
Ora, tra sconosciuti, sento parlare d’arte o di viaggi come del clima, quando non c’è altro da raccontarsi.
Tempo fa, non troppo, era improbabile.
L’arte, come i viaggi, erano una vocazione.
Somigliavano alla rivoluzione, e infatti qualcuno si confondeva.
Non so bene se quest’ “ora” avesse già avuto inizio allora, comunque un’africana dal nome bizantino (L-ene), venne a chiedermi “dove comincia l’Europa?”.
La presi come una battuta di qualcuno che all’Europa non si era mai avvicinato a meno di quattromila chilometri e istintivamente risposi senza interesse, perché un’idea dell’Europa ce l’avevo ben chiara.
Non c’è infatti momento migliore per definire un’entità qualsiasi che quello in cui se ne hanno le palle piene.
Ci volle più tempo, altri incontri, e soprattutto una lontananza dall’Europa di una qualche consistenza temporale, per capire che la cognizione spaziale di un luogo l’hanno più chiara quelli che non ci vivono: un contadino ugandese può intuire lo spazio geo-culturale dell’Europa meglio di noi che ci abitiamo da sempre.
Ha solo da capire la carta geografica.
Provate anche voi con un luogo lontano, oppure, arrestando con un dito curioso e deciso i giri di un modesto mappamondo potrete percepire un Mediterraneo che separa ben poco e piuttosto unisce (come ogni lago), poi un’Asia che filtra dalle steppe immense e se la ride di confini politici e di romanticismi etnici.
Ma l’Africa? L’Africa è da ben altro definita.
Il suo nord arabo è come una corona sepolta nella sabbia.
La isolano tre oceani sterminati: due d’acqua e uno, infatti, di sabbia.
Era irraggiungibile come Atlantide per i parametri greco-romani che ancora regolano la nostra toponomastica (araba) ed il viaggio mitico di Ulisse, misurato su quelle distanze, avrebbe qualcosa della gita domenicale.
Nonostante questo, fors’anche per questo, chiederei oggi alla mia interlocutrice di un tempo: “dove comincia l’Africa?”.
E glielo domanderei come allora: con un dosaggio calibrato d’ignoranza avventurosa e d’insolenza letteraria, tipica di quelli che sin da piccoli non si accontentavano dell’antichità greca e romana, ma che senza una guida sicura partono per un safari e rischiano di ritrovarsi a Parigi, seppur sotto una Tour Eiffel che pascola, come il pastore in cui la sciolse Apollinaire, il gregge belante dei ponti sotto cui scorre la Senna.
E se per capire dove comincia l’Europa i suoi musei stipati servono sempre meno, non è detto che questa mostra di cinque artisti africani non riesca a condurci nel luogo in cui comincia l’Africa.
Lì l’arte è giovane come il naufragio che ha sepolto le sue civiltà storielle.
La storia, da qualche migliaia di anni, checché ne pensino i critici d’arte i giornalisti ed i tour operator, non ha risparmiato l’Africa, cosi come non ha lasciato indenni le loro intelligenze ne reso meno mediocri i loro mestieri.
Il nostro safari, infatti, percorre il lavoro di quel naufragio storico e, credetemi, è una via difficile ma essenziale per non perdersi, giacché solo sopra di esso può crescere l’arte sorprendente di questi cinque artisti.
Ed è una via tanto più efficace quanto i loro linguaggi possono sembrare anomali e scarsamente rappresentativi per chi cerca emozioni esotiche o idoli aggressivi, senza magari rendersi conto che in questi ultimi si insegue l’incubo manipolatorio di Picasso e nelle prime la nostalgia europea di Gauguin o forse la modernità sconvolgente e insaziabile del Doganiere? Ma il vecchio maestro era meno ingenuo dei suoi esegèti, e ad un Picasso già celebre che andava a rendergli omaggio dicendogli che loro due erano i pittori più grandi del momento, rispondeva “… è vero: lei nello stile africano, io in quello moderno”.
Via dunque le panzane primitiviste, gli schematismi tribali (come se gli scultori di Autun fossero stati, nel contesto dell’Europa romanica, meno tribali di quanto lo erano gli scultori Dogon in quello dell’Africa pre-coloniale); si piglino a calci i luoghi comuni coloniali, che l’apprezzamento delle arti primitive ha soltanto addestrati a farsi furbi.
Via anche il fair play politically correct, che cerca un mixaggio delle culture nel solo luogo dove gli è permesso: le aule universitarie.
