Jheronimus Bosch e il fantastico

Milano, con la mostra “Bosch e un altro Rinascimento” a cura di Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi, celebra la figura di Jheronimus Bosch (c. 1450-1516), uno degli artisti più enigmatici e curiosi del Rinascimento, e la sua fortuna nell’Europa meridionale, riunendo a Palazzo Reale alcuni dei suoi rari dipinti autografi e diverse opere di suoi allievi e seguaci.
Il nome “Bosch” non può non evocare scene di inferni popolati da creature mostruose, notti allucinanti illuminate da incendi e personaggi che oscillano fra il grottesco e il ridicolo. Sin dai primi commenti cinquecenteschi sulla sua opera, infatti, Bosch è stato definito un pittore di mostri ed incubi e la sua bizzarria, la sua eccezionalità sono sempre state riconosciute e messe in evidenza. Questo perché i suoi dipinti caotici, affollati da ibridi e chimere, offrono un’immagine molto diversa da quella di equilibrato classicismo e bellezza ideale che la tradizione storico-artistica associa al concetto di Rinascimento.
Uno degli obiettivi di questa mostra è fornire una diversa prospettiva, che si discosti dalla concezione di un Rinascimento uniforme, monolitico e di stampo tosco-romano, ovvero quello descritto dalla narrazione vasariana. Si propone invece l’idea di un momento storico multiforme, in cui l’arte di Bosch sia rappresentativa di un Rinascimento “alternativo”, parallelo a quello classicheggiante; ma non solo, anche ad altri “Rinascimenti” – molteplici – che hanno caratterizzato centri e periferie artistiche in questi secoli di grandi scoperte e di curiosità culturale.

I punti cardine della mostra sono gli esiti dell’impatto della cultura immaginativa boschiana e il contesto della loro recezione. Perciò, anziché una convenzionale presentazione monografica, si propongono sezioni tematiche e stimolanti confronti tra dipinti dell’artista e una varietà di pitture e oggetti d’arte. Sono presenti anche opere grafiche, fondamentali per la diffusione delle invenzioni dell’artista dentro e fuori l’Europa; una spettacolare serie di quattro arazzi “alla maniera di Bosch” che non è mai stata esposta integralmente fuori dalla Spagna finora; e si è ricreata un’ideale Wunderkammer, o camera delle meraviglie, la cui forma e contenuto rispecchia la varietà e la peculiarità di oggetti e personaggi riprodotti negli affollati dipinti boschiani.

La fortuna di Bosch e del suo immaginario come fenomeno di rilevanza europea ha origine nei territori mediterranei, specialmente in Italia e in Spagna, dove il contesto artistico e culturale, già imbevuto di una tradizione del grottesco e del caricaturale, fornisce terreno fertile per l’apprezzamento dell’opera boschiana. È in Italia, nelle collezioni veneziane di Domenico e Marino Grimani, e nelle corti spagnole e centro-europee degli Asburgo, la casata che nel XVI secolo dominava sull’Europa, che troviamo i più precoci esempi di un collezionismo affascinato dalle opere di Jheronimus Bosch, ed è in questi ambienti che prende forma il cosiddetto “fenomeno Bosch”, che avrà un impatto significativo sul “lungo Cinquecento” europeo.
Concludiamo con un invito: non si può guardare un’opera di Bosch nel suo insieme, con sguardo distratto, e passare oltre, perché Bosch è un creatore di universi in miniatura, che possono essere osservati e studiati per secoli, senza mai smettere di sorprendere.

Con le sue scene infernali e oniriche, nel corso del Cinquecento la figura di Jheronimus Bosch viene associata a un Rinascimento fantastico, bizzarro e inusuale che coesiste con quello mimetico e classico, presentato da teorici e storiografi come il Rinascimento “ufficiale”.

