Correggio e l’erotismo
Correggio è noto sin dal XVI secolo come pittore dell’erotismo, oltre che, in contraddizione solo apparente, pittore della grazia e degli affetti. E per erotismo deve intendersi, nella spinosa definizione di quelle categorie del gusto e dell’arte che oscillano tra sensualità, pornografia, licenziosità, la rappresentazione del sesso nel contesto dell’amore, della reciprocità e dell’affetto.
Accanto al Tiziano della Venere di Urbino e della Danae di Napoli, e in anticipo sul Rubens del Cimone ed Ifigenia, Correggio segna il passo di questa complessa inclinazione del gusto e dell’arte con il garbo e il languore che appartengono alla sua pittura. Può considerarsi il creatore di un paradigma ideale di pittura erotica.
Il Rinascimento è attraversato dall’interesse – letterario, poetico, figurativo – per l’estasi e la pratica amorosa, e attinge generosamente all’antichità greca e romana per dotarsi di modelli da riprodurre nelle incisioni (Marcantonio Raimondi), nei sonetti (Pietro Aretino), nei dipinti. L’antichità è il tempo aureo delle divinità ‘immoralì e trasgressive, degli amori consumati con disinvoltura, delle nudità innocenti. Il Gabinetto Segreto del Museo Archeologico di Napoli o l’analogo Secretum del londinese British Museum sono luoghi fascinosi dove oggi possiamo gettare sguardi timidi e indiscreti verso quel mondo.
Nel Rinascimento gli amori divini diventano un veicolo, sanzionato dall’autorità letteraria di fonti come le Metamorfosi o l’Ars amatoria di Ovidio, per eseguire in libertà episodi sessuali altrimenti inibiti dal costume corrente. Persino un sovrano come Filippo II di Spagna, campione della Controriforma e ritratto da Alonso Sànchez Coello in abito nero e con un rosario in mano, commissiona a Tiziano alcuni soggetti mitologici, evidentemente campione, oltre che di pubblica devozione, anche di privato godimento.
Tra le scarse certezze della vicenda biografica di Correggio è l’approdo a temi erotici nel momento tardo, presumibilmente verso il 1525, su commissione di sommi patroni mantovani. Che Federico Gonzaga abbia tenuto per sé o infine donato a Carlo V gli Amori di Giove o che il conte Nicola Maffei abbia destinato l’Educazione di Cupido e Venere e Cupido addormentati e spiati da un satiro al suo boudoir, queste magnifiche poesie hanno lo scopo di suscitare sentimenti legati al sesso. Erotismo è nell’intenzione dell’autore, non nella nudità in sé e Correggio ha inteso, su probabile richiesta della committenza, proporre visivamente lo stimolo sessuale. A questo approda la visione grandangolare, la forte sensazione di imminenza che si ha osservando l’Educazione di Cupido, scena intima che doveva essere appesa in una stanza privata e guardata da vicino. E sul medesimo obiettivo di innescare un coinvolgimento dei sensi doveva convergere la maniera leonardesca di rendere gli incarnati e di ammorbidire i profili, ottenendo quel “colorito molto alla carne simile, di dolce aria” che, secondo Vasari, poteva indurre al peccato. In effetti fu l’espressione sorridente, più che l’atto erotico, a stimolare il gesto distruttivo del duca d’Orléans sul volto della Leda, l'”amore di Giove” oggi a Berlino. In questione non sono tanto i soggetti rappresentati quanto il modo, e il richiamo che questo esercita sui sensi. Vasari ci ricorda, ancora una volta, come la “dolce aria” e la “corrispondente bellezza” del San Sebastiano di Frà Bartolomeo trascinassero le donne verso desideri carnali. I sei dipinti assegnati al corpus mitologico-erotico sono opere nelle quali Correggio riversa una cultura pittorica avanzata e composita. Vi si ravvisano la conoscenza della statuaria antica, paradigma dei corpi belli e vitali, l’eredità leonardesca nella finezza per le espressioni sentimentali, il possesso della tecnica veneta nella stesura del colore e della trama, che egli rimedita in un impasto di tenerezza e sensualità, mai morboso, dove l’estasi ha un taglio languido e dove le grazie carnose delle divinità pagane, sublimando l’intenzione di suscitare lo stimolo sensuale, parlano una lingua innocente.
