia “Stavamo vicino al Muro, e i fucili spararono sopra le nostre teste. E noi ci baciammo, come se niente potesse cadere, e la vergogna stava dall’altra parte. Oh, noi possiamo batterli, per sempre e per sempre”. Una di quelle canzoni che cambiano la storia e la percezione di noi stessi.
David Bowie è a tutti gli effetti britannico, un aristocratico che realizza a pieno, un secolo dopo, il decadentismo di Oscar Wilde: la reinvenzione di sé come opera d’arte della società di massa e la possibilità di trovare nello spettacolo quella fluidità fra i generi che la società non permetteva; è soprattutto britannica l’idea del rock come spettacolo e dei musicisti come artisti poliedrici, capaci di intrattenere nell’accezione più ampia del termine.
Dall’altra parte dell’oceano è invece la strada, secondo quella bulimia di traiettorie tipicamente americana, a fornire temi, personaggi e situazioni al glam rock.
L’esempio più lampante è “Walk on the Wild Side” di Lou Reed, nell’album “Transformer” (1972, prodotto e arrangiato da Bowie), che racconta il viaggio, da Miami a New York, di Holly – personaggio ispirato all’attrice transgender Holly Woodlawn, il cui nome è noto per la sua partecipazione a “Trash” (1970) e “Women in Revolt” (1971) di Andy Warhol – e della sua trasformazione da uomo a donna; le trasformazioni, dunque, passano dalla fluidità sessuale mentre New York si traveste da drag queen, dimostrando come il glam fosse un crocevia di rimandi e di figure interni alla cultura pop. È l’album in cui il rock metropolitano, sotterraneo, disturbante di Reed si mescola con il glam londinese ed è anche una rivoluzione che dà voce a tutto il mondo sommerso e ai margini di New York.
Sarà il primo grande successo di Lou che poi, però, picchierà Bowie per una battuta infelice sulla sua voce a Londra. Non si parlarono per anni, dopo essersi baciati in pubblico. Si rincontrarono tempo dopo entrambi adulti, “puliti” dalle droghe. Tornarono anche a suonare assieme al Madison Square Garden nel 1997 per il compleanno del Duca Bianco, entrambi vestiti di nero, a cantare “Waiting for the man“, elegia dell’attesa di un pusher, lanciandosi sguardi complici, saettanti. Perché Bowie adorava quell’artista rude e coltissimo, che per una vita ha “camminato nel fuoco passandosi la lingua tra le labbra“. E Reed contraccambiava con una punta di invidia: “I ragazzi urlano quando David sale sul palco. A me tirano addosso le siringhe usate“.
Ha cantato ogni dolore, ogni lutto possibile, ogni separazione, ha urlato la fatica delle dipendenze, ha suonato ogni suono anticipando la musica industriale con “Metal Machine Music” del 1975, disco ritirato dal mercato perché invendibile, ha sperimentato ogni tensione, ha raccontato New York come un pezzo di sé, ha scritto canzoni d’amore e d’odio indimenticabili, ha profuso la più grande letteratura attraverso una chitarra. Non ha fatto sconti a nessuno, a cominciare da sé stesso. Un provocatore mirabolante che ha scelto di camminare lungo il lato oscuro della strada, quello dove la vita vera si manifesta senza trucchi, mediazioni, dove le ferite non si cancellano e al massimo divengono cicatrici.
Ogni volta in cui Lou ha parlato di emarginati, reietti, eroinomani e transgender, il protagonista vero sembra essere sempre lui, come se la musica, i suoi testi così allucinati e taglienti potessero avere un effetto catartico, potessero servirgli da terapia. In alcuni casi i riferimenti alla propria persona non sono stati nemmeno velati: un brano come “Kill Your Sons” in cui Reed parla della terribile esperienza dell’elettroshock, mette i brividi ancora oggi, tanto era l’odio riversato nei confronti dei propri genitori, incapaci di accettare la sua anima, e nei confronti di quegli “psichiatri senza cuore” che cercavano di cambiargli barbaramente personalità. Poeta assoluto, i suoi testi sono lo specchio fedele di una vita caratterizzata da disturbi psichici marcati ampliati dall’abuso di alcol e droghe pesanti. L’immagine da duro, una voce quasi monocorde, mascherano incubi inconfessabili e cercano, allo stesso tempo, di dare un’idea di sé migliore di quella con cui si trovava a convivere da sempre.
Lou scrisse il capolavoro assoluto nel 1973, “Berlin“, concept nichilista, decadente, gonfio d’un estetismo malato… “un viaggio nello smarrimento dei sensi e dell’anima: vizioso come un film viscontiano, scandito da scoppi di rock metropolitano, orchestrazioni ricche di pathos e stranianti melodie mittleuropee alla Kurt Weill”; alieno fra gli alienati. I percorsi tornano, ritornano gli incroci; qualche anno più tardi, come detto, sempre a Berlino, Bowie vi concepì la trilogia “Low”, “Heroes”, “Lodger”: non serve aggiungere altro.
“Berlin” è anche una tra le sue ferite più dolorose, un progetto, un album imponente e lacerante che non fu compreso. Troppo faticosa quella storia di passioni e morte, di violenza tossica. Si prese la rivincita nel 2007, portando quel disco ostico in giro per il mondo con un’orchestra, un coro di bambini e la scenografia imponente di Julian Schnabel che realizzò anche un film.
Il tour planetario si concluse in Italia, all’Anfiteatro romano di Cagliari.
Era il 14 luglio e c’era la luna piena.
Mariateresa Zagone
Questo articolo è parte della rassegna “Gender Fluid. L’Arte sfida i binarismi di genere – Mostra virtuale 3d“
Immagine in evidenza: cover dell’album “David Bowie – The Man Who Sold The World“