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Truly rural – Mostra collettiva
sabato 21 Settembre 2024 - domenica 10 Novembre 2024
sede: Palazzo Re Rebaudengo (Guarene, Cuneo).
cura: Bernardo Follini.
La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo presenta “Truly Rural” (Davvero rurale), una mostra collettiva che interroga gli immaginari connessi al mondo rurale, da una prospettiva storica e contemporanea. Concepita a partire dall’ambientazione di Palazzo Re Rebaudengo, sulle colline del Roero, la mostra propone un dialogo tra opere della Collezione Sandretto Re Rebaudengo e alcuni contributi di artisti di differenti generazioni.
Il progetto espositivo parte dall’idea romantica di paesaggio e dal concetto di “autenticità” per riflettere sull’idea di “rurale” nel senso comune e sulle sue origini. Dodici artisti esplorano i diversi fattori che costituiscono l’ecosistema agricolo, l’agricoltura, l’allevamento, la vita comunitaria e il turismo, per far luce sulle infrastrutture visibili e invisibili, sulle attività sociali e sui sistemi di produzione organizzati intorno a determinati valori ed economie. Attraverso le loro opere, la mostra offre un’analisi dei fenomeni socio-politici che influenzano la campagna e il comportamento collettivo dei suoi abitanti; Indaga la relazione tra comunità, discendenza e appartenenza, facendo emergere inquietudini private e collettive che investono il corpo sociale. Esamina come le immagini di usi, costumi e paesaggi siano state costruite e veicolate attraverso codici romantici, attraverso l’intreccio di questioni di classe, genere, razza e sessualità. Infine, esplora le storie popolari e il folklore per costruire nuovi immaginari e narrazioni.
Il titolo della mostra è tratto da Truly Rural (2019), video installazione dell’artista Eoghan Ryan (Dublino, IE, 1987).
L’opera, posta a inizio del percorso espositivo, è costituita da sedute in fieno e da un video che descrive la tradizione trasgressiva del carnevale di una piccola cittadina rurale tedesca. Nella cornice di festa del comune agricolo, il tessuto sociale è corrotto dall’emergere di ambigue tendenze di estrema destra e dalle reminiscenze del morbo della mucca pazza, metafora di un nuovo contagio politico. Il tema della malattia ritorna attraverso una selezione di lavori di Carol Rama (Torino, IT, 1918 – Torino, IT, 2015) provenienti dal ciclo intitolato La mucca pazza, realizzato nel 1996. L’artista sposta la sua attenzione dal dramma collettivo agli effetti del morbo sull’animale: le pose innaturali, le tensioni muscolari, i movimenti ossessivi, esplorando la malattia come terreno di espressione del desiderio. Rama proietta sui corpi degli animali affetti una continua oscillazione tra angoscia ed erotismo, identificando gli spasimi come sintomi dell’eccitamento sessuale.
Nel ciclo di lavori tornano numerosi elementi e motivi della sua pratica artistica, dall’esplorazione della relazione tra malattia, desiderio e pazzia, all’impiego della frammentazione corporea.
Dalle inquietudini sociali, la mostra si sposta sul panorama agricolo e le sue infrastrutture. Le serie Paesaggi e Storie di terre di Mario Giacomelli (Senigallia, IT, 1925 – Senigallia, IT, 2000), sviluppate tra gli anni Settanta e i primi Novanta, sono composte da fotografie che catturano le campagne intorno alla sua città natale, Senigallia, attraverso vedute aeree. Gli scatti sembrano vedute estetiche del paesaggio
rurale, ma sono in realtà composizioni minuziosamente orchestrate dall’artista, prodotte grazie al coinvolgimento di agricoltori locali nell’aratura del terreno.
In dialettica con lo sguardo dall’alto, le due sculture in ceramica Tail (2021) e Muse (2021) di Jumana Manna (Princeton, USA, 1987) ci conducono nel sottosuolo. Partendo dall’interesse dell’artista palestinese verso i paradossi dell’archeologia, dell’agricoltura e del diritto, in relazione alle eredità coloniali, queste sculture sono ispirate alle tubazioni drenanti, in uso nelle infrastrutture agricole dall’antichità fino a oggi. Nascosti dentro muri o sotto i pavimenti, i tubi hanno la funzione di isolare e nascondere alla vista della società materia e odori abietti e, potenzialmente, contaminanti.