Correggio e la mitologia: le due Veneri
È opinione condivisa che i due dipinti L’Educazione di Cupido (National Gallery, Londra) e Venere e Cupido addormentati e spiati da un Satiro (Museé du Louvre, Parigi), entrambi generalmente datati tra il 1523 e il 1525, siano state le prime opere di soggetto mitologico di Correggio, il quale a distanza di pochi anni (1531-32) eseguì i quattro Amori di Giove, ritenuti i capolavori che lo consacrano come un artista di sommo livello.
I primi due dipinti mitologici del Correggio, tradizionalmente descritti come una coppia, furono acquistati dalla collezione dei Gonzaga da re Carlo I, ma fino a tempi recenti la loro provenienza non ha potuto essere ricostruita con chiarezza. Oggi è possibile affermare con relativa sicurezza come in origine si trovassero nella collezione del Conte Nicola Maffei (c. 1481-1536), intimo frequentatore di Federico Gonzaga e noto collezionista.
I due dipinti dovevano essere stati concepiti come coppia e della stessa misura, anche perché sarebbe stato estremamente insolito commissionare una coppia di dipinti iconograficamente correlati ma di dimensioni diverse.
Rimane il fatto, però, che l’Educazione di Cupido è ora notevolmente più piccola della Venere sia in altezza che in larghezza. Può essere che l’Educazione di Cupido fosse stata originariamente commissionata da sola, e che quando Maffei ordinò la Venere, Correggio avesse deciso di ingrandire le figure. Qualunque sia la spiegazione, esse dovevano aver costituito una coppia singolare, e non è del tutto sorprendente che l’Educazione di Cupido sia stata ridotta. Le misure date nel catalogo della collezione di Carlo I (1639) indicano che qualunque mutilazione di quel tipo aveva già avuto luogo a quel tempo.
Educazione di Cupido. Alcuni storici dell’arte moderni sono inclini a ritenere che la spiegazione iconografica non abbia bisogno di coinvolgere nulla più che l’identificazione del soggetto. A quel livello, l’Educazione di Cupido presenta pochi problemi. Essa ritrae Venere, dea dell’Amore, con Mercurio, dio della Saggezza, e il loro figlio Cupido. Mercurio, seduto, sta insegnando a compitare a Cupido, e in più di una copia del dipinto il foglio di carta recava segni di scrittura e non era bianco com’è di fatto nell’originale.
L’esame ai raggi X, ha rivelato come originariamente l’artista intendesse mostrare la figura di Venere eretta e nell’atto di guardare teneramente verso il basso, e quella di Mercurio comunque seduta ma in una postura più frontale. La loro identità dovette sempre essere la stessa, comunque, perché solo così Mercurio sarebbe stato mostrato in atto di insegnare a leggere a Cupido. I raggi X rivelano anche altri cambiamenti di minore entità, da ritenersi marginali, non di concezione globale dell’opera.
Possiamo essere tentati di rimpiangere la perdita di quella prima stesura del viso di Venere, dall’espressione affettuosa, ma l’opera finita ci gratifica con l’audacia dello sguardo della dea che si rivolge verso di noi. Il corpo della Venere è molto più ampio di quanto l’ideale femminile espresso nelle mitologie più tarde indurrebbe ad aspettarsi; la sua posa, ispirata alla celebre Leda perduta di Leonardo, accentua la curva rigonfia dei fianchi e spinge i seni in su e l’uno verso 1’altro. Insieme al braccio destro, la cui funzione è al contempo di nascondere il corpo e di dirigere il nostro sguardo verso Cupido, creano un netto contrasto di luce ed ombra, cosicché il torso di Venere al di sotto dei capezzoli, come pure il braccio sinistro ma non la mano, che si appoggia a un tronco d’albero, sono quasi persi nell’ombra.
L’espressione di Mercurio è intensamente amorevole mentre aiuta Cupido a tenere lo svolazzante foglio di carta e gli indica le lettere. La sua posa è rilassata e a proprio agio, con le gambe che digradano verso il bordo inferiore destro della tela. Come quello di Venere, anche il suo corpo tocca il bordo della tela e produce l’effetto di allargare la scena.
