Science Art Visions

Freud, Jung e l’arte del Novecento

Non possiamo non citare in una trattazione sull’arte del Novecento (ma vale anche per tutta l’arte di tutti i secoli) le figure dei due padri fondatori della psicoanalisi e della psicologia: Sigmund Freud (1856-1939) e Carl Gustav Jung (1875-1961).
Freud, in particolare, ha influenzato il movimento espressionistico nella ricerca artistica e, di riflesso, tutta l’arte contemporanea che ne consegue.
Osservando le opere degli espressionisti e in particolare di Schiele (l’artista maledetto, connazionale di Freud), si riscontra questa propensione a indagare sulla vita umana, con un’analisi profonda e introspettiva del soggetto stesso.
L’artista in genere, così come fa anche Schiele, assume il compito di interpretare psicologicamente i soggetti (nei quali s’intravede un’irrefrenabile ribellione e provocazione), cercando nel contempo di “sublimare” le pulsioni represse.

Sigmund Freud fotografato da Max Halberstadt (1922) per il New York Times, immagine dall’archivio della rivista Life

Sappiamo quanto Freud si sia interessato all’arte in generale, pur non essendone un cultore in senso stretto.
Risulta in un certo senso ovvio constatare come, alla luce delle teorie freudiane, la critica in generale abbia spiegato l’espressionismo quale risultato di un “pensiero inconscio” che turba l’artista nella sua intimità, portando quest’ultima verso l’esterno per mezzo dell’arte, onde coinvolgere anche la mente dell’osservatore.
Se si accettasse tale opinione, l’opera d’arte risulterebbe il comune luogo di proiezione delle pulsioni profonde e inconsce dello spettatore e dell’artista, ignari di ciò che succede nel magazzino nascosto del loro inconscio, all’insegna dell'”io che non è padrone in casa sua”, come diceva appunto Freud.
Tuttavia, per Freud, il fine ultimo dell’artista non deve essere una rappresentazione meccanica dei personaggi, ma quello di sublimare e trasferire al livello “preconscio” i meccanismi inconsci che si manifestano alla nostra coscienza, esteriorizzandoli e rendendoli accessibili a qualsiasi spettatore.
È interessante notare come l’inconscio di per sé non abbia alcun valore artistico per Freud, che cataloga espressionisti e surrealisti addirittura come “matti”, poiché sospetta che questi movimenti confondano gli istinti primari con l’arte.

La posizione di Freud sull’arte moderna appare così di evidente disinteresse, se non addirittura di repulsione, per tutto ciò che risulta ai suoi occhi “contemporaneo” e maldestro.
Alcune sue lettere, malgrado la loro brevità, ci aiutano a comprendere perché considerava l’espressionismo e il surrealismo come non-arte.
Il 21 giugno 1921, recensendo un opuscolo che il medico Oscar Psister gli aveva inviato, Freud scrive: “Ho preso in mano il suo opuscolo sull’espressionismo con curiosità fervida e con altrettanta avversione, quest’individui non possono pretendere al titolo di artisti“.
Il 26 dicembre 1922, commentando un disegno di un artista espressionista che gli aveva inviato Karl Abraham, Freud è ancora più cinico: “Caro amico, ho ricevuto il disegno che presumibilmente dovrebbe rappresentare la sua testa. È spaventoso. Ho sentito dire che l’artista sostiene di averla vista cosi. A persone come lui non si dovrebbe permettere di accedere ai circoli analitici perché essi illustrano in modo quanto mai sgradevole la teoria di Adler secondo cui sono precisamente gli individui con innati gravi difetti della vista che diventano pittori e disegnatori.

