Fra l’agosto e il settembre del 1960, Mattia Moreni, quasi quarantenne e già al culmine di una carriera straordinaria con successi internazionali fra Parigi, San Paolo del Brasile, Documenta a Kassell e diverse Biennali veneziane, si trova a Firenze, in viale Milton 25, presso la prima sede delle Edizioni d’Arte il Bisonte, stamperia nata l’anno precedente grazie al coraggio e alla volontà di Maria Luigia Guaita, con i torchi dell’Istituto Geografico Militare trovati dal pittore e incisore Rodolfo Margheri, collaboratore storico del laboratorio e curatore anche della presente cartella di sei litografie moreniane, tirate in cento esemplari, provenienti dalla collezione Ghigi-Pagnani.
Su una settima, in realtà introduttiva, compare il corsivo qui in esergo, un verso dal carattere quasi esiodeo (“Dunque, per primo fu Chaos, e poi/Gaia dall’ampio petto…” 1), come se il “poeta” Moreni ricorrendo al segno certo della scrittura volesse dare indicazioni di decifrazione della gestualità segnica primordiale, apparentemente disordinata, del pittore Moreni, massimo fra i rappresentanti dell’Informale europeo all’apice dell’epoca.
Si passa così alle sei composizioni o scomposizioni dagli sfondi colorati in marrone-beige, giallo-ocra, arancione, grigio, sulle quali appaiono le strutture naturali sgorgate dall’artista, incandescenze terrestri e padane, secolarmente nervose e anticlassiche – da Wiligelmo a Vitale da Bologna al Foppa, dai ferraresi quattrocenteschi all’Aspertini, da Caravaggio a Moreni stesso -, passaggi di neri in paesaggi, come aveva ben inquadrato Arcangeli con la definizione di “ultimi naturalisti” per alcuni pittori della metà del secolo scorso – fra i quali appunto Moreni, Morlotti, Mandelli, Bendini, Vacchi, Romiti -, intendendo il groviglio inestricabile di vita-morte-vita così evidente nel nostro, nulla mai autore dal pessimismo facile, né nichilista, persino nelle disperazioni cariche e acide cromaticamente, post-barocche e dada, di bamboli e umanoidi degli anni ultimi, ’80 e ’90, sebbene figli delle vedute spazzate e spezzate da venti e pennelli come aratri e rastrelli degli anni ’50 e primi ’60: alfine, partito da terre e cieli e poi angurie vaginali, approda alla completa sembianza facciale umana, paesaggio estremo da indagare, con elettrodi e microchip incistati nella carne e ossessivi ripetuti “perché”, quasi urla scritte sui limiti dell’arbitrio umano, la piccola cosa chiamata “io” rispetto alle necessità della specie, e dichiarazioni d’età sugli autoritratti – 18, 82, 66, 25 anni – del tutto non attinenti accanto al faccione sghembo, da vecchione che senza sconti rinuncia a, e annuncia l’assenza di significato del tempo, tanto più se umano, a fiato cortissimo, rispetto al corso universale delle cose: “La durezza è il dono più grande per l’artista, durezza contro sé stessi e contro la propria opera. ” 2
Privo di infingimenti, del resto, Moreni è sempre stato, anche nel lavoro accuratissimo delle nostre litografie dove graffi e spiragli in primo piano paiono retroilluminati dal colore uniforme del fondale che quasi essi desiderano coprire nel loro avanzare-emergere-calare con accensioni improvvise e spegnimenti, incontri e conflitti fitti di raggi, nuvolaglie basaltiche e frante, frenate sull’asfalto teorico del fondo che ancora riaccende i neri alla ribalta nel teatro apparito delle viscere di paesaggio moreniano, nel farsi sfarinarsi dei gesti che compiono il fuoco dell’immagine attraverso la grazia della violenza naturale, tutto comprendendo e compenetrandosi, bozze di terra – zolle rotte – e ipotesi di cirri in metamorfosi di strisce e filamenti cellulari, parvenze entomologiche e ombre zoomorfe, canine, sterpaglie bruciate e porzioni di colline rastremate, piccolo e grande contemporaneamente, impronte di gusci e bave di gasteropodi sulle trame striate di accumuli e sovrapposizioni pur nell’equilibrio – autentica sprezzatura alla Castiglione – delle masse crivellate e mai piene.
Ciò che qui si fa vivo non è blocco uniforme né inerte, anzi architettura di tempeste pulsanti e non definitive, rette incidenti, oblique spesso nel corpo d’insieme, il cataplasma centrale sferzato, quasi squarciato, da venti o eventi ignoti, coreografia lirica a modo suo, ricordando lo Stockhausen di Kontra- Punkte (1953) e ancor più del coevo Kontakte (1960), panorama sonoro in cui con pochi strumenti il compositore ha ottenuto varietà inedite di moti e attriti e causticità come risalenti da abissi inesplorati. Restano fissate queste agitazioni innanzi al nostro vedere, sfidando gli interrogativi e le alternative di soluzione su come e perché – esiste un senso? – sia possibile che la danza probabilistica e sub-atomica delle particelle in relazione produca caos fertile, ciò che poi ha nome forma realtà visione, sino al pensiero stesso che, sosteneva Platone nel Teeteto, “non è altro che un discorso che l’anima intesse con sé stessa sulla base di ciò che sente e vede intorno a sé.” 3
Moreni amava la forza feroce della natura, né bonaria o malvagia, e l’ha restituita per una vita con energia sontuosa, spietatamente, riflettendo sull’inarrestabilità del decadere-rinascere, di cui rendono testimonianza chiara le litografie del Bisonte oggi qui integralmente esposte.
Luca Maggio
mercoledì 9 Dicembre 2020 – domenica 20 Dicembre 2020
Mattia Moreni. Le litografie del Bisonte, Firenze 1960
PALLAVICINI 22 ART GALLERY
Viale Giorgio Pallavicini, 22
48121 Ravenna
pallavicini22.com