Fra Venere e Mercurio sta Cupido, un bimbo dai ricci biondi, la cui concentrazione e serietà sono splendidamente catturate. Giustamente celebrato per la sua empatia con la gioia e l’allegria infantili, il Correggio è non meno acuto nel sorprendere lo zelo giovanile.
Mengs lodò a ragione il realismo della esecuzione delle ali di Cupido; ironicamente, in considerazione della leggenda per cui gli furono fabbricate da Vulcano, l’artista le fa spuntare del tutto naturalmente dalla schiena, e le dota di una vellutata morbidezza di tessitura che persino il Leonardo dell’Annunciazione degli Uffizi avrebbe potuto invidiare. Le ali contengono, in chiave minore, la gamma di colori attorno ai quali è composto il dipinto: un rosa più pallido, che nel manto di Venere di fa di un carminio profondo, un blu che è di nuovo più pallido del drappeggio indaco di Mercurio, e un giallo dorato che è echeggiato, anche più riccamente, nell’ornatissimo elmo alato di Mercurio e nei suoi sandali di chiara ispirazione classica. Naturalmente vi sono altre sfumature nella radura boscosa e screziata dell’ambientazione, verdi e marroni sottili, e persino un grigio – fumo per le ali di Venere, ma sono lo sfondo deliberatamente sommesso contro il quale sono presentate le figure.
Venere e Cupido addormentati e spiati da un Satiro. Rispetto all’Educazione di Cupido questo dipinto si presenta più audace e libero e ciò lascerebbe supporre che sia stato eseguito in un momento successivo. Tuttavia, come accennato, è invece molto probabile che i due siano stati concepiti e realizzati contemporaneamente e come coppia. Il primo piano di entrambi, così vicino all’osservatore da tirarlo dentro le scene, è un altro elemento a favore di questa ipotesi. Nel XVIII secolo il soggetto è stato descritto, erroneamente, come Giove e Antiope. Il mito racconta di come Giove si sia trasformato in un satiro e abbia sedotto Antiope. Il problema nell’ipotizzare che il Correggio intendesse raffigurare proprio quel mito è che non vi sono indizi per spiegare perché il satiro non sia un satiro comune. Sarebbe errato supporre che la presenza di Cupido precluda la possibilità che la donna dormiente sia Antiope, poiché in altre versioni della stessa scena egli è presente. Più in generale, non è facile essere certi dell’identificazione di un nudo femminile dormiente con Venere, ma in questo caso tutto conduce a questa ipotesi, incluso il fatto che la faretra in pelle di leopardo e l’arco su cui riposa sembrano appartenerle. Il motivo del braccio intorno al capo, come il Correggio indubbiamente sapeva, era un’antica convenzione che indicava il sonno, usata anche da Tiziano nel suo Baccanale degli Andrii (Prado, Madrid) in quegli stessi anni.
La figura del satiro non è meno abilmente trattata, a dispetto del suo ruolo subordinato, e l’espressione deliziata sul suo volto fra le ombre non disturba la calma idillica. I suoi movimenti appaiono lenti e deliberati e sembra persino camminare sulla punta degli zoccoli. L’andamento diagonale da sinistra a destra della composizione, comunque bilanciato dalla figura verticale di Venere, s’interrompe in corrispondenza delle forme di Cupido, dalle ampie natiche, che si volge verso l’interno. Egli dorme su una pelle di leone, di cui si possono distinguere la testa, la coda arrotolata e persino un paio di zampe, e su un drappo bianco. Si accuccia su questo rassicurante lenzuolo e lo afferra con forza nella sua stretta. Da sotto emerge un ultimo dettaglio simbolico, una torcia.
Normalmente, quando le torce sono rivolte verso il basso alludono all’estinguersi della passione. Qui però delle fiamme la lambiscono verso l’alto, e non pare esservi implicato nessun messaggio malinconico del genere, non più di quanto l’alata, e perciò celeste, Venere dell’Educazione di Cupido sia intesa a incoraggiare purezza di pensiero. Il tono della scena è ancor più soffuso che nell’Educazione di Cupido, ma in compenso il Correggio si è assicurato che sia visibile una parte maggiore dello sfondo. La vista attraverso gli alberi di un occhio di cielo al crepuscolo deve sempre essere per l’appunto servita ad “aprire” la composizione.