È il cronista Marcantonio Michiel a fornire la prima descrizione delle opere di Bosch come “inferni”, “mostri” e “sogni”, dimostrando come le sue invenzioni venissero recepite dagli spettatori fin dai primi anni del XVI secolo. Michiel si riferisce alle tavole nella collezione veneziana del cardinale Domenico Grimani, che quasi certamente possedeva il Trittico dei santi eremiti assieme ad altri suoi dipinti. Questa immagine di Bosch come artista fantasioso, o come “pictor gryllorum”, ovvero pittore di scene ridicole, viene adottata prima in Italia e in Spagna e poi nel resto d’Europa, cristallizzandosi per i secoli a venire.

Jheronimus Bosch – Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio, 1500 circa. Olio su tavola. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga © DGPC/Luísa Oliveira

Il Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio è un’opera magistrale che si può considerare emblematica dell’opera di Bosch, perché presenta tutte le caratteristiche associate al suo nome: i fuochi infernali che guizzano nella notte, le architetture contorte, ma soprattutto la miriade di mostri, ibridi e personaggi grotteschi entro scene inquietanti o stravaganti. Non è un caso che si parli di “immaginario boschiano” quando ci si riferisce a queste invenzioni fantasiose e grottesche.

Elementi simili, ma più attenuati, sono presenti anche nelle Meditazioni di san Giovanni Battista, frammento di un altare più grande per una commissione prestigiosa. Qui è ancor più evidente come, per fruire appieno l’opera di Bosch, occorra avvicinarsi e osservarne i dettagli, scoprendo continuamente particolari nuovi e sorprendenti.
Questo atteggiamento richiesto allo spettatore ne stimolava la curiosità, e lo portava a riflettere sul contenuto dei dipinti, che non si esauriva a un primo sguardo. L’opera boschiana, infatti, si presta a diversi livelli di lettura, sia moralistico-religiosi sia ridicoli e allegorici, invitando alla conversazione dotta per la sua pluralità semantica.

Jheronimus Bosch – San Giovanni Battista, 1495 circa. Olio su tavola. Madrid, Museo Lázaro Galdiano © Museo Lázaro Galdiano, Madrid

Classico e anticlassico tra Italia e Penisola Iberica

Nell’Europa meridionale la recezione dell’opera boschiana si lega all’aspetto fantasioso delle sue opere e all’utilizzo di un linguaggio visivo bizzarro che si discosta da quello considerato “classico”. Nell’immaginario comune, dovuto in gran parte alla narrativa del Rinascimento come italocentrico e classicista, Bosch diventa esemplare di un “altro Rinascimento”.

Leonardo da Vinci – Codice Trivulziano. Ultimo quarto XV secolo. Milano, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana © Comune di Milano

Eppure, la dicotomia che nel Cinquecento oppone classico e anticlassico non era così radicale come afferma la storia dell’arte tradizionale. Ne è un esempio Leonardo da Vinci, artista paradigmatico del Rinascimento, che nel suo Codice Trivulziano, tra appunti e studi tecnici, inserisce dei volti caricaturali non molto differenti da quelli rappresentati da Bosch negli stessi anni.
Una particolare versione del fantastico e del mostruoso che diventa popolare nel Cinquecento italiano è quella delle grottesche. Si tratta di una forma decorativa di origine classica, riscoperta negli affreschi della Domus aurea, che viene diffusa soprattutto attraverso le sue elaborazioni raffaellesche. Questo tipo di decorazione appare in Italia secondo forme e contesti molto diversi: come motivo a stampa nell’esempio di Nicoletto Rosex, in forma di arazzo su disegno di Perin del Vaga, su un prezioso scudo da parata milanese.
Anche in Spagna il gusto per la decorazione fantastica e mostruosa è introdotto attraverso la grottesca, e precede l’interesse per l’opera di Bosch che caratterizzerà la corte asburgica di Filippo II. Uno degli artisti fondamentali per la diffusione di questa forma decorativa è Alonso Berruguete, autore del Retablo de San Benito. I motivi fantastici appaiono nell’architettura di altre città come Salamanca, per esempio la serie di capitelli mostruosi nel chiostro del convento di Las Dueñas.
Si sviluppano perciò molteplici interpretazioni del fantastico, che fanno capo a diverse tradizioni, ma che continuano a coesistere per tutto il XVI secolo. Così troviamo il boschiano scudo di Praga accanto alla post-raffaellesca Rotella milanese, e assieme alle decorazioni all’antica italiane compaiono motivi “alla fiamminga” nei palazzi di Lagnasco, Sabbioneta e addirittura nella Casa dello Zecchiere a Milano.

