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Il testamento spirituale di Keith Haring a Pisa. La storia di “Tuttomondo” in un’intervista a Piergiorgio Castellani

di Fabiana Maiorano.

Sono rari i casi in cui l’allievo riesce a superare il maestro e senza ombra di dubbio Keith Haring è uno di questi. Con la sua pittura e il suo linguaggio universale è arrivato laddove nemmeno Andy Warhol arrivò: ha creato un’immagine che è memoria visiva di un’epoca, ha poppizzato magliette, spille, calzini, calamite e altri gadget che si ripropongono ancora oggi, compiendo la sua visione di un’arte democratica e per tutti. In questo modo è arrivato alle masse, esaudendo lo spirito della Pop Art abbattendo le barriere tra “arte alta” e “arte bassa”.

Mentre Warhol lavorava con le immagini della cultura popolare diventando superstar, il giovane artista delle metropolitane newyorkesi capiva le potenzialità della distribuzione di massa e con il suo Pop Shop iniziò ad entrare nella vita quotidiana delle persone comuni, rendendo la sua arte più accessibile e diventando un vero e proprio marchio.

Keith Haring, Andy Warhol e Jean-Michael Basquiat

Questa intuizione permise ad Haring di superare la Pop Art facendo del suo intero lavoro l’immagine di quegli anni di benessere e contraddizioni, idea che nel 2022 viene riconfermata quando banalmente nelle vetrine dei negozi vediamo gadget firmati Keith Haring, piuttosto che Andy Warhol. Entrambi li troviamo nelle collezioni dei più importanti musei del mondo, ad entrambi vengono dedicate grandi mostre e vendite all’asta a cifre stellari, li si ritrova tra gli stand di gallerie specializzate durante le fiere, ma Haring è l’unico artista che può ancora entrare nella nostra quotidianità con un gadget che crea nei suoi confronti e nella Pop Art in generale un’affezione nostalgica e vibrante di colori.

Complice di questa nostalgia è la sua storia personale che lo vede operativo nella metro di New York già alla fine degli anni ‘70. Arrivato in città non cercò una galleria ma spazi accessibili a tutti, dove poteva mostrarsi e farsi conoscere: le metro e i muri dei quartieri divennero il suo laboratorio pubblico e alla luce del sole, che gli costarono non poche multe e qualche arresto. Fu il periodo in cui esplose la sua popolarità, conobbe artisti come Kenny Scharf, Fab Five Freddy, Futura 2000 e Jean-Michael Basquiat, insieme al quale venne accolto sotto l’ala protettiva di Andy Warhol che lo introdusse nel mondo dello star system e lo fece partecipare a decine di mostre. Nel 1982 inaugurò la sua prima mostra con il supporto del gallerista Tony Schafrazi e riscosse notevole successo che diede il via al fenomeno Keith Haring: il suo mondo immaginario popolato da omini stilizzati (i cosiddetti Radiant Boys) e agender inizia a proliferare e a farsi conoscere in tutto il mondo per gli importanti messaggi che trasmette, soprattutto di denuncia.

All’apice del suo successo, nel 1986 Haring aprì il Pop Shop nel quartiere di SoHo, un negozio interamente dedicato ai suoi progetti su gadget e magliette, i cui ricavati andavano in beneficenza ad organizzazioni a favore dei bambini e della lotta contro l’AIDS, di cui soffriva lo stesso Haring.
La sensibilizzazione verso la malattia si concretizzò nel 1989 con la creazione da parte dell’artista della Keith Haring Foundation che ancora oggi sostiene quelle organizzazioni.

Quello stesso anno Haring era a Pisa per la realizzazione del suo più grande capolavoro, della sua ultima opera pubblica, nata dall’incontro fortunato con uno studente pisano a New York, Piergiorgio Castellani, che ci racconta quell’avventura giovanile.

“Tuttomondo” di Keith Haring

[Fabiana Maiorano]: Cosa ci faceva New York e come ha conosciuto Keith Haring?

