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Paolo Pellegrin. Un’antologia
mercoledì 7 Novembre 2018 - domenica 10 Marzo 2019
sede: MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo (Roma).
cura: Germano Celant.
Paolo Pellegrin ha viaggiato in tutto il mondo con la sua macchina fotografica raccontando uomini, guerre, emergenze umanitarie ma anche storie di grande poesia e una natura portentosa e pulsante.
E’ membro di Magnum Photos dal 2005 ha vinto 10 World Press Photo Award e numerosi altri riconoscimenti in tutto il mondo, come l’Eugene Smith Grant in Humanistic Photography e il Robert Capa Gold Medal Award.
L’esposizione, intitolata “Paolo Pellegrin. Un’antologia”, nasce da un intenso lavoro di due anni sull’archivio del fotografo e ripercorre attraverso oltre 150 immagini, tra cui numerosi inediti e alcuni contributi video, vent’anni del suo lavoro, dal 1998 al 2017.
La mostra rappresenta un’occasione preziosa per conoscere il suo percorso creativo e documentario e per approfondire i temi che animano il suo lavoro, dove la visione del reporter e l’intensità visiva dell’artista si intrecciano e diventano un tutt’uno.
Il percorso, immersivo e coinvolgente, si articola tra due estremi: il buio e la luce.
La parte iniziale è buia.
Domina il colore nero, popolato dal racconto di un’umanità sofferente: la guerra, le tensioni, la distruzione, ma anche l’intima bellezza dell’essere umano nell’espressione delle sue emozioni più profonde.
La seconda parte è caratterizzata invece da uno spazio luminoso in cui prevalgono immagini di una natura che, nella sua maestosità e lontananza, sembra ricordarci la fragilità della condizione umana.
All’ingresso, una grande parete dedicata alla battaglia di Mosul del 2016, scelta da Pellegrin come metafora del conflitto, esplode come una Guernica contemporanea.
Qui troviamo anche una serie di immagini, scattate negli Stati Uniti, che parlano di violenza, razza, povertà, crimine.
E ancora uomini, donne, bambini, soldati, profughi, rifugiati, migranti, da Gaza a Beirut, da El Paso a Tokyo, da Roma a Lesbo.
Esseri che pregano, che piangono, che scappano, che combattono: ogni immagine coglie e sublima con sensibilità i conflitti, i contrasti, i drammi di questo nostro tempo così tormentato e complesso.
Come, in primo piano, il volto sofferente di un rifugiato a Lesbo in attesa di essere registrato, stremato dal caldo e dalla sete, quasi una Pietà contemporanea, o le gigantografie di tre prigionieri dell’Isis in attesa di essere processati, che Pellegrin ha ritratto nel Kurdistan iracheno nel 2015.
In fondo alla galleria, figure evanescenti, ritratti “transitori” colti in momenti di passaggio, affiorano appena dal buio come fantasmi (“Ghost” nella definizione di Pellegrin).
A questo racconto dell’essere umano, calato nel buio, fa da contraltare l’immersione in un ambiente improvvisamente luminoso, di una luce evanescente dove il dato reale sembra sublimarsi nel candore del ghiaccio dell’Antartide, protagonista di un recente reportage realizzato per la NASA, nello sguardo di una giovane donna rom, nella potenza degli elementi della natura, nella spiritualità e nella profondità del rapporto atavico dell’uomo con essa, come accade nel bagno di due giovani palestinesi nel Mar Morto.
Le due parti del percorso sono collegate da un passaggio che proietta il visitatore dietro le quinte della ricerca visiva di Pellegrin: disegni, taccuini, appunti, piccole fotografie, danno conto della complessità di un processo creativo che si fonda su ricerca, conoscenza e preparazione.
Pellegrin considera la fotografia come una lingua fatta allo stesso tempo di regole e di istinto.
Trova le sue radici in anni di studio intorno all’immagine, alla visione, allo sguardo: tutti aspetti che il fotografo ha allenato fin dall’inizio del suo lavoro attraverso l’interesse per la letteratura, la storia dell’arte, l’architettura, il cinema e, naturalmente, il lavoro di grandi fotografi.
Come scrive Celant, “Il reportage, per Pellegrin, non è un’operazione accelerata e veloce, distaccata e fredda, ma – come per Walker Evans e Lee Friedlander – è una manifestazione dell’interpretazione personale, che si alimenta di estetica e di espressività, di angoscia e di sofferenza. È la sintesi di una posizione critica del fotografo rispetto alla visione impersonale della realtà: un racconto, scandito per momenti e per capitoli, che aiuta a mettere in contesto la situazione affrontata e chi la documenta. […] Le sue fotografie sono frammenti di una scrittura per immagini e riflettono un tempo storico, basato sulle fisionomie, singole e collettive, delle persone che vivono una tragedia. Esse diventano anche una storia privata di Pellegrin che sente la necessità di condividere, con la sua presenza e la sua testimonianza, la responsabilità della nostra cultura verso questi eventi drammatici.”