Correggio e gli Amori di Giove
La prima testimonianza su questa serie di dipinti è quella del Vasari, che ricorda come Federico Gonzaga abbia commissionato due dipinti a Correggio “per mandare allo Imperatore: cosa veramente degna di tanto principe” probabilmente in occasione dell’elevazione, da parte di Carlo V di Spagna, di Federico da Marchese a Duca di Mantova. A dispetto di queste affermazioni alcuni sostengono che fossero stati dipinti per la Sala di Ovidio nel Palazzo Te di Mantova, originariamente utilizzato come studio da Isabella Boschetti, amante di Federico Gonzaga.
I dipinti sono quattro, Il ratto di Ganimede, Leda e il cigno, Danae e Giove ed Io. La prima coppia da prendere in considerazione è Il ratto di Ganimede e Giove ed lo (Kunsthistorisches Museum, Vienna), entrambi nella collezione di Rodolfo II a Praga prima dell’attuale destinazione.
Ganimede. La storia di Ganimede, il pastorello che Giove, sotto forma d’aquila, rapì nell’Olimpo e rese
immortale come coppiere degli dei, era estremamente nota nel Rinascimento. Nondimeno, il dipinto del Correggio fu la prima rappresentazione di grandi dimensioni di quel mito, che Michelangelo stava “lavorando” nello stesso periodo attraverso una serie di disegni. Qualunque parte abbiano giocato qui desideri omosessuali o idee neoplatoniche, la versione del Correggio sembra sufficientemente diretta. L’inclusione di un cane serve a ricordare l’occupazione del fanciullo sulla terra ed è deliberatamente ritagliata sull’orlo inferiore della composizione per creare un effetto di prossimità e immediatezza. La curva della schiena del cane mette in movimento il dipinto e conduce 1’occhio diagonalmente verso l’alto attraverso il tronco d’albero centrale, strategicamente posizionato, fino al gruppo principale e ai piedi nudi del fanciullo.
Il pastorello non mostra alcuna paura di volare e ha il buon senso di aggrapparsi al grande uccello. In questa immagine Correggio rappresenta l’aquila con estrema precisione e realismo nei dettagli, al punto che il suo volo incerto non ci appare troppo inverosimile grazie alla straordinaria resa del piumaggio, abilità ricordata anche dal Vasari. Con un tocco estremamente caratteristico, egli fa aprire all’aquila il becco e allungare la lunga lingua scura per leccare il polso al fanciullo. Fluttuando sopra la distanza illimitata del digradante paesaggio azzurro-verde intorno al Monte Ida, l’aquila e il bambino sono uniti nei sentimenti quanto nei corpi.
Destinati o meno a Carlo V, non si può negare che gli Amori di Giove siano stati commissionati da Federico
Gonzaga: il suo gusto per i dipinti erotici è ampiamente testimoniato dagli affreschi del Palazzo Te, pure se resta da chiedersi perché, tra le fanciulle, comparisse anche un fanciullo. Michael Hirst arrivò probabilmente molto vicino alla risposta quando osservò che l’aquila era un emblema dei Gonzaga ed essendo l’aquila sin dall’epoca romana simbolo imperiale, in questo caso si potrebbe interpretare quale distinto omaggio per Carlo V.
Io. Se il Ganimede riguarda l’abbraccio del dio e del mortale mentre quest’ultimo è sollevato verso il cielo, Io ritrae invece un dio che scende sulla terra per sedurre una fanciulla. Come narra Ovidio, Giove, per nascondere il suo adulterio allo sguardo indiscreto di sua moglie Giunone, fece calare un velo di oscurità sull’incontro.
