di Francesca Romana Morelli.
Dopo la stesura del catalogo ragionato dell’opera figurativa di Capogrossi (2012), realizzato con Guglielmo Capogrossi nella volontà di gettare delle fondamenta solide su cui innestare la produzione del pittore dalla fine degli anni cinquanta, quando, giunge alla conquista del iconico, apparentemente enigmatico, mi sono resa conto come l’artista rechi già nel suo bagaglio pittorico gli strumenti e le scelte operative di fondo, messi a punto col lavoro compiuto nei tre decenni precedenti. Chiarirà in seguito: “Fin da principio infatti ho cercato di non contentarmi dell’apparenza della natura; ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza, e mi sono proposto di definirlo. Al principio ho usato immagini naturali, paragoni o affinità derivate dal mondo visibile; poi ho cercato di esprimere direttamente il senso dello spazio che era dentro di me e che realizzavo compiendo gli atti di ogni giorno.” (Argan, Fagiolo, 1967)
I dipinti tonali e quelli segnici scelti per questa mostra funzionano pertanto come le tessere di un puzzle, che una volta incastrate tra loro senza seguire un rigoroso ordine cronologico, ma piuttosto la concezione formale, l’uso dello spazio e del colore, rendono visibile la vera fisionomia di Capogrossi che si rivela non un Giano bifronte, non un artista schizoide o sdoppiato, che all’improvviso nega trent’anni della sua storia ma un artista coerente, ben centrato rispetto alla sua ricerca, in ascolto di se stesso, che affida al processo della sua pittura l’obiettivo di trasformare il nostro modo di percepire la realtà.
Nel costruire la mostra “Capogrossi. Dietro le quinte” ho cercato di privilegiare dipinti che potessero innestare un silenzioso dialogo tra loro, ma nel contempo, quasi come un fiume carsico, potessero ricostruire momenti focali del distillato lavoro di Capogrossi. Sono esposte opere quasi inaccessibili da diverso tempo, tra cui l’iconica “Superficie 274” (1958) presente nella personale a due con Lucio Fontana nella Gutai Pinacotheca a Osaka nel 1964, costituita da opere appartenenti a collezioni pubbliche e private giapponesi. La “Superficie 68” (1954), ancora oggi nella famiglia dell’imprenditore Gianfranco Moglia, che l’acquistò nel 1954 alla Biennale di Venezia, quando Capogrossi ebbe la prima strepitosa sala personale dedicata alla sua ricerca segnica. Nella sala dei Rilievi bianchi avrei voluto riunire qualche favoloso gioiello disegnato da Capogrossi e realizzato dal geniale editore romano di gioielli d’artista, Massimo Fumanti, che rivoluzionò questa forma d’arte, lasciando emergere il segno e lo stile dell’artista, attraverso l’utilizzo di materiali preziosi di altissima qualità. Ogni pezzo è un esemplare unico e se messo a confronto con le opere alle quali l’artista si è ispirato, utilizzando dei dettagli, emergono aspetti meno noti di Capogrossi, ma altrettanto importanti pe capire la potenza del suo linguaggio espressivo.
Per questioni di sicurezza alla fine abbiamo scelto di proporre soltanto due esemplari preziosi nel presente volume (nel frattempo stiamo lavorando con Guglielmo Capogrossi al catalogo generale dei gioielli). Introduce alla mostra una scelta di oltre venti disegni che tracciano l’itinerario dell’artista dal figurativo al segno. Ho volutamente iniziato con una sequenza di corpi femminili, all’inizio forme tornite, colorate, alla fine nudi scarniti dal vuoto dello spazio che li circonda, che così assume un valore equivalente.
La “Composizione di figure danzanti” (1947-48) si svolge su una superficie bidimensionale, dove l’intricata e vorticosa visione di corpi, forme e vuoti saturi di azzurro, costringe il riguardante a vedere tutto insieme, ma perdendo il controllo sull’insieme, lo sguardo finisce con l’incanalarsi nei lampi di colore, nelle forme dinamiche, in basso perfino fiammeggianti. La centralità della composizione è così smantellata, le figure si dissolvono nei segni di colore, che assecondano la musicalità del ritmo. Questa carta è un passo significativo verso la il che abita il campo attivo delle Superfici.
