Bellezza e neuroestetica nell’arte contemporanea

Johannes Vermeer – L’Astronomo, 1668

Ricordando che arte è sinonimo e culto della bellezza (che riguarda ogni cosa o entità che sia in grado di produrre emozioni positive), quando si parla di bellezza il primo pensiero va alle persone nei confronti delle quali si nutrono forti sentimenti attrattivi.
In secondo luogo associamo l’estetica all’arte.
E ci viene subito in mente quello che ha fatto l’uomo artista nel corso dei millenni, partendo dall’osservazione della natura, dei suoi simili e di se stesso.
A stretto contatto con l’ambiente l’artista ha assimilato, e fatto proprie, le “regole” della bellezza e dell’armonia insite nella natura stessa.
Abbiamo così visto che il senso della bellezza non è stato sempre lo stesso.
Anzi ha assunto significati, funzioni e forme di rappresentazione diversi nel corso dei secoli e nelle varie culture.
Viene così spontaneo chiedersi perché e come sia cambiato il senso del bello.
Finché l’artista ha cercato di “conquistare” la natura, dopo averne studiato capricciosamente le regole di rappresentazione, ha assimilato sempre di più e sempre meglio le sue forme con la tecnica e l’applicazione costante.
Lo sforzo di ulteriore oggettivazione delle forme della natura, integrato o sostituito talvolta da quello meramente comunicativo, ha portato in definitiva a un senso del bello chiamato “classico”, naturalistico o antinaturalistico, a seconda del momento storico di riferimento.

A partire dalla seconda metà del XIX secolo, non a caso con l’avvento della rivoluzionaria psicologia, la concezione dell’estetica ha voltato pagina.
L’artista ha in sostanza imparato a guardarsi dentro, mettendo in crisi il culto dei modelli estetici “rivelati” e delle regole assolute dell’armonia e della perfezione.
È cambiato così il modo di concepire la bellezza, l’arte e il mondo stesso, con nuovi significati e nuovi orizzonti formali.
Possiamo dire sia cominciata così l’epoca della cosiddetta arte “moderna” e/o contemporanea.
L’artista non ha più guardato ciò che esiste all’esterno del proprio io, per riprodurre e magari correggere le bellezze naturali con propri linguaggi e sentimenti, per ottenere il bello ideale, come suggeriva il Winckelmann, ma ha cominciato a scrutare nelle profondità della sua psiche (e continua a farlo) per visualizzare ciò che ha dentro, i suoi orrori, le sue sofferenze, le sue speranze, le sue credenze, i suoi valori, i suoi buchi neri.
Perché tutto questo?
La psicologia ha insegnato che all’interno della psiche umana esiste, tutto da scoprire, un intero universo non meno grande, non meno complesso, non meno bello di quello che siamo abituati a guardare e a studiare.
E se è vero, come è vero, che l’arte è “l’altro” grande strumento di conoscenza di cui l’uomo dispone, che cammina parallelamente con la scienza; se è vero che la bellezza è tutto ciò che può essere causa di sensazioni ed emozioni piacevoli, era inevitabile che si esplorasse all’interno di quest’universo (o multiverso).
L’apparente trasformazione e deformazione della realtà visibile che ne scaturisce, quando si esegue un’opera d’arte, senza copiare o guardare da nessuna parte (se non all’interno di sé), quelle stesse modificazioni delle forme di rappresentazione diventano intrinsecamente motivo di nuove emozioni, prima mai avvertite.

Amedeo_Modigliani – Ritratto di Paulette Jourdain

Si tratta di immagini più rispondenti all’indole dell’uomo, ai suoi ideali, alle sue debolezze e anche alle sue esigenze di sicurezza.
Ed ecco il nuovo senso della bellezza che scaturisce dalle forme interiori dell’individuo, soggettivando la realtà secondo il proprio modo di vedere il mondo, i propri sentimenti, mai guardandola bene in faccia.
È così che le fa perdere sempre più elementi di oggettività.
Modigliani ha infatti dovuto chiudere gli occhi per immaginare quelle forme allungate delle sue figure e dei suoi oggetti, per immaginare quei colori irreali, perché sono proprio quei colli e quelle forme allungate, quei colori irreali a offrire un nuovo senso della dolcezza, un’altra armonia e un’altra bellezza.
Anche l’orrore, il dramma, il caos possono diventare motivo di rappresentazione artistica e, quindi, oggetto di una “bellezza”, vissuta questa volta come meta-emozione Può essere il caso di un film dell’orrore vissuto come esperienza conciliante con alcune parti rimosse ma sempre inconsciamente presenti nel soggetto e, in definitiva, appaganti.
Può essere anche il caso del famoso “Guernica” di Picasso, rappresentante scene drammatiche di guerra, con volti e animali letteralmente storpiati, con la lingua di fuori, schematicamente geometrizzati.
Queste scene, vissute realmente in guerra, non possono che provocare angoscia e senso dell’orrore e della vera bruttezza.