Correggio esclude ogni dettaglio estraneo e riempie lo spazio con il fumo denso del dio dissimulato. Giove non è semplicemente nascosto nel fumo; sembrerebbe piuttosto, in una brillante ispirazione figurativa, essere fatto di esso. Incorporeo, egli sembra divenire essenza solo quando entra in contatto con la fanciulla e mentre la sua mano destra le scivola attorno alla vita con la sua protezione di nube, le sue labbra cercano e trovano quelle di lei. Presto ella verrà avviluppata, ma per un momento possiamo godere della visione fugace della sua estasi.
Correggio ne distorce il corpo non solo per creare una coscia smodatamente ampia –taglio a cui era affezionato- ma anche per mostrare la sua gamba destra slanciata in alto e un braccio che avviluppa mentre l’altro la bilancia. La sua mano destra gesticola espressivamente, ma ella necessita di quel sostegno mentre apre la bocca e rovescia il capo, dolcemente disordinato e in puro godimento. La Io di Ovidio fugge via verso i boschi per paura di Giove: qui, invece, prende piacere dalla sua evanescente presenza.
In primo piano, proprio alla base della tela in angolo, è la testa di un cervo, dipinto molto lievemente sopra le rocce, quasi certamente un ripensamento. È mostrato mentre beve dall’acqua ai piedi di lo. La grande urna di terracotta si collega all’acqua: era l’antico simbolo convenzionale per la sorgente di un fiume, e rimase un luogo comune nel Rinascimento. La sua inclusione nel dipinto deve alludere al fatto che il racconto di Ovidio inizia narrando di tutti i fiumi nella Valle di Tempe e continua affermando che il padre di Io, Inaco, era un dio fluviale, e che ella aveva colpito l’attenzione di Giove ritornando dal ruscello di suo padre. Quanto al cervo, l’ipotesi più plausibile è che, in accordo con la tradizione dei romanzi medievali, rappresenti il desiderio amoroso.
Il formato alto e sottile del Ganimede e della Io suggeriscono chiaramente paralleli con le due Allegorie, della Virtù e del Vizio, e avrebbero avuto senso visivamente ai due lati di una porta. Ganimede sarebbe stato posto alla sinistra e la Io alla destra, e il modo in cui sono illuminati supporta questa opinione.
Le altre due tele, la Danae (Galleria Borghese, Roma) e la Leda (Gemäldegalerie, Berlino), hanno un formato diverso. Sebbene 1’altezza sia la stessa, hanno un forte sviluppo orizzontale e sono molto più quadrate della maggioranza dei dipinti secolari dell’epoca.
Danae. Il padre di Danae era Acrisio, re di Argo. Avvertito da un oracolo che un figlio di lei lo avrebbe ucciso, la imprigionò in una torre. Nel dipinto il Correggio riproduce scrupolosamente questa condizione, non solo mostrandola giacente su un letto a baldacchino splendidamente ampio, con la cortina indaco e oro e i montanti ornati di scudi classici, ma offrendo anche un punto di vista fuori dalla finestra su una splendida distesa di cielo azzurro, in cui le nuvole sono sfumate con accenni di verde turchese. La precauzione fu naturalmente resa inefficace dall’arrivo di Giove, che sedusse Danae tramutato in pioggia d’oro. Nella tela una nube sovraccarica si libra sopra il letto e una pioggia dorata comincia appena a staccarsi dalla sua massa. Tre gocce sono sospese nell’aria, altre già depositate sono visibili nei panneggi che in parte celano il corpo di Danae. In basso, Cupido, rappresentato come un ragazzo di una decina d’anni, siede familiarmente all’estremità del letto, con l’oro del baldacchino fra le cosce e la gamba arretrata che penzola al di là del bordo. Il ragazzo guarda in su verso la nube, e con la mano sinistra lentamente aiuta Danae a togliere il lenzuolo bianco che è la sua ultima copertura e attraverso il quale percepiamo le dita di lui e di lei. Con la mano destra egli indica esplicitamente, seppur superfluamente, al sesso di Danae, che è sul punto di apparire. In quanto a Danae stessa, sebbene afferri gli orli del lenzuolo, non sembra che lo stia trattenendo. Al contrario, le cosce sono aperte sotto la stoffa. Non si unisce a Cupido nel guardare verso il cielo, ma ella è una spettatrice eccitata che assiste al suo stesso svelamento. Sostenuta da cuscini soffici, sorride mentre guarda in giù oltre i piccoli seni alti, verso la lattea distesa del ventre.