Il tema dell’identità collettiva e dei processi di soggettivazione nel contesto rurale è l’oggetto d’indagine delle opere di Massimo Bartolini (Cecina, IT, 1962), Marko Lehanka (Herborn, DE, 1961) e Athi-Patra Ruga (Umtata, ZA, 1984). Senza titolo (1995) di Bartolini è composta da quattro fotografie che ritraggono l’artista stesso mentre assume differenti posizioni con il proprio corpo, sprofondando all’interno di un campo coltivato. Il rurale entra nel lavoro di Bartolini con un ruolo differente da quello di semplice sfondo: le sue opere vivono infatti un legame di interdipendenza con il luogo che le ospita. Peasant’s Monument (1999) di Lehanka è una scultura ispirata al disegno di Albrecht Dürer per un monumento alla Guerra dei contadini tedeschi, rivolta popolare avvenuta all’interno del Sacro Romano Impero tra il 1524 e il 1526. La versione di Lehanka, come quella di Dürer, impiega prodotti agricoli e attrezzi dei contadini come trofei impilati, ma in questo caso, il contadino rappresentato all’apice della struttura è privo di valenza eroica, come rassegnato della propria posizione subalterna nel mondo contemporaneo.
La fotografia Even I Exist In Embo: Jaundiced Tales Of Counter penetration #8 (2007) di Ruga è parte dell’omonima serie realizzata dopo aver incontrato nel 2007 alcuni manifesti razzisti della campagna del Schweizerische Volkspartei, partito popolare Svizzero di estrema destra: un gregge di pecore bianche calcia una pecora nera oltre il confine. Nel ciclo di lavori, Ruga si traveste da pecora nera, utilizzando il proprio corpo, l’estetica camp e la parodia per costruire delle utopie reali.
Fanno da contraltare ai paesaggi idealizzati della Svizzera di Ruga e ai campi arati di Giacomelli una selezione di immagini, parte del fondo di fotografia storica della Collezione Sandretto Re Rebaudengo.
Le fotografie in mostra di Mauro Ledru (Enna, IT, 1852 – Messina, IT, 1901) e Wilhelm von Gloeden (Wismar, DE, 1856 – Taormina, IT, 1931), realizzate nel corso degli ultimi vent’anni dell’Ottocento, nel caso del primo, e dei primi dieci del Novecento, nel caso del secondo, documentano la popolazione e i paesaggi siciliani. Lungi dall’esprimere neutralità, queste immagini raccontano la modalità con cui la fotografia è stata impiegata per costruire e fissare identità. La rappresentazione delle comunità rurali, della cultura e dei costumi locali della Sicilia prodotta da Ledru è vista sotto una luce nuova, se considerata la parallela attività del fotografo in Eritrea, a partire dal 1885, nella documentazione delle imprese militari e coloniali italiane.
Rispetto allo sguardo etnografico di Ledru, Von Gloeden costruisce un immaginario romantico del Sud, una visione idealizzata dell’Italia pastorale cosparsa di antiche rovine e abitata da contadini, pastori e pescatori. I protagonisti di questa Arcadia sono giovani siciliani, quasi sempre sessualizzati in una traduzione dell’estetica classica greco-romana in chiave omoerotica. La vicenda di Von Gloeden riguarda un processo di colonizzazione dell’immaginario, ma anche dei corpi di adolescenti, della Sicilia, responsabile inoltre dell’alimentazione dell’industria turistica a Taormina.
La patina storica delle fotografie di Ledru e Von Gloeden è richiamata dalla videoinstallazione A Night We Held Between (2024) di Noor Abed (Gerusalemme, PS, 1988). Il film è girato in pellicola Super8 e la sua dimensione analogica evoca la sensazione di una storia perduta, a metà tra l’idea di archivio e di memoria. L’opera fa parte di una trilogia dedicata alle fiabe e al territorio palestinese, in cui l’artista propone di leggere il folklore come strategia di emancipazione dal colonialismo. Nel film in
mostra, il mito del labirinto è impiegato come immagine per seguire comunità di donne palestinesi in coreografie rituali all’interno di grotte e dei passaggi sotterranei, nel tentativo di cancellare l’immagine romantica cucita su quei paesaggi dall’Occidente e di costruire una nuova memoria perduta.
L’interesse per il folklore riguarda anche la pratica Helena Hladilová (Kromeríž, CZ, 1983), le cui sculture Toklo (2022) Osuitok (2022) e Qopuk (2022) sono realizzate con differenti tipologie di marmo, quello “rosa Portogallo”, “verde Guatemala”, “viola Calcutta”. Simili a bastoni o a totem di culture ancestrali, sembrano condensare nelle loro forme e colori racconti popolari e l’immaginazione dell? bambin?. La fantasia dell’infanzia diventa fantascienza nell’opera Questione di tempo (1996) di Sarah Ciracì (Grottaglie, IT, 1972), installazione composta da due trivelle che escono dal pavimento. In linea con gli scenari apocalittici evocati dall’artista, l’opera sembra suggerire l’emersione violenta di una macchina dal sottosuolo. Quasi come una presa di controllo dello spazio espositivo, l’installazione capovolge l’idea di estrazione di risorse dalla terra per immaginare un’aggressione dal basso verso l’alto.
Espongono: Noor Abed, Massimo Bartolini, Sarah Ciracì, Mario Giacomelli, Helena Hladilová, Mauro Ledru, Marko Lehanka, Jumana Manna, Carol Rama, Athi-Patra Ruga, Eoghan Ryan, Wilhelm von Gloeden