Ma come si può scrivere di qualcosa che si erge sopra un naufragio? Lasciate quindi che Irene, ormai guida suo malgrado, mi osservi tra il perplesso e il severo e chieda: “come vorresti allora attrezzarti per questo viaggio? credi forse di essere uno spettatore neutrale, ne europeo ne africano, o peggio ancora tutti e due insieme?”.
“Manco per sogno” – ribadisco con falsa prontezza, di quelle che servono a guadagnar tempo mentre entrano in scena le risate progressivamente rumorose di Isaia Mabellini Mau Mau Sarenco Ghitai Aziz con tutta la sua casa africana, noi ormai lì slittati senza quasi accorgercene insieme a CheffMwai, David Ochieng, Abdallah Salim, John Nzau, Peter Wanjau e, appena più in disparte, un po’ nervoso, Richard Onyango – “Tanto per cominciare ritengo il termine spettatore un insulto.
Poi, lo sguardo sarà europeo, ma cos’altro potrebbe essere! e sarà pure quello di uno che guarda l’arte e qualche volta ci scrive sopra, anche se ritiene di avere altro da cui lasciarsi emozionare.
Per niente neutrale, quindi, ed anche notevolmente prevenuto, se proprio debbo esser chiaro.
Ma voglio guardarla senza soggezione, senza complessi di colpa, da uomo a uomo, da occhio a quadro, anzi.
Senza l’arroganza di insegnare ne l’intellettualismo peloso di apprendere.
D’altronde questi artisti sono tra i migliori che recentemente abbia visto in circolazione, e non avranno nulla da temere da tutti gli sguardi che hanno ancora voglia di guardare per poi agire”.
“Magari guardandoli con gli schemi dell’avanguardia?” ribatte Irene ancor più sospettosa, giacché si è magari laureata in un’università europea e sa di cosa sospettare.
“Perché no” rispondo “anche se il primo distinguo da fare è che i linguaggi sono così differenti l’uno dall’altro che qualsiasi omologazione di gruppo nei termini in cui lo erano quelli delle avanguardie sarebbe ridicola.
Tra loro si frequentano in maniera assolutamente aprogrammatica, però lavorano a volte insieme, gomito a gomito nel grande patio della casa che Sarenco ha fatto costruire in Africa (cioè in questa casa) per difendersi dal sole carnivoro.
Il padrone di casa è esigente ma per nulla invadente.
Gli stimoli che da non hanno mai la forma del suggerimento tematico e nemmeno tecnico.
Anzi, posso confermare che gli artisti sono arrivati così carichi di temi e idee e linguaggi, già un mondo forte e stagliato, che c’era solo la necessità di lasciarglielo sedimentare sulla tela o nello spazio.
Poi, perché no, anche scatenare un pò di rivalità e di spirito di emulazione non fa mai male all’arte; e tutti i fomentatori che si rispettino, per esempio quelli delle avanguardie, da Apollinaire a Breton, non hanno mai scherzato in tal senso.
Quindi l’avanguardia c’è e non c’è, anche se forse è qui il solo luogo dove potrebbe esserci”.
“Sembra di essere a Parigi”, scatta Irene ironica.
“Parigi si sposta ogni anno” strilla una voce fuori scena che sembra essere quella di Sarenco.
Non aveva dichiarato di non voler intervenire? In realtà siamo rimasti soli, e di fronte a noi si apre una parete concava come quella dei vecchi cinema, una sorta di emiciclo dove i lavori dei cinque artisti assumono la loro personalità disturbandosi a vicenda.
Cos’è una mostra che si rispetti se non un luogo dove le opere si rispondono anche male, sempre pretenziose e qualche volta sgarbate come sanno essere le migliori? Chi ha mai detto che l’ingombro schiaccia i valori? Eccoli infatti lì gli assatanati giocatori di calcio che Salim ha sagomato nel legno come già lo furono, anch’esse destinate ad un décor agonistico, le silhouettes di trompe l’oeil delle chiese barocche; segmentano una linea d’orizzonte oltre la quale l’uomo cavallo di Ochieng si sovrappone alle pubblicità medicinali di Nzau.
I quadri di Onyango, sempre straordinari.
scelgono un’altra parete, appartati come il loro autore che è già una star dell’arte africana contemporanea.
Più oltre, imponenti anche quando sono piccolissimi bassorilievi, i lavori di CheffMwai non fanno che confermare quella tensione costante che li rende tra i più emozionanti dell’arte d’oggi, sospesi come sono tra una storia negata (ed annegata) ed il presente crudo del legno.
Cosi come il legno è la materia nella quale Peter Wanjau intaglia le sue sculture policrome, ognuna delle quali grida uno scottante tema africano.