Il già accennato disinteresse di Freud per l’arte spiega la sua posizione di imbarazzo e di rifiuto nei confronti dei movimenti di avanguardia. è stata sicuramente un’occasione persa per la cultura e per l’arte stessa. Del resto, questo è un copione che si ripete spesso, a proposito di grandi menti e ricercatori che rivoluzionano con la loro opera tutto il pensiero dei secoli a venire, e danno poi grandi contributi anche in altri campi di loro non interesse, senza saperlo e volerlo. Il contributo di Freud all’arte contemporanea, suo malgrado, è sotto gli occhi di tutti e in particolare degli addetti ai lavori.
E sulla scia di Freud, tale contributo sarà ulteriormente arricchito e ampliato dall’opera immensa di Carl Gustav Jung. Se Freud apre un sentiero nel mondo dell’invisibile (inconscio), Jung ci aggiungerà delle autostrade, alla ricerca dell’ignoto e dei significati più illuminanti e sublimi dell’arte. Gli artisti, con Freud, hanno compreso le modalità e i luoghi di ispirazione evocatrici delle immagini artistiche che, proprio in quanto espressione delle regioni inesplorate e irrazionali della psiche umana, non potevano non cozzare con i principi fondamentali della rappresentazione naturalistica e poi classica del mondo conosciuto. Per arrivare alle conquiste artistiche del Rinascimento ci sono voluti tanti secoli di scoperte e di tentativi, fatti a “prove ed errori”. Si tratta di grandi conquiste sicuramente, ma l’arte non si può fermare, così come non si può fermare la scienza.

Carl Gustav Jung

Con Jung, successivamente, una volta staccato il biglietto d’ingresso autostradale della ricerca, gli artisti hanno continuato a correre lungo il percorso infinito dell’anima, comprendendo che la dimensione sessuale (la “libido” di Freud) non può essere la sola forza motrice delle nostre immagini. Il sogno “diventa” non solo oggetto d’indagine dell’inconscio e della persona, ma soprattutto, alla luce delle conoscenze attuali, è considerato esso stesso un’opera d’arte.

Da “Il libro rosso” di Jung, Bollati Boringhieri, (2011), leggiamo che nel 1918, in un saggio intitolato: “Sull’inconscio”, Jung osservò che ognuno di noi si trova a cavallo fra i due mondi della percezione sensibile e della percezione inconscia… “Se per Friedrich Schiller l’accostamento di questi due mondi poteva avvenire grazie all’arte, per Jung “la conciliazione tra verità razionale e verità irrazionale può realizzarsi non tanto nell’arte quanto piuttosto nel sim-bolo, perché il simbolo contiene, per sua natura, ambedue gli aspetti, quello razionale e quello irrazionale“.

Egli sosteneva che i simboli scaturiscono dal profondo inconscio e che la più importante funzione di quest’ultimo è proprio la produzione di simboli. Lo psichiatra chiarisce, a tal proposito, che mentre la funzione compensatoria dell’inconscio è sempre presente, quella di estrapolarne i simboli si manifesta solo quando ci disponiamo positivamente a riconoscerla.
Inoltre per Jung l’arte assume un ruolo catartico, di liberazione e considera l’istinto a creare dell’uomo come un’esigenza cardine e fondamentale dell’esistenza: esso non deve essere soppresso o inespresso nel soggetto, altrimenti può creare problemi nell’equilibro psicologico e nella salute mentale.
Jung postula l’esistenza di un inconscio collettivo, il quale trascende quello del singolo e si fonda su forme primordiali comuni a tutti gli uomini: gli archetipi. Da queste forme tipiche di rappresentazione nascono le idee che l’artista può tramutare in opere d’arte o, comunque, eventi creativi intrisi di significato.
Jung, come è noto, ha elaborato, da studioso del profondo, una miriade di grafici simbolici e significativi, proprio in quanto visionario, sperimentando su se stesso i suoi assunti teorici di partenza. Però non considera come arte questi disegni sui simboli che, di per sé, sono solo dei rivelatori di dimensioni altre. Spetta invece alla sensibilità e alla creatività dell’artista fare, di quei simboli, delle opere d’arte vere e proprie, dopo averli “rintracciati” attraverso una personale indagine introspettiva, per poi farli diventare un grande strumento di conoscenza in chiave appunto artistica.

