Schermi di tela

Con sguardo nudo. La fotografia di Mario Dondero

di Ginevra Amadio.

Fuori da ogni gabbia estetica, dentro la carne, nelle pieghe dei volti. Sul ciglio delle storie. La fotografia di Mario Dondero è un impasto di sentimenti e impulsi, un’immersione nel vissuto, una sonda sull’esistenza di chi è simbolo perché individuo, campione di un’umanità che emerge in quanto tale, senza filtri o leziosità.

«A me le foto interessano come collante delle relazioni umane e come costanza delle situazioni» dichiara l’artista a Simona Guerra, autrice del volume “Mario Dondero“, pubblicato da Mondadori nel 2011. Ed è nell’invisibilità del quotidiano, nel reiterarsi di gesti banali che egli scorge un lampo, il barlume dell’ordinario. L’«arte dell’avvicinamento», come usa chiamare questo suo impulso, la sua attitudine, consiste nel costeggiare i territori più piani, i reticoli delle relazioni, laddove ogni incontro è un concentrato di storie, un empatico trovarsi , nel punto esatto dello sguardo.

Mario Dondero, seconda metà degli anni sessanta

Più che la tecnica, la “magia” dell’umano, i dubbi, le gioie nascoste dentro un ballo, in una preghiera, nel passo dei bambini che tornano a piedi da scuola. È un lavoro da antropologo quello di Dondero, una ricerca sul campo che equivale a calarsi tra le persone, a sentirne le voci, a captarne gli umori.

Nato il 6 maggio del 1928 a Milano, deve a questa città la vocazione alla ricerca, uno sguardo sul mondo che lo spinge a muoversi dal locale, anticipando quell’intreccio proprio della nuova globalità perché dal capoluogo lombardo passava già tutto, dai cenacoli di scrittori alla “stagione dei movimenti”. Ma è l’esperienza partigiana in Val D’Ossola a imprimere nella sua poetica quell’humanitas di cui parla il critico Massimo Raffaeli nell’introduzione al volume di Guerra. Il conflitto e il coraggio, la solitudine e la solidarietà.

Da qui la passione per un fotogiornalismo senza enfasi, perché il mestiere diviene un modo «di partecipare alla vita pubblica», di essere nel mondo. La figlia Maddalena, oggi direttrice di “Condé Nast Traveller” e de “La cucina italiana”, in un’intervista a Fabrizio Villa del “Corriere della Sera” dichiara: «Mio padre era quasi bulimico. Voleva sempre fotografare ogni cosa. Non stava mai più di due giorni nello stesso posto, viaggiava tantissimo». Locale e globale, ancora, oltre i limiti del tempo.

Mario Dondero, Tuffo nel Malecón, L’Avana, 1992

Un’anima libera e zingaresca quella di Dondero, tra Kapuscinski, Chatwin e il suo modello Robert Capa, capace di cogliere lo straordinario dentro e oltre il recinto del “sacro”, in un giovane arrampicato su un palo della luce in Lucania (L’uomo che voleva raggiungere la luna, Festa del Maggio, Accettura, Lucania, 1944) o nell’abbraccio di una statua a un bambino brasiliano (Un meniño de rua dorme in grembo a una statua a Bahia, Brasile, 1978). C’è un po’ di Pier Paolo Pasolini in questa attenzione al simbolo, quasi che il metodo semiologico-visivo del poeta sia confluito nelle immagini di Dondero, che dai dettagli fisici – senza alcuna premura estetica – deriva un’indagine, un reticolo di suggestioni che saldano l’individuale all’allegorico.

Mario Dondero, Pier Paolo Pasolini con la madre Susanna, Roma, 1962

L’intellettuale “corsaro” è del resto effigiato in unione simbiotica con l’amata madre (Pier Paolo Pasolini. Sullo sfondo la sua mamma Susanna nella loro casa all’EUR, 1962) o sul set di Comizi d’amore (1963), libero dalla quella patina “scomoda” che è essa stessa prigione ingombrante, a rimarcare la libertà di Dondero, quell’attitudine all’unicità che è svincolo dalle mode, dalle etichette di comodo. Anche la vita a Milano si muove sul filo del rifiuto, sull’estraneità al mondano che equivale a fame di realtà, a incontri in quel salotto alternativo che era il Bar Giamaica di Luciano Bianciardi e Carlo Bavagnoli, di Giulia Niccolai e Ugo Mulas.

Dondero ama gli scrittori e gli intellettuali perché «contribuiscono alla nostra vita, ci aiutano, alcuni di loro ci hanno proprio formato». Nessuna posa, nessuna reverenza mascherata, come dimostra la foto di Günther Grass che guarda i pesci in un acquario (1962) o ancora i ritratti di Edoardo Sanguineti, degli artisti Palma Bucarelli, Alberto Burri, Fabio Mauri, Mimmo Rotella, dell’imprevedibile – e imprendibile – Laura Betti.

Mario Dondero, Laura Betti, attrice e cantante, Roma 1963

Poi c’è la Francia, Parigi, la celebre istantanea degli autori del Noveau Roman scattata nel 1959 davanti alla sede delle Éditions de Minuit; vi si scorgono Claude Simon, Alain Robbe-Grillet, Claude Mauriac, Robert Pinget, Nathalie Sarraute, Claude Ollie, Samuel Becjett e l’editore Jérôme Lindon. Chi con lo sguardo basso, chi con il volto altrove.

È questa la magia di Dondero, lo scavo oltre il visibile, il viaggio al termine della superficie che raggiunge gli angoli più remoti della terra, da Cuba all’Africa, dall’Asia al mondo oltre Cortina.

Con gli occhi sempre a un’umanità “remota”, a ciò che si racconta poco e si dipinge male. Una traccia di nostalgia, una certa joie de vivre che è invenzione di un altro tempo. Di un’indelebile empatia.
Ginevra Amadio

Immagine in evidenza: Mario Dondero, L’uomo che voleva raggiungere la luna, Festa del Maggio, Accettura, Lucania, 1994
Immagini dalla mostra “Mario Dondero. La libertà e l’impegno
21 giugno-6 settembre 2023
Palazzo Reale di Milano
Piazza Duomo 12, 20122 Milano

“Mario Dondero. Ediz. illustrata”
di Simona Guerra (a cura di)
Editore: Mondadori Bruno; Illustrated edizione (19 maggio 2011)
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 224 pagine
ISBN-10: 8861595375
ISBN-13: 978-8861595378
Peso articolo: 386 g
Dimensioni: 19 x 2 x 12.5 cm