Tutti e sei gli artisti si muovono per costellazioni cicliche che hanno qualcosa di monumentale, che recuperano un respiro largo e antico anche quando lo declinano con i linguaggi d’oggi.
Così la Drosie debordante di Onyango (ossessione erotica e gigantesca dea-madre) si articola lungo un ciclo che non sembra volersi chiudere.
Inoltre, suggerendoci Rubens e Renoir, salda anche il conto con i reliquiari e le maschere trasportati dal tempo dilatato dei villaggi africani nello spazio accelerato delle avanguardie europee.
Drosie sta a Renoir come Jeanne Hebuteme stava alle maschere Luba.
Ogni continuità temporale salta, si svuota, improvvisamente accelera.
Il ciclo è visibilmente infinito, Onyango non potrà mai cessare di raccontare Drosie, cosiccome Momigliani sarebbe stato costretto a ripetere Jeanne all’infinito (la schiera infinita dei suoi falsari non lo surroga a caso, ed i collezionisti non cessano di “cascarci”. Ciò che conta è l’ossessione.
È difficile prevedere quando il “centauro” nero di Ochieng sarà sazio di consumare la sua solitudine nell’urlo e nella vendetta.
Da questo ciclo iniziato pochi mesi fa e già votato alla ripetizione, ad una fame che non si placa, spira una tensione sociale, una violenza che ha bisogno del mito per sublimarsi e non diventare cronaca.
Il realismo di Ochieng è diverso da quello del fratello maggiore Onyango giacché è soprattutto la realtà dell’Africa che è agguantata da due opposte sensibilità: analitica anche quando è affascinato dalla sorprendente violenza dei contrasti, dalla multiforme varietà dei particolari, dagli innesti occidentali e dalle loro metamorfosi africane quella di Onyango.
Sintetica, di respiro più largo, concentrata nell’individuazione di un mondo che non ammette distrazioni quella di Ochieng.
Il suo centauro nero al crepuscolo, già vecchio ma carico di una vitalità antica, prende a spallate la storia ma non può uscirne.
È in ogni caso una delle più sorprendenti trovate tematiche dell’arte di oggi, alla faccia di chi afferma che i contenuti in arte non hanno importanza.
“Ma chi è quello?” mi chiede Irene allarmata.
È piccolo, gli occhi neri come due cilindri di liquerizia non ammettono equivoci.
“Perdio, ma è Picasso”, dico con sorprendente naturalezza.
Esordisce affermando che dei soggetti se ne frega, ma non dei temi.
Poi prosegue: “La morte si può esprimere attraverso il Tres de Mayo, o con un cranio; lo si fa da sempre; ma non attraverso un incidente d’auto.
Io chiamo “tema” la morte, la rivolta, la sofferenza, il bacio.
Benché prendano le forme delle diverse epoche li si incontra quasi sempre, non si possono esprimere su comando, ma quando un buon pittore li incontra può diventare un genio”.
“Grazie maestro” dice Irene.
“Prego” risponde Sarenco.
Accompagna Picasso all’automobile.
Rasta è puntuale per la prima volta.
“Come la morte” commenta Irene e finalmente ride.
Peccato che Salim sia sparito dalla circolazione.
Avrebbe dovuto render conto a Picasso di quello strano cubismo africano che sconvolge le sagome tonde, traforate e intagliate, del vasto ciclo sul suo villaggio.
L’ossessione (ciò che manca a tanti frigidi calligrafi occidentali) è il nodo triplo in cui è serrato l’universo di questi cinque artisti.
Per Salim coincide con il suo villaggio (come già per Chagall), costretto al movimento perpetuo dei suoi abitanti ibridi e spigolosi: di volta in volta calciatori improvvisati, moschee schiacciate in un elegante mosaico di tarsie cromatiche, figure in circolare fuga, perché lì sempre torneranno.
Il suo “cubismo africano” è totalmente aprogrammatico, ed essendo inoltre scarsamente calibrato su quello europeo, si sente in dovere di rispondere soltanto alla necessità della propria ossessione.
John Nzau è quello, tra tutti, più disinteressato a raccontare, come ci indicano con chiarezza gli spazi vuoti di quadri dove campeggia, piccola ma brutale nella sua sorda esemplarità, la pubblicità medicinale, cioè la sua ricorrente ossessione.
Ma il racconto morto del compitino pubblicitario è come costretto ad un elettroshock da pittura.
Nzau non narra, poiché raccontano per lui, dopo esser state sottoposte a tale scossa le scenette agiografìche in cui i neri sono istruiti alla miracolosa magia medicinale (“bianca”) dei bianchi.
La Pop Art, gelata e muta, si faceva raccontare il mondo dalla modernità dei fagioli Campbell e di una Marylin ripetuta all’infinito.