Come per Io, i capelli sono disciplinati entro boccoli non troppo rigidi, che qui si fanno cadere giù per la nuca e sulla spalla destra. La Danae del Correggio è un’adolescente, una sorella maggiore di Cupido, che anche se sta ricevendo una visita dal signore di tutti gli dei, rimane mortale e umana.
Nell’angolo destro in basso sono due piccoli amorini, di cui uno alato, impegnati in attività che resterebbero
enigmatiche se non fosse per l’indicazione particolareggiata di un dettaglio, inserito dal Vasari nel mezzo di una descrizione. Egli fa riferimento ad “alcuni Amori, che delle saette facevano prova su una pietra, quelle d’oro e di piombo, lavorati con bello artificio”, in altre parole al fatto che stiano provando i due tipi di frecce d’amore, come descritte da Ovidio: “Un dardo che suscita amore e uno che lo scaccia”. Al loro fianco è una faretra piena di frecce le cui penne sono rosse e blu, presumibilmente per distinguere tra frecce d’attrazione e di repulsione.
Come in altri dipinti, anche qui il Correggio ha catturato la serietà leggermente laboriosa di bimbi totalmente assorbiti dalle loro faccende, e del tutto ignari delle preoccupazioni degli adulti.
Leda. L’ultimo dipinto considerato è il più esplicito di tutti. Mentre gli altri si occupano dell’anticipazione della passione e delle sue prime estasi, qui è rappresentato l’atto. È un fatto noto che Luigi, il figlio di Filippo, Duca d’Orléans, Reggente di Francia durante la minore età di Luigi XV (1715-23) e proprietario del dipinto, turbato dall’immagine dell’amplesso amoroso della donna, e forse dal suo sorriso appena accennato, arrivò a infierire sulla tela con un coltello e a distruggere interamente il volto di Leda. Il quadro Fu successivamente restaurato ma per avere un’idea del suo aspetto originale bisogna rivolgersi ad una copia che rivela due differenze fondamentali rispetto alla versione restaurata: la prima concerne lo sguardo abbassato e il sorriso, che erano entrambi molto più caldi; la seconda riguarda la torsione della testa e del collo. La testa della Leda del Correggio era totalmente disposta su un lato, e proseguiva la serpentina del collo del cigno. È probabile che l’audacia di questa concezione fosse eccessiva per i restauratori.
A differenza delle altre mitologie degli Amori di Giove, Leda era un soggetto relativamente comune e con molti precedenti antichi. Ma La trattazione di Correggio differisce dalle altre perché illustra Leda seduta frontalmente, con il cigno fra le cosce. Ella siede comodamente sull’argine, usando i vestiti abbandonati come telo, le dita del suo piede destro penzolano nell’acqua, mentre con una mano aiuta il cigno ad unirsi a lei, mantenendo l’equilibrio. La vellutata morbidezza del suo compagno contrasta in maniera indimenticabile con la calda vita della carne di lei, contrasto carezzevole e temperato da quell’abilità di sfumato in cui il Correggio eccelle. Se pure qualcuno avesse mai potuto descrivere questa scena in termini di stupro, nulla potrebbe essere più lontano dalla concezione del Correggio: la fanciulla si sta divertendo col cigno dalle dimensioni maneggevoli, ed il cigno con lei. Leda è al centro della composizione, al contrario della Danae disposta diagonalmente, e ci sono molti più elementi sussidiari rispetto al dipinto Borghese. Al di sopra della sua spalla sinistra si scorgono due episodi aggiuntivi: l’approccio iniziale del cigno, col becco aperto come per parlare, e la resistenza di Leda chiaramente tiepida e speranzosa, poi la sua dipartita e il ritorno di Leda alla normalità mentre la sua ancella l’aiuta a rimettersi le vesti, presumibilmente la stessa ancella che osservava intenta i preliminari. Il suo vestito è dello stesso colore, sebbene anch’ella abbia abbandonato alcuni dei suoi indumenti esterni, specialmente il mantello blu. Alcuni ritengono che queste figure secondarie siano ancelle di Leda che indulgono in una specie di bizzarra orgia di cigni, mentre i tre musici sull’altro lato, che suonano una lira e due flauti, rappresentano la distinzione fra l’amore divino di Leda e il più vile rapporto delle sue compagne.