Il sogno

Nell’Europa meridionale, il nome di Bosch viene associato fin dai primi decenni del Cinquecento all’invenzione pittorica di inferni, sogni e incubi. Questa interpretazione in chiave fantastico-onirica si sviluppa nel contesto di un rinnovato interesse letterario per il tema del sogno, alimentato dalla riscoperta di manoscritti antichi su questo soggetto. Un esempio è l’Onirocritica, trattato greco sull’interpretazione dei sogni di Artemidoro di Daldi in cui si descrivono le diverse tipologie di sogno e i loro simboli. Sulla scia di questi testi nascono opere visionarie e immaginifiche, in cui s’intrecciano elementi umoristici, erotici, filosofici e di critica sociale. Nel 1499 viene pubblicato un testo che avrà un grande impatto sulla cultura cinquecentesca, ovvero l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, in cui si svolge un viaggio allegorico di stampo classico. Accanto a questo genere prende forma nel Nord Italia anche quello della letteratura maccheronica, in cui si utilizza un linguaggio misto di latino e dialetto per raccontare storie grottesche. Il Baldus, poema maccheronico di Teofilo Folengo, edito per la prima volta nel 1517, descrive un viaggio verso l’inferno ricco di dettagli ridicoli e bizzarri che rievocano sia le composizioni boschiane sia l’opera dei suoi imitatori riprendendo ad esempio l’immagine della landa desolata in cui spicca l’ingresso all’oltretomba raffigurato nella Discesa di Cristo al Limbo.
Anche nella pittura e nella grafica italiana appaiono rappresentazioni a tema onirico che si rifanno a queste tradizioni letterarie e che recepiscono le invenzioni di Bosch. Un esempio fondamentale è l’incisione del Sogno di Raffaello di Marcantonio Raimondi, che rielabora gli incendi di suggestione boschiana, i mostriciattoli di grafica nordica e le creature ibride riprodotte in bronzetti e calamai cinquecenteschi. La fortunata incisione e le sue atmosfere da incubo vengono poi riprese da opere come il Sogno di Battista Dossi e l’Allegoria della vita umana di Giorgio Ghisi, che nella sua composizione rende ancora più esplicito l’aspetto “alla Bosch”, ispirando altri artisti attivi alla fine del secolo.

Giorgio Ghisi (da disegno di Raffaello) – Allegoria della vita umana, 1561. Bulino. Pavia, Musei Civici © Comune di Pavia

La magia

Nel corso del Cinquecento si sviluppa una tematica artistica che resta in voga fino al Seicento inoltrato, ovvero la rappresentazione di riti magici e sabba infernali. Questi soggetti emergono in relazione alla ripresa dei processi per stregoneria sul finire del XV secolo e alla pubblicazione di manuali e trattati per riconoscere e punire le streghe. In questo genere di opere, sia pittoriche che grafiche, vediamo manifestarsi due tendenze particolari, una di stampo classicheggiante, e una invece legata all’immaginario del folklore.

Marcantonio Raimondi o Agostino Veneziano – Lo Stregozzo. Prima metà XVI secolo. Bulino. Milano, Civica Raccolta delle Stampe “Achille Bertarelli” © Comune di Milano

