di Ennio Bianco.
Non si può parlare in generale di Art Basel, è un evento enorme.
Non c’è solo la fiera con tutte le sue articolazioni (Unlimited, Messeplatz Project, Parcours, Art Basel Film, Art Basel Conversation), ci sono poi altri Musei e Centri espositivi che offrono perle uniche del panorama internazionale (Foundation Beyeler, Museum Tinguety, Kunsthaus Baselland Schaulager, Kunsthalle Basel, Kunstmuseum Basel e Kunstmuseum Basel Gegenwart, Hause of Electronic Arts, Vistra Design Museum) e in in aggiunta, per non farsi mancare nulla – direbbe qualcuno – ci sono altre tre fiere minori (Liste, Volta, Design Miami).
Una sintesi di ciò che ho visto è del tutto impossibile, così come sarebbe del tutto fuori luogo formulare un giudizio complessivo. Ciò che è realisticamente possibile è parlarvi di cinque opere che mi hanno colpito, che mi sono rimaste impresse anche a distanza di diversi giorni.
“Doors” di Christian Marclay (2022)
Una video installazione esposta ad Unlimited
Credo che nessuno si sia scordato del meraviglioso video “The Clock” per il quale Christian Marclay aveva ricevuto il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2011. Un video di 24 ore costruito montando spezzoni di film nei quali apparivano degli orologi e in cui lo spettatore poteva constatare, con non poca sorpresa, che l’ora proiettata sullo schermo coincideva con quella del proprio orologio.
Questa pratica di decostruzione e ricostruzione del racconto filmico, l’ha portato a costruire un’opera basata sull’entrare e uscire da porte. Così gli attori fanno qualche passo, aprono una porta, la attraversano e altri attori si trovano in un altro spazio, in un altro film, con un altro sonoro.
Anche se qualcuno ha scherzosamente osservato che potrebbe simboleggiare proprio il movimento dei visitatori ad Art Basel, nel loro entrare ed uscire dagli stand, certamente le porte che si aprono e si chiudono contengono una cifra simbolica ben più potente.
“Life After Bob: The Chalice Study” di Ian Chen (2021- 2022)
Una video installazione esposta a Hause of Electronic Arts
“The Chalice Study” è il primo episodio della serie “Life After Bob” che Ian Chen ha realizzato utilizzando la piattaforma Unity Game Engine.
Il tema che viene affrontato in questa storia è quello della impellente necessità di sviluppare programmi di Intelligenza Artificiale che aiutino a formulare scelte etiche e morali.
Siamo nel 2074 e la storia racconta come il padre di Chalice, Dr. Wong, abbia creato un sistema di intelligenza artificiale chiamato BOB (Bag Of Beliefs) e lo abbia inserito nel sistema nervoso della figlia neonata con l’intento di assicurarle un percorso di vita soddisfacente. Una decisione motivata dall’amore e dalla paura, sopraffatto dalla sfida di essere il solo genitore che desiderava solo il meglio per sua figlia.
La sua decisione si rivelerà disastrosa. Chalice, demandando sempre più responsabilità della sua vita a BOB, all’età di dieci anni si trova in uno penoso stato di fragilità; la sua identità, l’autostima e la resilienza al turbamento sono atrofizzati.
Tuttavia, in un finale pieno di speranza, la pura essenza umana di Chalice riemerge. Non è chiaro, tuttavia, in che modo il BOB l’abbia cambiata, proprio come noi umani rimaniamo incerti sugli effetti a lungo termine della nostra relazione sempre più simbiotica con l’intelligenza artificiale e la raccolta dei dati.
“The African Library” di Yinka Shonibare CBE RA (2018)
Una installazione esposta ad Unlimited
Si tratta di una grande libreria, con migliaia di libri che riportano sui dorsi i nomi delle figure che maggiormente hanno supportato e combattuto per l’indipendenza del continente africano. Contiene nomi di capi di stato, senza distinzione fra buoni e cattivi, e di personalità sia che siano rimaste nel continente o che abbiano dato vita alla diaspora africana, in ogni caso che abbiano contribuito alla formazione dell’Africa attuale.
Al centro dell’installazione c’è un tavolo con diversi computer, attraverso i quali si possono ottenere informazioni sulle personalità citate.
L’unico commento che si può fare è che quest’opera esprime una forza ed una bellezza (6.000 libri avvolti in tessuto stampato a cera olandese) che entra in conflitto estetico con le altre opere della sezione Unlimited.
Quei nomi sui dorsi sono le pietre con cui è stata costruita la Mitologia Africana.
“For a small room” di Jannet Cardiff & George Bures Miller (2005)
Installazione esposta al Museo Tinguely nell’ambito della mostra “Dreams Machines”.
Partiamo dall’inizio, partiamo dall’ispirazione. Cardiff e Miller trovano in un mercatino delle pulci del Canada rurale un centinaio di dischi d’opera in ognuno dei quali compare il nome del precedente proprietario scritto a mano: R. Dennehy. Nell’elenco telefonico trovano il nome di un certo Royal Dennehy, ma decidono di non contattarlo. Decidono che è più interessante creare un personaggio immaginario e di comprenderne la psicologia. In particolare, come è possibile perseguire tutta questa passione per l’opera nel completo isolamento del Canada rurale?
Cardiff & Miller lo immaginano in una piccola stanza, che ricreano, lasciando chiusa la porta e aperta una grande finestra. Quest’uomo, attraverso i suoi dischi, sta fuggendo alla sua esistenza e sogna di essere nei teatri d’opera delle grandi metropoli. All’inizio una voce lo descrive così: “In centro al palco un uomo è seduto da solo nella sua stanza circondato da altoparlanti, giradischi e dischi”. Poi inizia il brano “Una furtiva lacrima” dall’Elisir d’amore di Donizetti. L’uomo è lì, virtualmente, a volte è un’ombra che lo spettatore ha la sensazione di percepire.
E’ un’opera di grande forza poetica, nella quale la passione per l’opera genera una protezione al desiderio di fuggire dalle tragedie della propria solitaria e remota esistenza.
guarda “For a small room” di Jannet Cardiff & George Bures Miller su Vimeo
“Don’t swallow me!” di Louise Bourgeois (2008),
Opera esposta ad Art Basel
Quando un’opera parla da sola ogni parola in più è inutile.