Il gruppo sull’altro lato di Leda, di nuovo subordinato e posto in secondo piano, rappresenta un ovvio parallelo ai personaggi di supporto nella Danae. Di nuovo, Cupido è un ragazzo, non un bimbo, distinto dagli amorini. Egli pizzica una lira, con la faretra al fianco che non lascia dubbi sulla sua identità, e sembra deliziato alla piega degli eventi. I due amorini soffiano nei loro strumenti e appare ragionevole interpretare la differenza fra questi e la lira come una sottolineatura del contrasto fra gli aspetti di amore più terreni e più elevati.
Altro fattore di grande interesse del dipinto è il paesaggio. Il talento del Correggio come pittore della natura è sottovalutato, ma bisogna ammettere che nei suoi quadri generalmente si riduce ad uno scorcio atmosferico in distanza o ad un limitato sfondo boscoso. Qui, tuttavia, l’artista mostra la sua abilità non solo in una prospettiva di azzurre colline in lontananza, ma anche in una distesa di grandi alberi che mettono in risalto le figure e allo stesso tempo danno l’idea di una splendida esplosione di vita.
L’unico pittore rinascimentale che si possa affiancare a Correggio nell’esecuzione di soggetti mitologici è Tiziano, che però non dimostra la stessa attitudine a comprendere la sessualità femminile nel suo modo intimo e moderno. Inoltre la serie degli Amori di Giove di Correggio precede cronologicamente le scene affini che Tiziano realizzò per il sovrano spagnolo Filippo II e deve essere considerata a tutti gli effetti il primo corpus rinascimentale di pittura mitologica.
Correggio e gli affetti
Saper dipingere gli affetti è la qualità più riconoscibile di Correggio, che attraversa tutta la sua pittura.
Di lui, in aggiunta alla morbida carnalità degli Amori di Giove e ai chiaroscuri intriganti delle due Veneri, ci
cattura l’abilità di esprimere i moti e gli sguardi che circolano tra i personaggi delle composizioni e che li legano in elegie sentimentali di grande impatto emotivo. Questo si intende per affetti nell’arte di Correggio, l’insieme delle espressioni di reciprocità affettiva che unisce i protagonisti di un dipinto.
Già in opere giovanili come la Natività di Brera o la Madonna col Bambino e San Giovannino del Castello Sforzesco di Milano si intuisce questo talento. Sul proscenio di paesaggi azzurrini, dove il colore perde di saturazione e si ha un’impressione di lontananza e di vaghezza, Madonne dolci avviluppano il figlio in gesti protettivi, col capo reclinato e gli occhi partecipi. In questi volti si ravvisa una matrice fortemente leonardesca. Nell’ipotesi in cui Leonardo abbia eseguito la testa di fanciulla detta la Scapigliata, oggi nella Galleria nazionale di Parma, durante una sosta in uno dei suoi ultimi viaggi verso Milano, Correggio deve averla vista. Le sue Vergini hanno lo stesso volto reclinato e ambiguamente sorridente, con le palpebre abbassate, di quel misterioso e bellissimo frammento.
In dipinti come la Madonna Campori di Modena, dove i gesti aggraziati alludono piuttosto alla lezione di Raffaello, la circolazione affettiva è tangibilissima: il gioco delle mani racconta di un bambino che tenta di arrampicarsi sul petto della mamma, che si aggrappa alle sue dita per dare forza al suo slancio e che tende uno dei piccoli talloni verso l’esterno, quasi a puntellarsi sulla gamba. Il piccolo tallone tornerà nel Bambino della Zingarella di Napoli, dove ancora una volta ci colpisce la soavità di sentimento, che si esprime senza mediazioni e in modo carezzevole. Il Matrimonio mistico di Santa Caterina, anch’esso conservato a Napoli, è un apice dell’abilità di Correggio di trattare lo scambio affettivo e la trama psicologica. Qui un bimbo deve compiere il gesto di infilare l’anello mistico al dito della Santa, per celebrare un rito di alto valore spirituale. Quello che
appare un atto semplice per un adulto è in realtà molto difficile per un bambino dalle dita così piccole e tutto questo si legge, ed è chiarissimo, nello sguardo interrogativo e divertito che rivolge alla mamma. Qui si apprezzano anche una fusione atmosferica e una leggerezza di pennello che dichiarano quanto Correggio, come pochissimi altri artisti del Cinquecento, avesse compreso e impiegato la tecnica dello sfumato nel suo duplice valore formale ed emozionale.
