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AcquAria – Featuring the sculture habitat. Mostra collettiva

venerdì 29 Luglio 2022 - giovedì 29 Settembre 2022

AcquAria - Featuring the sculture habitat. Mostra collettiva

sede: Acquario Romano (Roma).
cura: Andrea Guastella.

Dal Novecento a oggi, non vi è stato artista – pittore, scultore o architetto – che non si sia interrogato sul rapporto tra la propria disciplina e l’idea di spazio. Magari declinata, come nell’arte di Picasso, in relazione con il tempo.

Cambia, in una parola, l’approccio all’opera, che cessa di essere oggetto da fruire solo per sé stesso, e guarda al contesto. A differenza di quanto accadeva nell’antica Grecia, dove – lo scrive Heidegger in Corpo e spazio (1967) – “le opere architettoniche e scultoree dei grandi maestri parlavano da sé. Parlavano, ossia indicavano il luogo a cui l’uomo appartiene”, non ha più una dimensione omogenea e misurabile.
Oggi è piuttosto l’artista che, interagendo con uno spazio sempre nuovo, “dispone dello spazio, […] orienta in esso sé e le cose e così custodisce e protegge lo spazio come tale”.

Ma cosa significa “disporre” dello spazio in un’epoca in cui il reale e il virtuale si confondono, con una tendenziale prevalenza del secondo? Cosa significa “custodirlo” e “proteggerlo” quando l’architettura dei musei è vuota, la scultura non si vede e gli occhi si aprono esclusivamente sulle fogge, ripetute all’infinito, del nostro quotidiano?

In questo orizzonte, desolante, di spazio pubblico abolito, quattordici scultori contemporanei hanno accolto l’invito dello Studio M’arte di presentare un proprio lavoro presso l’Aquario Romano: edificio nato a fine Ottocento come acquario, ma usato ben presto come cinema, teatro e deposito per il Teatro dell’Opera, sino al recupero, completato ai primi del Duemila, e alla sua trasformazione in Casa dell’architettura.

Al secondo piano di questa “casa” fitta di memorie, le loro opere occupano un anello completo, simmetrico e speculare, che dialoga attraverso una loggia col grande vano centrale.
La struttura, a pianta ellittica, ricorda da vicino monumenti romani quali il Pantheon, dove lo spazio è inventato dalla luce; edifici che si pongono come spazi assoluti; e cos’altro è un acquario se non un minuscolo ecosistema artificiale, autonomo e autoreferenziale?

Certo in una vasca i pesci si muovono e noi restiamo fermi. Qui le creazioni degli artisti rimangono statiche, ma in un percorso ciclico percorribile in più sensi.
E se davvero le sculture presentate in questa mostra sono pesci in un acquario, non ci resta che attendere, fissare lungamente, come quando si contemplano le onde sulla spiaggia o le fiamme nel camino.
L’arte non si commenta, si rivive.

Descrizione delle opere
Ciascuna opera in mostra, come ogni pesce, ogni roccia, ogni pianta dell’acquario, è portatrice di una propria storia: di un’eredità che, in Quel che resta di Davide Dormino, è affidata a una pagina bianca, a un foglio accartocciato. Ciò che è fragile, delicato diventa metafora di ciò che è fatto per durare: se guardiamo alla scultura da una certa angolazione, sembra quasi di scorgere una Piramide; l’unico edificio umano, con la Muraglia cinese, che sia possibile avvistare dallo spazio. La scultura può dunque convertire il fuggevole in eterno, ma a patto di interrogarsi sulla densità della materia e sullo scorrere del tempo, rovesciando la leggerezza nel suo esatto contrario. Quale folata di vento riuscirà a sollevare il marmo di Dormino?

In direzione opposta si orienta l’Appendihabitat di Antonio Tropiano: anziché rendere monumentale il quotidiano, l’autore immagina un mondo in cui le api impiantino le proprie celle nelle nostre abitazioni. Un mondo non per forza apocalittico: le celle esagonali, in cui ogni ape si limita a costruire la sola parete mancante rispetto alle cinque in comune, sono emblema di condivisione. Quella, per intenderci, che abbiamo sperimentato in piena pandemia, quando praticavamo la solidarietà senza ritorno o cantavamo tutti insieme dai balconi, ma che, a pericolo scampato, o meglio a tensione indefinitamente prolungata, abbiamo abbandonato: per appenderla al gancio, come un abito in disuso.

Il cuore, come nella scultura Ab imo pectore di Alessandro di Cola e Isabella Noseda, si è contratto, è diventato un osso. Ma guai a interpretare il cambiamento – e ciò vale per tutte le opere in mostra – in senso preordinato. L’Osso di cuore non batte più in petto, non pulsa sangue irrorando le vene e donando la vita; ciò non toglie che, esposto come un feticcio, esso inviti a raccogliersi, ad elevarsi, riconoscendo nella bellezza l’unica resurrezione possibile, la sola salvezza auspicata.