Il teatro dell’anima

Cos’è l’inconscio? L’inconscio è un insieme, molto variegato e contraddittorio, di forze presenti nella nostra psiche, ma di cui non siamo consapevoli. La nostra psiche rappresenta, infatti, la contraddizione fatta persona di tutta l’esistenza. Per questo motivo, non mi devo meravigliare se normalmente riesco a godere di meravigliose opere classiche, come l'”Apollo e Dafne” del Bernini o l'”Amore e Psiche di Antonio Canova, che rappresentano appunto la parte di me che esige l’armonia e la bellezza universale condivisa più o meno da tutti, e se invece, d’altro canto e in altri contesti, mi viene da apprezzare (e lo comprerei se potessi) un quadro di Alberto Burri fatto di catrami o di plastiche bruciate e schifose, oppure un semplice taglio fatto sulla tela inerme di Lucio Fontana o addirittura se vedo con simpatia anche una “composizione” di scatolette dal titolo inequivocabile “Merda d’artista” di Piero Manzoni, comprato a 124. 000 euro.

Spatial Concept “Waiting”, cut canvas by Lucio Fontana, 1960, Tate Modern

Se dunque ognuna di queste forze la identifichiamo simbolicamente alla stregua di una persona, possiamo immaginare che dentro di noi ci sia (e che siamo) un teatro di attori (nel senso che agiscono). Jung lo chiama teatro dell’anima.
Il teatro dell’anima (che noi potremmo chiamarlo della vita o dell’arte) è costituito da tanti “archetipi”, ovvero figure, immagini, e soprattutto simboli che più o meno abbiamo tutti. Sono dei modelli innati che plasmano, per la gran parte, la vita e il carattere di una persona.
Conoscerli significa conoscere se stessi e, per certi aspetti, anche gli altri. Per questo Jung ha chiamato l’insieme di queste figure “inconscio collettivo”. Il mito e la filosofia ermetica ci vengono incontro per capire meglio queste figure, per poterle visualizzare e dare loro una sorta di identità.
Per rappresentare la vera potenza di queste figure, la mitologia greca le ha immaginate addirittura come divinità immortali, ognuna con una propria fisionomia, un proprio modo di essere e di agire sul monte Olimpo. Il monte Olimpo può essere benissimo la metafora del nostro inconscio, mentre gli dei rappresentano tutte le nostre passioni e le forze creative interiori.

I due tronconi

Questo ci fa capire come la mitologia e la filosofia ermetica abbiano di fatto anticipato le conquiste della scienza psicologica del Novecento. Queste forze sono presenti nel teatro dell’anima e agiscono sulla personalità dell’essere umano e lo predispongono al senso dell’innovazione, a una carriera artistica e al successo personale.

Noi tutti possediamo quegli dei di cui sopra: da quelli demoniaci, tipici dei più feroci serial killer, a quelli più angelicati o di indole artistica. Solo un’adeguata educazione può equilibrare queste forze. Tali forze possono essere raggruppate in due grandi ambiti concettuali o in due tronconi, determinati dall’evoluzione e dai contorni sfumati. Mitologicamente parlando, è difficile inserire in ognuno dei due tronconi le figure mitologiche nella loro interezza, dal momento che in ognuna di esse si possono individuare sia aspetti negativi che positivi.

Tuttavia, in linea di massima, per le loro caratteristiche principali, nel primo troncone potremmo inserire le figura di Ares e di Marte, divinità legate alla guerra e all’aggressività; la parte negativa di Ermes, in quanto richiama il grande senso erotico, la furberia, la tendenza all’inganno e al furto. Nel troncone opposto, Ermes troverebbe posto perché è un genio inventivo, un musicista inventore della lira, un ballerino, l’equivalente di una pop-star di oggi o di un pittore di arte d’avanguardia. Una dea del primo troncone potrebbe essere anche Afrodite, che insieme a Eros, rappresentano la forza più passionale e irrazionale dell’amore, egocentrica e narcisistica. Potrebbero ancora far parte di questa parte dell’anima, gli aspetti caratteriali negativi di Efesto, Artemide ed Era.

