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Erica Mahinay. Contingente
venerdì 22 Marzo 2019 - sabato 27 Aprile 2019
sede: T293 (Roma).
“Granulare. Indeterminato. Relazionale. Mi lascio incompiuta, imperfetta. La mia mano stabilisce la misura delle mie conoscenze. Collezionare eventi, emergere, ripetere. Appassimento. Celebrazione offuscata della continuità. Una casa a LA. Il tempo ci restituisce a noi stessi. Fuori dai limiti e vulnerabili. Prendere il sole. S=0, mia cara Nessun passato o futuro, ma ancora, la durata. Nessuna persona. Osso asciutto e respiro. Colonne di marmo lisce. Un brivido. Ho sentito che la conoscenza è solo una voce finché non la si avverte nel corpo. Siamo sempre più inappropriati. Voci riecheggiano finché lo so. Lo so lo so lo so Indice di visione. XXX. Approssimazioni. Rivoluzione a livello cellulare. Fissare un confine è abusarne. Occhi brillanti e sgattaiolare silenzioso. Con molta tenerezza; Tua; Fortuna e coraggio là fuori”.
Erica Mahinay
Intitolata come un cut-up o un découpé e tenuta insieme dal format della mostra, questa serie assume la forma momentanea di un singolo lavoro prima di affrontare un futuro di separazione, distanza e riconfigurazione. La ripetizione indica un processo continuo di divenire all’interno di questa nuova serie di opere monocromatiche in cui la mano diventa misura per il mondo attraverso gesti viscerali e impronte. Questi gesti si allontanano dall’idea di marchiare o dal desiderio di lasciare una impronta individuale, e uniscono, invece, la trasparenza e l’interazione dei materiali attraverso un intimo atto di scoperta. I fori per le dita cuciti fanno pensare di poter attraversare il piano pittorico – entrando nell’immagine… provandola e indossandola. Questi dipinti sono sinceri promemoria che la superficie e l’immagine sono una costruzione. L’improvvisazione e l’evidenza della mano diventano un mezzo per ricordare l’autorialità come processo fittizio, una ricerca di un’immagine che si insinua e scivola nell’essere.
In “L’ordine del tempo”, Carlo Rovelli disgrega il tempo come lo intende da sempre e suggerisce, in alternativa, che il tempo possa essere meglio compreso a partire dalla struttura del nostro cervello e delle emozioni, piuttosto che dall’universo fisico. Suggerisce che non possiamo definire completamente o adeguatamente il tempo perché “non abbiamo la grammatica per farlo”. Erica Mahinay vede l’astrazione come uno spazio per avvicinare queste incognite. Non avere la grammatica è una traccia per la crescita. L’incertezza è un segno per la possibilità di scoperta e reinvenzione. Qui si può avere l’opportunità di formare nuove reti neurali. La terra di confine tra l’astrazione e la figurazione offre un luogo per esplorare il confine tra il sé e l’altro e la tenerezza per la condizione di incompletezza condivisa dell’umanità.
In concomitanza con “Ethan Cook. Bande”