Viene insomma a stabilirsi, tra l’opera e il suo destinatario, un flusso di idee e sentimenti che esalta e trasfigura gli elementi del rapporto. È quanto avviene in The star gate di Hiroyuki Asakawa, dove la “porta del cielo” è la bocca di un avatar, di una betoniera, di un telescopio, di un occhio rovesciato. “Vedere il mondo in un granello di sabbia e il cielo in un fiore selvatico, tenere l’infinito nel palmo della mano e l’eternità in un’ora” (W. Blake): quale altro potrebbe essere, fatta la tara del lirismo – il lavoro di Asakawa ha forse un che di ironico – il fine dell’autore?

Di sicuro è questa l’aspirazione di Stefano Sabetta, nelle cui forme organiche si legge, come egli stesso afferma, un solo scopo: fermare il tempo, cogliere l’attimo che fugge come un fiore da terra. Il suo Elysium, una sorta di pianta marina agitata dai flutti, cristallizza nel marmo “l’effimero della bellezza e la bellezza dell’effimero”. E cos’altro è l’arte se non, lo predicava Adorno, “magia liberata dall’obbligo di essere verità”?

Neppure il Fiore immaginario di Mattia Savini, sebbene sia possibile individuare somiglianze con questa o quella pianta, è uguale a nessun altro. E tuttavia, dato un numero infinito di mondi possibili, in uno dovrà essere reale. E se un fiore di marmo e ottone che sboccia in un numero infinito di mondi possibili è reale in uno di essi, dovrà esserlo per forza in tutti gli altri.

Il senso dell’arte non risiede, come sa bene Reinhard Pfingst, il cui Eolo è, più che una statua, un accordo musicale, in un dettaglio fisico, ma in “un’armonia superiore dell’Universo, che non può essere spiegata ma evocata e contemplata”. In questo senso “l’arte arriva all’occhio come la musica all’orecchio”.

Arriva, come nell’opera di Ferruccio Maierna A fior di pelle, assemblando materiali d’uso quotidiano – fusti riciclati di olio da frittura – che rappresentano, secondo l’autore, “tutti gli eventi ed esperienze, sia positivi sia negativi, con i quali ci siamo confrontati durante la nostra esistenza e che lasciano dei segni nella nostra parte conscia e inconscia”, o piuttosto, come in The seed of energy di Cristian Vigliarolo, attraverso una frattura che dischiude il seme dell’origine – una palla di cannone – ovvero il mistero non ancora svelato: il colpo che ha prodotto la rottura.Come il senso di una poesia non riposa nella lettera ma nel ritmo, nel respiro, nel silenzio tra le parole, anche quello di una scultura va cercato tra le sabbie mobili del sogno.

Da un sogno di Cristina Giorgi è nato, appunto, il corpo dimezzato di un adolescente, che urina un denso liquido dorato. Nella scultura manierista, ad esempio nella Saliera di Cellini, le figure umane sono d’oro. In Oro della Giorgi il metallo prezioso è invece una forza che viene dall’interno. “Oro”, spiega l’artista, “è un nuovo inizio, un salvatore, in questo caso non divino ma umano”.

Un salvatore necessario se persino il pinguino di Filippo Tincolini ha bisogno di un gonfiabile – Inflatable è il titolo dell’opera – per scampare alle conseguenze del clima cambiato. Nella partita doppia che lo lega alla natura, l’uomo di oggi ha accumulato un passivo sconcertante. E non è che nei rapporti coi suoi simili la situazione sia migliore. Come tenere un atteggiamento distaccato nei confronti di qualcuno che ci sta per assalire?

L’indifferenza non è contemplata. Perciò le mani femminili di Laure Boulay gridano il Basta! di tutte le donne contro chi le disprezza, le picchia, le violenta, rompendo il muro di ipocrisia e ignoranza, sovente mascherato dalla fede, che le rende schiave.

Per la tradizione giudaica, Lilith, la prima moglie di Adamo, era stata così in contrasto col marito da abbandonare il Paradiso: era divenuta un demone. Ma Lilith, col suo coraggio e la sua energia indomabile, è il modello universale della donna emancipata. Lo è a tal punto che, nella sua Lilith, Alessia Forconi ha scelto di immortalarla con fattezze berniniane, quasi fosse una Teresa rediviva.

Come Bernini nel volto della Forconi, la Nike di Samotracia si reincarna in Jet Back di Fulvio Merolli: la sua creatura alata non è però una donna ma un uomo, e il suo corpo, anziché mostrare a vista le ferite del tempo, sembra formarsi gradualmente – anche la testa e le braccia potrebbero spuntare – dal liquido elemento.
Andrea Guastella

Espongono: Alessandro di Cola, Alessia Forconi, Antonio Tropiano, Cristian Vigliarolo, Cristina Giorgi, Davide Dormino, Ferruccio Maierna, Filippo Tincolini, Fulvio Merolli, Hiroyuki Asakawa, Isabella Noseda, Laure Boulay, Mattia Savini, Reinhard Pfingst, Stefano Sabetta.

Immagine in evidenza
di Fulvio Merolli