La prima tendenza fa riferimento alla cultura umanistica, e ritrae le maghe tratte dalla mitologia e dai testi antichi, focalizzando l’attenzione sull’aspetto seduttivo della narrazione e sull’erudizione delle fonti letterarie. La seconda è più strettamente legata all’elemento diabolico e misogino della stregoneria, che vedeva le donne come più prone a soccombere alle tentazioni del demonio. In questi casi le streghe hanno sembianze terrificanti e grottesche derivate dalle credenze popolari, come nella stampa denominata Lo Stregozzo, che ritrae una vecchia intenta a rapire e divorare i bambini.
Nell’Europa meridionale le scene di magia e stregoneria riprendono sin dal primo Cinquecento aspetti grotteschi e mostruosi alternativi al canone classico, e tipici della pittura e della grafica d’Oltralpe. Il Garofalo, già nel 1528, rielabora modelli dei seguaci di Bosch, così come fa il fiammingo Gillis Coignet nella Scena di magia dipinta durante il suo soggiorno in Italia. Nel Seicento, artisti come Joseph Heintz il Giovane e Jan Brueghel il Vecchio sono esponenti di un revival boschiano destinato al collezionismo raffinato e che fa riferimento all’immagine dell’artista sviluppatasi attraverso la stampa e l’opera dei suoi imitatori.

Jheronimus Bosch – Giudizio finale, 1500 circa. Olio su tavola. Musea Brugge, Bruges © Lukas – Art in Flanders VZW/Bridgeman Images

Visioni apocalittiche

Nella dottrina cristiana, il giudizio universale sancisce la salvezza o la punizione eterna tra i tormenti dell’Inferno. Fra Medioevo e Rinascimento, la preoccupazione per la sorte ultraterrena dell’anima si esprime nella copiosa produzione di immagini del “giudizio finale”, ovvero il momento in cui Cristo separa i meritevoli dai peccatori.
Questo soggetto è uno dei favoriti tra i committenti e i collezionisti dell’opera di Bosch, che ne possiedono diverse versioni. Una si trovava nelle mani di Filippo I d’Asburgo detto il Bello, padre del futuro imperatore Carlo V, mentre il Giudizio finale qui esposto apparteneva al cardinale Marino Grimani, nipote del collezionista veneziano Domenico Grimani, ovvero uno dei più precoci estimatori dell’arte boschiana in Italia e proprietario del Trittico dei santi eremiti.

Jheronimus Bosch – Trittico dei Santi Eremiti, 1495-1505 circa. Olio su tavola. Venezia, Gallerie dell’Accademia © Gallerie dell’Accademia di Venezia / su concessione del Ministero della Cultura

Nel comporre questo capolavoro assoluto dell’arte rinascimentale, Bosch fa riferimento a esempi sullo stesso tema realizzati dei maestri della pittura fiamminga del XV secolo, fra cui Rogier Van der Weyden, Jan Van Eyck e Hans Memling, ma ne esaspera il carattere immaginifico, popolando il trittico di mostri, ibridi e dettagli allucinanti che invitano lo spettatore ad avvicinarsi e a districarne il contenuto.
L’iconografia boschiana del giudizio universale ha un impatto che si estende dall’Europa settentrionale e meridionale fino all’America latina. Mostri ripresi direttamente dal dipinto di Bosch appaiono nelle Tentazioni di sant’Antonio del pittore bresciano Giovanni Gerolamo Savoldo, pittori fiamminghi come Herri met de Bles II detto il Civetta e Pieter Huys rielaborano la composizione, ma è attraverso il mezzo della stampa e dell’emulazione dell’invenzione boschiana attuata da Pieter Bruegel il Vecchio che se ne favorisce la diffusione. Questo immaginario ha successo anche nelle chiese peruviane del XVII secolo, come nel caso dell’enorme Giudizio finale nel convento di San Francesco a Cuzco dipinto da Diego Quispe Tito, e dell’opera pittorica di Leonardo Flores.