Dalla figura al segno
Per primo è Giulio Carlo Argan a cogliere il rovello dell’artista, l’isolata meditazione sul valore dello spazio. Su “La nuova Europa” il 10 febbraio 1946, osserva: “Le figure, che prima abitavano, ora incarnano lo spazio: lo recano in una particolare disarticolazione delle membra, che si profilano e spianano. ” Intorno al 1970 lo studioso ricorderà come negli ultimi tempi di quel decennio sconvolto dalla guerra, più volte Capogrossi si rifugia da lui profondamente turbato, agitato, simile a un personaggio kafkiano, perché capisce che il suo linguaggio sta mutando inesorabilmente, ma non sa ancora bene quale strada è destinata a prendere. Viene in mente un passo della Nausea di Sartre, che dato alle stampe nel 1938, ci restituisce il senso di disagio interiore che si doveva sentire alla vigilia del secondo conflitto in Europa, che avrebbe portato radicali cambiamenti nella civiltà umana. : “Sul muro v’è un buco bianco, lo specchio. È una trappola. So che sto per lasciarmici prendere. Ci siamo. La cosa grigia è apparsa allo specchio. Mi avvicino e la guardo, non posso più andarmene. È il riflesso del mio volto. Spesso, in queste giornate perdute, rimango a contemplarlo. Non ci capisco nulla di questo volto. (… ) Immagino sia brutto, poiché me l’hanno detto. (… ) M’appoggio con tutto il peso sulla sponda di maiolica, avvicino il viso allo specchio fino a toccarlo. Gli occhi, il naso e la bocca spariscono: non reste più nulla di umano. ”
Nell’anno in cui è pubblicato il romanzo di Sartre, Capogrossi si è rifugiato a Narni per nascondere la sua relazione sentimentale con Costanza Mennyey, ancora sposata al pittore Prampolini, e la nascita della loro primogenita Beatrice. Questi cruciali avvenimenti nella sua vita privata, lo hanno caricato di nuove energie, di prospettive progettuali molto più vaste, che lo portano a concentrarsi su opere di grande impegno, destinate alla Terza Quadriennale d’Arte Nazionale, che si aprirà a Roma l’anno seguente.
Archivio Galleria Nazionale
A quell’epoca la sua pittura ha iniziato a mutare. La critica lo reputa ancora un esponente del Tonalismo; addirittura Giuseppe Marchiori sul numero di aprile “Emporium” (1939), lo sollecita (come fa anche con Renato Guttuso, Afro e Franco Gentilini), a fare un “serio esame di coscienza” e a prendere a esempio Giorgio Morandi. Nell’esposizione romana il pittore bolognese, che ha una sala accanto a Capogrossi, appare un artista della generazione tra Metafisica e “Valori Plastici”, che ha saputo riscoprire con “ostinata volontà leggi e valori eterni. ” In realtà il linguaggio tonale di Capogrossi è stato sempre lontano dalla roboante arte di propaganda politica, anzi dà istintivamente corpo a soggetti opposti ai miti in cui si incarna il fascismo. Capogrossi, che fin dagli esordi negli anni venti ha naturalmente messo a punto la struttura fondante del suo linguaggio artistico, avverte dentro di sé, con chiarezza, la necessità di rompere gli argini del suo stile. Tra Roma e la natura edenica di Anticoli Corrado, nella Sabina, dove si trasferisce durante la guerra con la sua famiglia, inizia a studiare con un’attenzione intensa il corpo femminile, atteggiandolo in pose diverse, quasi sia un nuovo pianeta da esplorare. Sembrerebbe non preoccuparsi di essere convenzionale o estraneo alla tragedia della storia, quando i suoi colleghi, soprattutto giovani come Giulio Turcato, rigettano in maniera programmatica la pittura della sua generazione, che ha innestato in forme astratte “contenuti del tre quattrocento. “
Si protrae lungo tutti gli anni quaranta la sua crisi artistica, lenta e silenziosa, che risolve tra sé e sé. Oltre alla figura femminile (in particolare le Ballerine), nature morte, qualche paesaggio, Capogrossi, come un fabbro arcaico lavora la realtà fino a trasformarla nel suo .
