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- Questo evento è passato.
Sostra. Violino di paglia
domenica 17 Febbraio 2019 - domenica 3 Marzo 2019
sede: 11Dreams Art Gallery (Tortona).
“Stella di colla a tre punte con un filiforme centro: meglio è se non lascio cadere di fianco e nel vuoto l’irresistibile richiamo.
In un modo o nell’altro, prima o poi, verrà tempo di usarli questi frammenti, questo pensai prima di decidermi a richiedere, appunto, gli acquosi ritagli, sti tagli di dolce legno di tre dritti lati e solo uno curvo; onda liscia comu ‘na tavula di mari mmenzu all’arghi sicchi chi scricchiulianu.
La voce a tonfi di risacche a pelo d’acqua dentro pigmee caverne, tra ricci, attinie e patelle. E qualche polpo in vacanza, fuori dalle matriperlacee case; una volta andava così. C’era una volta c’era. Il passato col futuro della frase ch’è passato. Quand’anche il primo non lo fosse, ci pensa il secondo a rimpiazzarlo. Bene ha fatto e farà.
Bene ho fatto.
In quel negozio, in quegli anni – metà ottanta-primi novanta (che simmetria senza centro in un tutto unico!)–andavo per le cornici che mi occorrevano – sessanta, settanta, ottanta, novanta, duemele di strozzamento, favusi cannarozza e tufi pallisti, dieci, venti: è la vita, fattezza bella, noi ci arricchiamo e vuavutri cantati, il giro di vite; Sette vite, Come le comete; in mare, negli anni cinquanta, nacque La casa-torre di Babele –, quantità contigue e medio-grandi era loro compito portarmele. Prendendola sempre lì, proprio lì avevo dato inizio, un bel giorno, al rimuginamento ottico dell’insignificante – in prima apparenza – asta di samba in odore di salti, comune, classica, buona per tutti gli usi e tutti l’opra, puru di pupi, zaffiata, ‘ncapu ‘ncapu, ruci ruci, quacina e miseria, e picciuli davanti a porta, due porte, il pomo di Giufà e l’ignoranza credulona, fertile terreno per l’ignoranza credulona. Quella sagoma tagliata in diagonale, chiodata e martellata, aperta e sgraffata su un acutissimo nitrito, nelle cedevoli zampe di un ostacolo che fu umido e fresco, ora asciutto e arrugginito. Cornici, le aste che la tavola rotonda in circolo mise, i cui frammenti, sagome e sezioni equine, bonarie teste e cadenti pance pregne, rigonfie fronti, piatte narici, gianduiotti assenti, code tagliate di bipedi quadrupedi, saranno piazze gestatorie, lo staffato di un pittore di cavalli, battaglie, vacche e buoi dei paesi loro, per tutto un mondo di sobborghi iperdensi e straripanti che nastri e rivette hanno sigillato. Favole e favelas. L’abbraccio-tenaglia, le masse in basso, ma proprio in basso attorno a un punteruolo, i furbi in alto a dire voi fate, noi siamo finché voi non sarete, non merita i due punti questa frase. Sì, quando a tutti riuscirà di renderla non-morta. Una mostra di Lega che non vidi perché troppo indaffarato in quell’antesignano, quadrupede anno. Cerchi concentrici allora già presenti in graffi disgiunti, una spanna in su, in giù – tutto ritorna in valle, e le colature diventano alte montagne, piedi di sangue, il punto tagliato: una nota fuori rigo –, a destra, a manca. Tutto ritorna uguale: la danza dei cerchi concentrici. Il punto lo si fa da quel re che di un palmo anticipa il museo che non è museo, il castello che non è castello, il palazzo che palazzo non è; da lì, poi, di venti in venti – Venti! Venti! 78-92 e tutte le candele spente –, al di là del punto-foro-vivo, si contano i vivi raggi d’azione, nere ali di spirali e dense acque di quella poca sillaba di fiume.
Quante avrei potuto realizzarne di piazze gestatorie! Tante! Tre-cento e passa! di rivoluzione in rivoluzione, fu una delle tele che a Parigi dedicai, ma la tela che dipinsi non avrebbe sortito effetto neppure sul mantello di un sigaro Avana, né sui copiosi frac di orchestrali che quell’apostrofata città abitarono – L’Aquila, Nietzsche l’avrebbe preferita a Roma –. Non era questa l’intenzione, in quel caso, di tessuto e non velocità di un taglio si trattava, in quella Francia, in quelle frange, in quelle Fiandre di lino, tessuto e olio, in quel frangente, se traverso più tagliente, questo sì. Quante ne avrei voluto realizzare! Le farò col desiderio di farle, le faranno altri in vece mia.
Cavalli e angolari a sorpresa; fette sghembe di grida, il richiamo a una, di esse solo una, piana, bianca, nera, giusta e opposta, dal trentasette al vuoto del quarantadue nel contenuto urlo – proprietà dell’unico e solo – scollato dalla sua febbre di cavallo: caduto, in un fiume di sangue che è già acqua passata di Borbera nel gorgoglìo di una marcia funebre del Selvaggio West. Tra violini, organetti, armoniche e tubolari campane. Palette di menzogne, gaudio pieno.
Bene ho fatto…”
Sostra