Nel troncone più nobile, può trovare cittadinanza la parte buona di Zeus, il padre di tutti gli dei, razionale, perfetto, pulito, aureo, divino. E così pure le virtù di Apollo, figlio di Zeus, dio della bellezza, della luce, delle arti e della divinazione, di Demetra, di Estia, di Athena nel suo aspetto speculativo e intellettivo e non per la sua aggressività. Anche Poseidone possiede peculiarità appartenenti a entrambe le dinamiche inconsce.
È quello che Mondrian ha cercato di tradurre visivamente nella sua arte astratta, che aveva come obiettivo, più volte dichiarato dallo stesso artista, “l’eliminazione del tragico dalla vita quotidiana”. Questo perché il tragico, nella vita di ognuno di noi, esiste per tutti, prima o poi.

Gli artisti del novecento

Non sono solo gli espressionisti e i surrealisti a studiare Freud e il suo libro che fece scalpore: “L’interpretazione dei sogni”. Certamente fu Freud a far capire agli artisti che le idee e tutte le immagini creative non possono che essere il frutto e la manifestazione di un mondo che si agita di nascosto e a nostra insaputa. I surrealisti, per favorire questa indagine interiore, arrivarono a escogitare un espediente che loro chiamarono “Flanerie”, che consisteva nel trovare l’ispirazione giusta, o un’idea artistica vincente, dopo lunghe passeggiate e rilassamenti vari.

Gustav Klimt – Ritratto di Adele Bloch-Bauer I (1907)

Ma già Gustav Klimt, alla fine dell’Ottocento, era alla continua “ricerca del nuovo io” per svelarne gli istinti nascosti che tutta la cultura classica e precedente aveva bandito per approdare ai risultati tecnici e stilistici che conosciamo.
I pittori “Fauves” (bestie) con in testa Henry Matisse, avevano scoperto che “alla base dell’arte c’è l’istinto” perché bisognava assecondare non l’impressione (come avevano fatto gli impressionisti, che già guardavano con un occhio fuori e uno dentro tutta la realtà) ma il “sentire interiore”.

Vassily Kandinskij, Giallo, rosso, blu, olio su tela, 1925, Musée national d’art moderne, Parigi

Vasily Kandinskij affermava che “la forma è l’espressione materiale del contenuto interiore” nel periodo della sua “svolta spirituale”, dopo che ebbe perso la fiducia nei confronti del Positivismo. Anzi, più tardi cominciò a parlare di “necessità interiore” dell’artista che teorizzò nel suo famoso libro “Lo spirituale nell’arte” (1911) dove descrive così l’esplicarsi di questa necessità: “Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è il pianoforte dalle molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, mette preordinatamente l’anima umana in vibrazione”.

Per Giorges Rouault, allievo di G. Moreau, l’arte è “un’ardente professione di fede”. “Io dipingo l’anima” diceva.
Jackson Pollock, nella sua “action painting” (pittura d’azione), realizzava i suoi getti violenti d’inchiostro come una “scrittura automatica” per liberare l’inconscio. Quel gesto dell’artista era la proiezione immediata della sua interiorità, senza “se” e senza “ma”. Non a caso Pollock ha studiato approfonditamente C. G. Jung e il concetto di archetipo per far esprimere al meglio la forza del proprio inconscio.

Tratto da “Storia dell’Arte: dal Realismo ai giorni nostri. Sintesi di storia dell’arte per la preparazione alla maturità” di Raffaele Renna
© Matematicamente.it
ISBN 978-88-96354-26-1
Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons BY
Versione del 07/01/2014