Nel gennaio 1950, all’età di 50 anni, alla Galleria del Secolo, che lo ha seguito e lo ha promosso con solerzia, presenta la sua nuova produzione. Per Capogrossi è come tornare a riconoscere sé stesso. Del resto anche gli artisti, i letterati con i quali è in rapporto in questi anni tracciano nuove strade. Nel 1951 la Triennale di Milano ospita un convegno sulla Divina proporzione che, nel desiderio di restituire quella dimensione spirituale alle arti e alla vita dell’uomo attraverso le geometrie di un’architettura pura, capace di veicolare i valori di una collettività, chiama a raccolta architetti, ingegneri, tra i quali Le Corbusier, Max Bill, Pier Luigi Nervi, Bruno Zevi, artisti come Gino Severini, Lucio Fontana e Georges Vantongerloo, storici dell’arte e della scienza come Rudolf Wittkower, James S. Ackerman. Nel frattempo Michel Tapié, il teorico dell’arte informale, che secondo Georges Mathieu riunisce in sé “i tre caratteri contraddittori della logica, del misticismo e di Dada”, nel 1952 pubblica a Parigi il suo celebre testo teorico “Un art autre/Où il s’agit de nouveaux dévidages du Réel” (riproduce anche tre opere di Capogrossi).
La Fondazione Origine voluta soprattutto da Ettore Colla e poi da Piero Dorazio e Toti Scialoja, di cui fa parte anche Capogrossi, organizza una collettiva “Omaggio a Leonardo” nella primavera del 1952, nella sua sede in via Aurora a Roma. Nel testo in catalogo si rigetta il concetto di “bellezza”, che nasce dalla tradizione rinascimentale: “Ormai quasi tutti gli uomini della nuova generazione sono in grado di usare tali mezzi espressivi in modo da produrre all’infinito bei quadri e bellissimi disegni. In questo modo l’arte continuerebbe a essere nell’ordine del bello raffaellesco ed europeo, ovvio e pieno di orgoglio. ” L’idea è invece che ognuno deve trovare la “qualità” dentro sé stesso, in modo da stabilire un rapporto armonico con la vita e la cultura del proprio tempo. L’uomo di nuovo diventa il della propria civiltà nascente: “(…) portiamoci le mani sul viso riconosciamoci nelle nostre dimensioni di uomini in uno spazio pieno di altri animali, di miniere e di piante. Cominciamo a dire, come faceva Leonardo nel linguaggio del suo tempo, con delle immagini che gli altri leggeranno, i fatti nuovi che sentiamo latenti come problemi delle nostre coscienze singole verso l’unità. (…) La quantità di tale coscienza è la qualità dell’arte di una civiltà. “
Anche Capogrossi è consapevole che la sua ricerca da questo momento, avverrà in un territorio ristretto ma profondo come una delle grotte esplorate sul monte Circeo dal paletnologo Carlo Alberto Blanc, che nel 1954, vi scopre i resti fossili di un cranio neandertaliano e soprattutto una vertebra di balena, trasportata dai primitivi ominidi dal litorale nella loro abitazione, un gesto che porta Emilio Villa a interrogarsi sulle ragioni di quell’atto e a metterlo in relazione con la migliore produzione artistica contemporanea:
“Per fortuna i nostri antenati era sprovvisti del sentimento del bello(…) – scrive sul “Arti Visive” del novembre 1954- Questa decisiva e definitoria ripresa del gesto puro che ha condotto l’uomo preistorico alla comunicazione concreta con il mondo, anzi a una presa di possesso del mondo, è sottinteso, ma non tanto sottinteso da non essere almeno segretamente operante, nella maturità del lavoro moderno. (…) E una vertebra di balena, scoperta sul litorale o ritrovata nel flusso della immaginazione e del gesto che la realizza, è sempre più arte, cioè più tempo, più umanità, più energia, più intelligenza, più precisione, più purezza che non un paesaggio di Courbet o un noioso gruppo di Rodin. “
Anche Capogrossi compie consapevolmente un “gesto puro” quando segna con le proprie mani lo spazio concreto delle sue Superfici, perchè concepisce la abitata dal come spazio di un evento umano.
Mercoledì 21 Settembre 2022 – Domenica 6 Novembre 2022
Capogrossi. Dietro le quinte
cura: Francesca Romana Morelli.
GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
Viale delle Belle Arti, 131, 00196 Roma
lagallerianazionale.com
Immagine in evidenza: Capogrossi G., Superficie 600, 1960, olio su tela – Galleria Nazionale