Pablo Picasso – Guernica

Nel quadro di Picasso, il dramma, reso addirittura più cruento dai “mille” punti di vista dell’artista che illustrano infiniti dettagli e sfaccettature di una realtà pluridimensionale, è rivissuto dall’osservatore come una metaemozione piacevole, proprio perché quell’angoscia viene quasi esorcizzata, liberando sentimenti positivi.
Ciò avviene in virtù di quelle geniali semplificazioni e stilizzazioni formali ottenute, come se non bastasse, con i grigi, ovvero senza colori veri.
In altri termini, il “fenomeno” artistico diviene possibile e reale poiché, così come succede nei sogni che svolgono praticamente la stessa funzione, l’evento negativo viene mentalmente rielaborato e ricostruito in modo creativo, nel tentativo di dare soluzioni nuove, nuove energie ed equilibri.
Risulta così implicito che questi nuovi orizzonti della bellezza sfuggano alle “regole” classiche.
Sono destinati a formare nuove “categorie” all’interno di nuovi stili e di nuovi modelli percettivi.
Generano ognuna un nuovo senso del bello.
Ognuno si può riconoscere o meno in uno stile, in una categoria o in un tipo di bellezza, trovando delle affinità e compatibilità con il proprio mondo.
Ed è in questo contesto che si può parlare di nascita di nuovi gusti, di nuove mode, di tendenze e di influssi.
Ciò non vuol dire che la categoria del cosiddetto bello assoluto, della classicità, della perfezione si svuoti di significato.
Anzi, ogni volta che le nuove categorie si rivelano “vincenti”, ovvero occupano un posto nella storia e nel culto della bellezza, aggiungono di diritto e con il tempo, nuovi tasselli all’idea stessa della perfezione.
Un’idea che non può mai avere un traguardo e una definizione davvero “assoluti”.

La neuro estetica

Ludovica Lumer

Ludovica Lumer, ricercatrice di Neuroestetica, afferma che la ricerca scientifica e quella artistica possono affrontare problemi analoghi, condividendo percorsi comuni nella ricerca delle soluzioni.
C’è stata nella storia dell’arte, per le motivazioni espresse prima, una radicale presa di posizione nei criteri con cui considerare la bellezza e l’arte stessa.
Le avanguardie hanno compiuto il loro percorso di ricerca di modelli interiori da proporre alla nuova società che si apprestava a radicali mutamenti storici ed etici.
Un percorso avviato, ricordiamolo, con la parabola dell’Impressionismo e che metterà poi in discussione tutto l’apparato ideologico legato al concetto di armonia e, in senso lato, di ciò che un artista poteva offrire al fruitore dell’arte.
A un certo, infatti, è messa in crisi l’idea stessa che doveva concretizzarsi in un’opera d’arte e da qui la conclusione che il prodotto artistico poteva anche essere l’idea di un’idea e non solo.
Giusto per fare un esempio, Marcel Duchamp nell’esposizione nel 1917, presenta il suo “Orinatoio” all’associazione degli artisti indipendenti di New York.
Un orinatoio pubblico al quale egli metterà il titolo: “Fontana”.

“Fontana” di Marcel Duchamp (1917)