Nzau, trent’anni dopo, usa la pubblicità medicinale come un reperto archeologico sopravvissuto ai disastri africani.
Recuperata nei retrobottega di cinema trasformati in magazzini di birra o in farmacie diventate distributori di benzina, raffiche pubblicitaria, ormai completamente straniata, è un messaggio tumefatto sporco ed un pò comico che apre e chiude una molteplicità di significati.
Nzau sospende il giudizio.
Si limita alla grande retorica del mostrare ed all’astuzia, istruita dall’arte della sopravvivenza, del fingere di lasciarsi raccontare.
Ma chi non lascia a nessuno il piacere di raccontare la storia propria e quella di tutto un popolo è CheffMwai.
I suoi bastoni surreali, spietati come i fucili di cui restano l’efficace e armata memoria, sono realizzati all’aria tersa dei quattromila metri di altitudine nei quali vive, proprio sotto l’ultima lastra rocciosa di un Monte Kenya che guarda tutti i giorni e di cui è ormai la memoria epica.
I suoi bassorilievi intagliati e dipinti, insieme ai bastoni, sono tra le poche novità sconvolgenti dell’arte contemporanea.
Raccontano di una guerra, quella dei Mau Mau, nella quale Cheff m l’armiere infaticabile, e della quale ripropone una concisa e secca rappresentazione come nei bassorilievi che hanno la forza tellurica del nostro miglior romanico, o una lirica sublimazione come nei bastoni in forma di paradossali e barocchi fucili, che sembrano fiori sontuosi.
Come fossero fiori nati sopra le tombe dei guerriglieri, di fronte all’indifferenza dei ghiacciai eterni.
“Fermiamoci qui – dice Irene – ci sarebbe molto da aggiungere, ma l’Africa la faccio iniziare dalla punta gelata del suo monte più alto.
Il luogo più caldo inizia dal gelo”.
“Non so l’Africa, ma sicuramente inizia la cena” – dice la voce tonante di Sarenco, ritornato con la bella moglie Halima ed una baraonda di persone tra le quali, insieme a tutti gli artisti, riconosco il Maresciallo di Campo Muthoni, l’architetto Martin Schuitz con l’affascinante moglie birmana, George che fuma un “antico toscano”, Carolyn con una maglietta bianca sopra la quale i seni già leggendari modellano una curiosa decalcomania: Picasso che dice qualcosa all’orecchio di Sarenco mentre Rasta gli apre lo sportello scassato della macchina.
Sotto c’è scritto, quasi illeggibile, “foto Garghetti”.
Saffo, la cuoca somala, si chiede se sarà sufficiente un pesce vela di 300 chili che Parise ha arpionato nel tardo pomeriggio.
Ki Buana lo taglia a fette finissime mentre cerca di aprire una fotocopiatrice francese del 1962 sperando di scoprirci il segreto dell’accumulazione e l’arcano della forma mercé.
Fuori piove.
Una donna dice ad un uomo: “non perdermi mai di vista. È fin troppo facile che accada”.
Lui giura che non sarà mai possibile.
“Ma lei già parte – dice Irene – come sempre”.
La raggiunge e se ne vanno insieme sotto un ombrello nero.
“Due donne che partono insieme è cosa dell’Europa” – dice CheffMwai in un gessato a righe bianche e marroni attillato come una tuta da sub, che l’acqua ha reso lucido come una pelle di serpente- “gli occidentali hanno un linguaggio di gesti e comportamenti che ci sorprende sempre.
Per esempio, gli inglesi, quando abbiamo iniziato a combatterli, ci attaccavano alle palle dei fili elettrici procurandoci delle scosse e ci davano delle grandi bastonate sotto i piedi.
Eravamo molto spaventati.
Dicevano anche che violentassimo le monache e mangiassimo le loro mogli, anche se noi, contrariamente alle tribù del deserto, abbiamo sempre disprezzato la carne umana.
Delle monache non parlo, perché non è mai di buon augurio.
Per spaventare i nemici avevamo mezzi più terribili, ma gli inglesi non si avvedono subito delle loro conseguenze ed i tempi della lotta si restringevano.
Cosicché iniziammo subito a catturarli vivi e, soprattutto gli ufficiali giovani, a segarli in due parti all’altezza dell’attaccatura delle gambe. Credo che ci restassero molto male”.
Enrico Mascelloni
1996
Tratto da
“Dialogo notturno sull’Arte Africana contemporanea alla luce del Piccolo Carro”
di Enrico Mascelloni e Sarenco
Safaribooks
Adriano Parise Editore
Colognola ai Colli (Verona), 1999