Piergiorgio Castellani, 1989

[Piergiorgio Castellani]: Ero a New York con mio padre durante un suo viaggio di lavoro. Avevo diciannove anni ed ero uno dei pochi abbonati in Italia della rivista “Interview” di Andy Warhol, che divoravo da vero appassionato d’arte, e fu lì che vidi per la prima volta Keith Haring rimanendo impressionato dai suoi lavori, tanto che quando lo vidi per puro caso in una strada dell’East Village lo riconobbi subito. Mi presentai dicendogli che ero uno studente dell’Università di Pisa, che lo conoscevo, che aveva fatto grandi cose nel mondo ma mancava il suo segno in Italia. Lui rimase colpito perché ero informatissimo e mi invitò ad andare nel suo studio il giorno seguente per parlarne e insieme concepimmo il “Keith Haring – Progetto Italia”: un sogno artistico fortunato che prese forma circa due anni dopo con il murale di Pisa.

Un “miracolo” se pensiamo che si tratta di un’opera muraria degli anni ‘80 di un autore pop omosessuale, realizzata sulla parete di un complesso ecclesiastico. Come siete arrivati dal marciapiede di New York alla facciata di un convento?

Piergiorgio Castellani e Keith Haring

Io tornai in Italia e mi buttai allo sbaraglio alla ricerca di muri, non trovavo nulla di particolare finché non incontrai delle persone speciali come l’assessore alla cultura del tempo, Lorenzo Bani, che mi indicò quella parete della chiesa di Sant’Antonio Abate, che affacciava sull’allora stazione degli autobus. Era perfetta. Era quello che Keith cercava, ossia luoghi visibili da tante persone. Organizzammo quindi un incontro con il responsabile del complesso parrocchiale e avemmo la fortuna di incontrare un prete missionario, cui era stata affidata questa parrocchia. Era stato missionario in Sud America, dunque conosceva il valore dell’arte muraria e da lì nacque un dialogo che si estese al direttore della Caparol locale, che intuì il potenziale di un progetto del genere e fornì sia il restauro della parete, sia tutti i materiali per la realizzazione.

Pisa fu la prima scelta?

Inizialmente si guardò a Firenze, dove però gli unici spazi concessi erano nelle periferie, noi volevamo qualcosa di più centrale o comunque vicina al centro storico. Questo a Firenze sarebbe stato impossibile, vista la natura medievale e rinascimentale della città, invece a Pisa trovammo questa fortunata soluzione e partimmo da lì.

Avete trovato difficoltà dal punto di vista tecnico pratico nella realizzazione di questo grande affresco?

Una volta che capimmo che c’era la possibilità di realizzare l’opera su questa parete ci accorgemmo che era marcia di umidità, quindi si trovò il modo di poter intervenire con quelli che ora chiamano “i cappotti”: dei pannelli che vengono applicati sopra la parete con una zona di aria tra pannelli e muro, questo lavoro portò alla realizzazione di una superficie ottimale. Fu montato un grande ponteggio e Keith in 4 giorni e mezzo, con l’aiuto di ragazzi e dei tecnici della Caparol, completò il murale senza un bozzetto di prova.

Quale fu l’approccio di Haring al territorio pisano?

Andammo a prenderlo nel piccolo aeroporto di Pisa e subito lo portammo a fargli vedere il posto per la realizzazione e lui davanti quell’enorme tela bianca di 180 metri quadri, girandosi intorno e vedendo il contesto nel quale era inserita, si emozionò tanto. Capì subito che aveva un’enorme responsabilità per il luogo in cui doveva lavorare, in una città così importante, in una regione culla dell’arte europea e rinascimentale. Chiese di poter girare Pisa con la sua polaroid, allora gli affittammo un calesse e visitò la città scattando foto, perché cercava ispirazioni per iniziare a dipingere. Da quel tour nacquero anche tanti motivi rappresentati nel murale, come ad esempio gli omini che si incrociano al centro riproducendo la croce pisana. Anche i colori che scelse sono quelli del territorio. Quando finì disse che era il lavoro più importante che aveva realizzato in vita sua. L’ultimo, purtroppo, perché morì nel febbraio successivo.

Ha detto che la realizzazione del grande disegno durò qualche giorno, grazie anche all’intervento di suoi colleghi dell’Università e altre persone. Ricorda un happening, una sorta di opera intorno all’opera. Che clima si respirava a Pisa in quei giorni?