Cosa ha fatto Duchamp? Di fronte a quell’oggetto decontestualizzato, l’osservatore è costretto a fare uno sforzo diciamo “creativo” al fine di attribuirgli un significato diverso, e quindi nuovo.
Possiamo dunque affermare che questo è, in un certo senso, il motivo che caratterizza l’arte contemporanea.
Ad esempio, le “installazioni” degli artisti contemporanei, a differenza delle opere tradizionali, come una madonna col bambino o un paesaggio, coinvolgono attivamente lo spettatore nel processo creativo.
Ora, con la scoperta recente dei neuroni specchio, si è avuto un analogo salto di paradigma nelle neuroscienze.
Si è scoperto che il cervello di un individuo, osservando un’altra persona compiere un’azione, si comporta come se la stesse compiendo lui.
In altri termini, il cervello di colpo non è più in solitudine: se prima ne studiavamo soltanto gli aspetti solipsistici, legati alla visione, alle facoltà motorie e altre attività, dopo l’individuazione dei neuroni specchio, si è cominciato a considerarlo come inserito in un contesto ambientale e sociale.
Da qui il parallelo molto forte, tra l’arte contemporanea, in cui c’è una relazione attiva tra artista opera e spettatore, e le neuroscienze.
Un’opera d’arte è “bella” perché aumenta la nostra conoscenza del mondo.
E gli artisti non sono molto diversi dagli scienziati perché, attraverso un metodo e un linguaggio diverso da quello scientifico, hanno scoperto qualcosa di nuovo, “vedono” qualcosa che noi non vediamo e tentano di comunicarcelo.
Possiamo quindi considerare il cervello come un artista.
D’altronde lo è anche il sogno, per gli stessi motivi espressi fin qui e per la funzione che svolge.
In pratica il cervello opera una scelta tra tutti i dati disponibili e, confrontando l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera l’immagine visiva con un procedimento molto simile a quello messo in atto da un artista quando dipinge un quadro.
L’artista è a tutti gli effetti un neuro scienziato per la “semplice” deduzione secondo la quale lo scopo dell’arte è scoprire l’essenza delle cose.
“L’arte non rappresenta quello che vediamo, se mai rende le cose visibili” diceva l’artista tedesco Paul Klee.
Caravaggio, per esempio, non si limitava a rappresentare la realtà: la rendeva “più vera del vero”, perché riusciva a imprimere alle sue scene delle forme eterne.

Caravaggio – Giuditta e Oloferne

“La vita in un fotogramma” è la frase che meglio definisce l’opera di Caravaggio.
Raffaello Sanzio, quando doveva dipingere una bella donna, non ritraeva una modella in particolare (anche se aveva le sue preferite): ne osservava con attenzione tante, per acquisirle nella memoria visiva e selezionare poi i tratti “migliori” di ognuna nell’opera conclusiva.
Tra le opere d’arte più potenti ci sono poi quelle che generano una molteplicità di esperienze, come i tanto famosi “non finiti” di Michelangelo o i dipinti ambigui di Vermeer, che danno al cervello l’opportunità di fornire un varietà di interpretazioni.
In definitiva, se l’arte è in grado di generare miracolosamente un senso di gratificazione e di benessere negli esseri umani, significa che l’artista è riuscito a cogliere qualcosa di importante e di collettivo, che riguarda la mente e la psiche di tutti.

“Cappella Sistina, Creazione di Adamo” di Michelangelo (1535-1541)

Esempi di artisti neuoscienziati: Michelangelo e la sua energia

L’obiettivo di Michelangelo era quello di rappresentare non solo la bellezza formale e fisica ma anche quella spirituale e lo faceva in modo continuo, quasi ossessivo.

“Composizione II in Rosso, Blue e Giallo” di Mondrian

L’essenzialità di Mondrian

Lo scopo dell’arte, secondo l’astrattista Piet Mondrian (1872-1944), è semplificare al massimo tutte le forme che per natura sono complesse in questo mondo fino a ridurle a una o poche forme universali, in modo da scoprire le leggi fondamentali e invisibili della nostra realtà, magari inconsciamente, come sempre avviene nel “fenomeno” artistico.
Pollock è l’inventore della “action painting”: un metodo di pittura che si esprime impetuosamente attraverso l’azione diretta sulla superficie e non guarda quindi all’arte come opera finita.
Nelle sue tele si possono notare gli esiti delle strutture nervose motorie che hanno compiuto quei gesti: sono gesti di un movimento o di una “danza” diventati pittura.
Pollock dipinge il quadro nel suo farsi: “quando sono nel mio quadro” diceva “non sono consapevole di quello che faccio: un quadro ha una sua vita propria e io cerco di tirarla fuori”.

Jackson Pollock al lavoro

Tratto da “Storia dell’Arte: dal Realismo ai giorni nostri. Sintesi di storia dell’arte per la preparazione alla maturità” di Raffaele Renna
© Matematicamente.it
ISBN 978-88-96354-26-1
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Versione del 07/01/2014