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Paolo Baratella. L’epica della pittura
mercoledì 3 Maggio 2017 - sabato 17 Giugno 2017

sede: Studio Scarioni Angelucci (Milano);
cura: Claudio Marcantoni e Roberto Borghi.
La mostra raccoglie dipinti di medie e grandi dimensioni realizzati da Baratella tra la fine degli anni ’60 e la metà dei ’90: una sequenza di opere attraverso cui è possibile ricostruire il percorso dal “mito della politica” narrato nei lavori degli anni ’60 e ’70, al mito tout court indagato in quelli degli anni ’80 e ’90, che contraddistingue questo artista nato a Bologna nel 1935.
L’epica è il genere letterario dei “grandi racconti”, dei miti fondativi delle civiltà, degli archetipi personificati in eroi.
Baratella ha narrato pittoricamente le vicende politiche degli anni ’60 e ’70 seguendo un criterio epico, leggendo cioè La fine dell’imperialismo, come si intitola uno dei grandi dipinti in mostra datato 1968, o Che Guevara, protagonista di molti suoi lavori, in una prospettiva mitologica.
D’altra parte l’epica, nella Grecia antica, si afferma in coincidenza della nascita della “città intesa come comunità”, ovvero della pólis, la parola greca dalla quale nasce il termine politica.
In seguito al crollo delle ideologie che motivavano l’impegno politico degli anni ’60 e ’70, Baratella ha scelto di indagare il mito in sé, le sue strutture portanti sul piano narrativo, i personaggi e gli eventi che si collocano alle sue origini.
Da questo atteggiamento sono scaturiti i grandi cicli di lavori dedicati a Odisseo e Zarathustra: anch’esse opere con ricadute in fondo politiche, se è vero che il titanismo che sta conducendo alla catastrofe ecologica, alla quale Baratella è particolarmente sensibile, ha le sue radici nella hybris, nella tracotanza di certi eroi mitici che personificano atteggiamenti archetipici della condizione umana.
Nato a Bologna nel 1935 da genitori ferraresi, Paolo Baratella si stabilisce nel 1935 a Milano. Nel 1964 vive per un certo periodo in Germania, paese che diventerà per lui un punto di riferimento imprescindibile, anche in termini culturali e ideologici, e nel quale esporrà ripetutamente le sue opere. Nel 1967 presenta a Milano – insieme con Spadari e De Filippi – un ciclo di lavori dall’iconografia marcatamente politica che si conquistano un posto nella storia dell’arte italiana del secondo Novecento. In seguito il suo itinerario espositivo toccherà quasi tutte le capitali europee e le principali metropoli statunitensi. Ha partecipato alla Biennale di Venezia del 1994, alle Quadriennali di Roma del 1986 e 1999, alla Triennale di Milano del 1992. Ha insegnato per più di dieci anni all’Accademia di Brera a Milano, città nella quale si è svolta gran parte della sua esistenza. Proprio al suo rapporto con Milano è dedicato il testo che l’artista ha appositamente redatto per il catalogo della mostra. In questo scritto intitolato Nato tre volte, la terza a Milano, Baratella afferma: “Sono nato tre volte: a Bologna da genitori Ferraresi, a Ferrara dove sono cresciuto e ho studiato, a Milano dove sono diventato Paolo Baratella. Apro la finestra di qualsiasi casa o studio dove mi trovi a vivere girovagando, e fuori vedo Milano; dormendo sogno Milano; in qualsiasi posto la penso. Un fantasma si aggira per Milano: sono io. . . [. . . ]. Gli incontri fondamentali, persone, giovani artisti rivoluzionari o impegnati, come si usava dire, le analisi, il giudizio radicale, marxiano, sulla società che si andava formando e sulla cultura ufficiale, mi fecero prendere coscienza del mondo in cui vivevo. Mi resi conto che il mio orizzonte non era il tritacarne del benessere borghese; mi sentivo trasportato, preso, impossessato dallo scriversi in tempo reale della storia della società contemporanea partecipando ai momenti drammatici dello scontro tra potere e masse di gente sfruttata o emarginata, ultima, nella quale mi riconoscevo. La violenza con cui, durante gli scioperi e le manifestazioni di protesta, le forze dell’ordine, la celere e la mobile, sulle camionette si scagliavano in modo omicida sulla folla di manifestanti che chiedeva giustizia, era per me una cosa intollerabile, bisognava reagire. L’arte, la cultura, bisognava usarla per denunciare il malessere in cui languiva la società degli oppressi: questo il dovere, questo il senso, non c’era spazio per gli estetizzanti, cosa alla quale credo ancora, e soprattutto occorreva partecipazione, come cantava Gaber. Non era l’arte in sé a sommuovermi, ma la pressione sociale che ribolliva nei miei sentimenti e si faceva materia e gesto-manifesto nella pittura, nell’essere pittore, opzione alla quale non potevo rinunciare.”