In episodi della storia sacra più drammatici e cupi, come il Martirio dei santi Placido, Flavia, Eutichio eVittorino e il Compianto sul Cristo morto, concepiti da Correggio à pendant per la cappella Del Bono in San Giovanni Evangelista a Parma, la capacità di indagare con sottigliezza i moti dell’animo si concretizza nell’espressione del dolore e della tristezza, sentimenti che egli varia da una figura a un’altra restituendo a ogni personaggio la propria individualità. I protagonisti qui interagiscono tra loro attraverso un articolato gioco di gesti e di sguardi, che invitano lo spettatore devoto ad una più intensa partecipazione emotiva.
Correggio e le “difficultà dell’arte”
Giorgio Vasari, l’illustre primo biografo degli artisti e autore delle Vite, indica Correggio quale “grandissimo ritrovatore di qualsivoglia difficultà delle cose”.
Il vento, la pioggia, la polvere, il fumo, le fiamme, e ancora la bava degli animali, i bagliori delle armature, la trasparenza dell’acqua, la luce della luna, sono alcune delle difficultà in cui si imbatte la pratica pittorica sin dall’antichità, sono le parti che sfidano la mano del pittore ed esigono un eccezionale dominio della tecnica esecutiva.
Plinio racconta, nella sua Naturalis Historia, che il celebre pittore greco Apelle si recò a visitare il collega Protogene. Non trovandolo in casa tracciò col pennello, su un quadro cui quello stava lavorando, una linea di impressionante sottigliezza e andò via, senza lasciar detto chi fosse. Quando Protogene tornò, si avvide subito che quella linea poteva essere solo opera di Apelle e, sfidandone la perfezione, tracciò dentro l’altra una linea di colore diverso, ancora più sottile. Apelle tornò e vinse ripetendo l’operazione fin quasi all’impalpabilità della materia.
Anche nell’arte del Cinquecento il virtuosismo e la perizia sono ritenuti valori pregnanti nel giudizio sull’abilità di un artista, la sprezzatura che lo distingue nell’ammirazione di committenti e specialisti. Così Correggio si affaccia all’occhio esperto del pittore Giulio Romano, che guarda la Danae e ne sottolinea i capegli leggiadri di colore e con finita pulitezza sfilati e condotti.
Correggio è un maestro a dipingere i capelli, che sono la sua bravura massima, il campo della sua estrema diligenza pratica; sfilando i suoi capelli con un modo, non di quella maniera fine che facevano gli innanzi a lui, ch’era difficile, tagliente e secca, ma d’una piumosità morbidi, che si scorgevano le fila nella facilità del farli, che parevano d’oro e più belli che i vivi… dice Vasari. E d’oro ramato ci appaiono i boccoli leggeri che cadono sul collo di Venere nell’Educazione di Cupido di Londra, d’oro brunito la massa sul capo della Danae della Galleria Borghese, che si scolorisce nelle poche ciocche riverse sulla spalla, o ancora di un oro chiaro e brillante sono i riccioli morbidi della Maddalena nel Noli me tangere di Madrid.
È una capacità illusionistica, che attinge al mondo naturale e sfrutta gli artifici della tecnica pittorica per produrre esiti mimetici sorprendenti e che Correggio condivide con altri sommi artisti. Tra tutti si ricordi Michelangelo e la sua barba del Mosè, ottenuta d’ua maniera che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello.
dal Catalogo della mostra “Correggio e l’antico”, 22 Maggio – 14 Settembre 2008, Galleria Borghese – Roma
Ufficio Stampa: MondoMostre