Poco più di due settimane prima della chiusura per l’emergenza sanitaria, la Collezione Peggy Guggenheim ha presentato la mostra “Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim“.
Oggi, grazie a questa intervista, le curatrici Vivien Greene, Senior Curator, 19th- and Early 20th-Century Art, Guggenheim Museum and Curator-at-Large Peggy Guggenheim Collection, ed Ellen McBreen, Associate Professor, History of Art, Wheaton College, Mass., entrambe parte del Comitato scientifico che ha curato l’esposizione, ne raccontano genesi e significato, insieme ad altri curiosi aneddoti sul collezionismo senza confini di Peggy Guggenheim.
Si tratta della prima mostra organizzata a Palazzo Venier dei Leoni dedicata all’arte “non occidentale” collezionata da Peggy Guggenheim. Perché ora?
Vivien Greene: Migrating Objects nasce da un’idea di Karole P.B. Vail, Direttrice della Collezione Peggy Guggenheim. Gli oggetti provenienti dall’Africa, dall’Oceania, dalla Mesoamerica e dalle regioni andine e amazzoniche collezionati da Peggy Guggenheim sono rimasti a lungo in un relativo oblio, ancor più evidente se pensiamo all’attenzione, sia da parte del grande pubblico che degli studiosi, rivolta alla maggior parte della sua collezione occidentale, famosa cornucopia dell’arte del XX secolo, soprattutto di ambito surrealista e dell’astrazione europea e statunitense. Tuttavia, se si osservano le numerose fotografie scattate a Venezia, a Palazzo Venier dei Leoni e nell’adiacente barchessa, si scopre come la collezionista esponesse sempre le sculture non occidentali tra le icone moderniste. Ci è sembrato dunque il momento giusto per rivedere queste opere con occhi nuovi e analizzarli dal punto di vista del XXI secolo.
Come e perché Peggy Guggenheim comincia a collezionare questi oggetti?
Vivien Greene: Peggy Guggenheim comincia a collezionare opere provenienti dall’Africa, dall’Oceania e dalle culture indigene delle Americhe alla fine del 1959, ma non è propriamente chiaro perché abbia scelto questo momento (nella sua autobiografia racconta che questa scelta fu dettata dal fatto che gli oggetti erano disponibili a un costo accessibile, ma di certo questo non fu l’unico o il principale motivo). Di sicuro era venuta precedentemente in contatto con opere non occidentali quando era sposata con Max Ernst, con cui viveva a Beekman Place a New York, nei primi anni ’40. Ernst collezionava con grande passione oggetti delle culture indigene dell’Oceania, in particolare della Papua Nuova Guinea, e del sud-ovest degli Stati Uniti. Ancor prima, artisti e scrittori che Peggy frequentava o di cui acquistava le opere avevano collezionato arte africana, mesoamericana o oceanica, tra cui André Breton, Henry Moore e Pablo Picasso. A Venezia, negli anni ’50, anche il giovane artista e collezionista americano Robert Brady, suo amico, acquista opere provenienti dall’Africa e dell’Asia. Tuttavia, il 1959 è l’anno in cui la mecenate ritorna negli Stati Uniti per l’inaugurazione del museo fondato dallo zio Solomon R. Guggenheim, allora chiamato The Museum of Non-Objective Painting. Quel viaggio è caratterizzato da diversi avvenimenti. Grazie a Brady visita la Barnes Foundation a Merion, in Pennsylvania, dove il collezionista Albert Barnes aveva allestito una raccolta di opere di formati, periodi e provenienze differenti, che comprendeva pezzi di origine africana e d’arte moderna occidentale. Peggy rimane molto colpita da questa collezione. Ma soprattutto il mercante d’arte di Ernst, Julius Carlebach, ha da poco aperto la sua nuova galleria su Madison Avenue e sta suscitando attenzione in un momento in cui l’arte africana comincia a essere presa seriamente in considerazione in ambito museale e a diventare di moda come oggetto d’arredamento. Proprio nella galleria di Carlebach la mecenate fa i suoi primi acquisti.
Quali criteri curatoriali e teorici sono stati adottati nell’allestimento della mostra? Cosa si intende trasmettere con i diversi approcci? Forse possiamo iniziare dal significato del titolo stesso?
Elle McBreen: Il titolo Migrating Objects evoca le grandi distanze, letterali e metaforiche, che queste opere hanno percorso rispetto ai loro luoghi d’origine. La concatenazione di eventi che sottende le realtà della conquista, del colonialismo e del commercio, ha fatto si che queste e molte opere analoghe siano state allontanate dalla loro terra d’origine: lontane dall’ambiente usuale, al loro arrivo in Europa e negli Stati Uniti sono state riconfigurate in modo drastico, mentre ne venivano dimenticate le origini e rimaneva per lo più ignorato lo scopo per cui erano state create. Alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX secolo gli artisti d’avanguardia volgevano già a proprio vantaggio gli oggetti non occidentali e i loro attributi reali o immaginari, appropriandosene in più sensi. Il Comitato scientifico ha inteso esaminare questa collezione entro i parametri di un approccio revisionista alla produzione culturale dei paesi dell’Africa, dell’Oceania e delle culture indigene delle Americhe che fosse aggiornato alla contemporaneità. Sono state perciò messe in discussione le convinzioni consolidate in merito agli oggetti, riformulandoli allo scopo di sottolineare il loro significato passato e il loro eventuale significato presente. L’allestimento presenta dunque le opere d’arte africana, oceanica e delle culture indigene mesoamericane collezionate da Peggy Guggenheim in gruppi che privilegiano i contesti originari o, in alternativa, che prendono in esame i dialoghi che la collezionista aveva concepito con la pittura e la scultura europea. Il primo approccio richiama l’attenzione sulle culture che definiscono gli oggetti, riconoscendo come dei singoli artisti li abbiano creati con scopi sociali e spirituali radicalmente diversi dai fini museali. Per una serie di ragioni i nomi di questi artisti sono sconosciuti, sono rimasti occultati o non sono stati registrati. Un unico oggetto in mostra è riconducibile a un atelier specifico, il copricapo Ago Egungun della bottega di Oniyide Adugbologe (1875–1949 c.) di Abeokuta in Nigeria. Il secondo approccio affronta la tradizione problematica che porta Peggy ad accostare opere d’arte moderna a opere non occidentali sulla base di una percezione di affinità formali e concettuali, proprio come fatto dagli artisti modernisti prima di lei. La scelta di impiegare questi due metodi divergenti permette di sottolineare la narrazione errata che è stata imposta agli oggetti rimossi nel corso delle loro nuove storie con nuovi proprietari, e come questo aiuti a tracciare le loro numerose vite, dagli artefici al mercato al museo.
Ogni sabato sulle piattaforme social del museo vengono approfonditi diversi aspetti legati alla mostra grazie anche a brevi video da parte dei membri del Comitato scientifico che ha curato l’esposizione. Le pillole video sono disponibili anche sulla pagina del sito dedicata e sul canale YouTube del museo.