Fu un evento veramente straordinario. Iniziò un po’ in sordina il progetto di questo artista che nessuno conosceva, che arrivò a Pisa e iniziò a dipingere questo enorme muro insieme ai ragazzi dell’università. Fu un’occasione unica ed entusiasmante: Haring preparava la base e a seguire loro completavano la colorazione. Ogni giorno arrivava sempre più gente, iniziò a girare la voce e arrivarono i ragazzi della scena pop cittadina prima, nazionale poi. Fu una festa contagiosa. C’era chi suonava, chi ballava breakdance, chi si fermava per aiutare, chi si incuriosiva passando… si fece rumore e si mossero migliaia di persone e nel giro di qualche giorno divenne un evento internazionale.

Quel clima gioioso probabilmente dev’essere stato utile ad Haring per realizzare l’enorme dipinto, siccome stava passando un periodo di lutto a causa della scomparsa di Basquiat e Warhol, in più aveva scoperto di aver contratto l’AIDS.
L’opera attinge al suo alfabeto visivo, ricco di tematiche importanti e applicabili all’umanità in generale, può dunque considerarsi il suo testamento spirituale? Una sorta di inno alla vita nonostante tutto?

Si, viveva un momento particolarmente triste perché erano morte due persone importanti della sua vita e molte altre morirono di AIDS, di cui soffriva anche lui. Senza Warhol e Basquiat si ritrovò da solo a dover rappresentare la pop art americana e aveva un po’ la sensazione che quello per lui sarebbe stato l’ultimo grande lavoro, per questo è un’opera speciale perché ricca di messaggi universali che parlano anche alle generazioni future.
Pisa è centro culturale e città universitaria con una storia antichissima, crocevia di diverse culture, lui ne intuì l’energia artistica e visse dei momenti molto intensi che gli diedero indubbiamente l’energia per realizzare il murale, come riportò anche nelle ultime pagine dei suoi diari dove scrive: “Se c’è un paradiso spero somigli a questo”. Sentiva di dover lasciare ancora qualcosa al mondo e a Pisa c’è il suo inno alla vita, il suo testamento spirituale.

Haring non era solito dare titoli alle sue opere. Come nasce “Tuttomondo”?

Gli fecero una domanda specifica, se voleva dare un titolo all’opera finita e lui che non parlava italiano disse che avrebbe voluto dargli un titolo “come se fosse tutto il mondo”. “Tuttomondo” nasce da lì.

“Tuttomondo” di Keith Haring, 1989

Come reagì il mondo dell’arte a questo progetto pisano?

Ovviamente ci furono delle critiche a livello locale, che ogni tanto ritornano, ma io ho due figli e nei loro manuali di storia dell’arte c’è una pagina dedicata all’opera di Haring a Pisa. Le generazioni dopo di me hanno studiato a scuola “Tuttomondo” come l’esempio più importante di opera pop pubblica in Italia. A Keith Haring vengono dedicate a Pisa anche delle mostre abbastanza importanti che richiamano l’attenzione degli addetti ai lavori in città.

Che cos’è oggi Tuttomondo per Pisa?

E’ la seconda attrazione della città, a poche centinaia di metri da Piazza del Duomo e il suo complesso museale. Nella società dei selfie è un’attrattiva piuttosto importante, nonostante Pisa sia ricca di tantissime opere d’arte di musei importantissimi; ritengo tuttavia che sia importante rinnovarsi sempre e saper parlare molteplici linguaggi, anche in epoche diverse. La storia dell’arte si alimenta di questo continuo rinnovarsi, di questo continuo esprimersi in base allo spirito dell’epoca. Qui abbiamo la fortuna di avere delle cose straordinarie che vengono dal passato e cose straordinarie che vengono dal presente. Gli anni ‘80 sono ormai un passo nel passato, ma l’arte pop, quella legata alla Factory di Andy Warhol, oggi è alla base dell’espressione dell’arte contemporanea.

Cosa è stato per Lei l’incontro con Keith Haring?

Un’avventura giovanile ricca di stimoli, una serie di fortunati eventi che hanno portato alla realizzazione di un miracolo contemporaneo. Abbiamo aggiunto il nostro piccolo contributo in questo mondo che continua a vivere di scambi tra le varie epoche.