Le tentazioni di sant’Antonio

Le molteplici versioni delle tentazioni di sant’Antonio realizzate da Jheronimus Bosch e dai suoi seguaci sono fra le più popolari a livello europeo. La più celebre tra queste è certamente il Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio di Lisbona, pezzo d’apertura della mostra del quale si contano almeno quarantuno repliche, che fornisce un esempio esaustivo della caotica fantasia associata alla figura di Bosch. Sebbene questo sia il più esemplare, l’artista tratta il soggetto con approcci diversi, come è evidente dalla tavola del Prado, in cui il santo è raffigurato isolato e in meditazione, in una composizione equilibrata ben lontana da quella di Lisbona.
L’iconografia di sant’Antonio tormentato dai diavoli e tentato da donne sensuali ha un carattere morale, e offre agli artisti la possibilità di sperimentare con fantasiose combinazioni di mostri e chimere. Sono questi aspetti a rendere popolari le invenzioni boschiane, che però non sono l’unica fonte visiva di riferimento. Per tracciare la fortuna del tema tra i Paesi centro-europei asburgici e l’Europa mediterranea, occorre infatti ricordare l’esempio dell’artista tedesco Martin Schongauer, il cui sant’Antonio trasportato in cielo dai demoni fa da modello sia allo stesso Bosch sia ai suoi imitatori, come il Maestro J. Kock e Jan Brueghel il Vecchio.
Nel corso del Cinquecento, l’iconografia delle tentazioni di sant’Antonio si estende alle rappresentazioni di san Cristoforo e di san Giovanni Battista, ed è rielaborata secondo un linguaggio d’ispirazione boschiana anche dai suoi seguaci, tra cui Pieter Bruegel il Vecchio. Sono questi artisti a stabilire i canoni di un immaginario che soddisfi la domanda dei collezionisti di opere “alla Bosch”, che continua nel secolo successivo con le stampe di Jacques Callot e i dipinti Jan Brueghel.

Pieter Van der Heyden (da disegno di Pieter Bruegel il Vecchio) – Discesa di Cristo al Limbo, 1561 circa. Bulino. Milano, Civica Raccolta delle Stampe “Achille Bertarelli” © Comune di Milano

La diffusione della stampa da Jheronimus Bosch a Pieter Bruegel il Vecchio

Gli aspetti che oggi consideriamo essere propriamente boschiani, dagli inferni ai mostriciattoli ibridi e alle scene grottesche, sono entrati nell’immaginario collettivo attraverso processi di selezione e ripetizione che hanno stabilito il “marchio” Bosch. Infatti, l’immagine di un artista non si definisce solo attraverso la sua opera, ma anche dal modo in cui quest’opera viene valutata, discussa e diffusa attraverso le fonti scritte e le fonti visive.
Il principale mezzo di divulgazione dell’immaginario boschiano a livello europeo è sicuramente la stampa. Diversi incisori, in particolar modo fiamminghi, si cimentano precocemente in stampe che riproducono l’opera di Bosch, indicandolo chiaramente come inventore delle composizioni. Si sviluppa tuttavia anche un altro fenomeno, più complesso e interessante, il cui protagonista è Pieter Bruegel il Vecchio, in collaborazione con la casa editrice anversese Aux Quattre Vents di Hieronymus Cock. Bruegel, infatti, non copia dal suo predecessore, ma ne reinterpreta l’immaginario, preferendo l’emulazione all’imitazione. Facendo ciò, crea “nuovi Bosch”, rielaborando e accentuando gli aspetti ritenuti tipici dell’artista. Non è un caso che gli storiografi cinquecenteschi si riferiscano a lui come al “secondo Girolamo Bosco”, ritenendolo l’erede del pittore fiammingo.
I disegni di Pieter Bruegel vengono incisi da Pieter Van der Heyden, che traduce in stampa molte delle sue reinvenzioni boschiane, a partire dalla serie dei Sette peccati capitali, ricordata anche da Vasari che ne riconosce sia l’inventiva sia l’intento umoristico.
Grazie a questa operazione compiuta su più livelli – teorico, storiografico, grafico – il nome di Bosch rientra a pieno titolo tra gli artisti più celebrati e riconoscibili dell’arte neerlandese fin dal XVI secolo, e il suo “marchio”, o brand, si diffonde per tutta l’Europa e oltre, arrivando fino all’America Latina.

Jheronimus Bosch fra gli Asburgo e i Valois: la serie degli arazzi “alla maniera di Bosch”

L’arte di Bosch ottiene un particolare favore presso gli Asburgo, la dinastia che nel Cinquecento dominava sull’Europa. Allo stesso modo anche il re di Francia Francesco I di Valois, uno dei principali oppositori della casata asburgica, dimostra un interesse per l’immaginario boschiano, che continua per tutto il secolo con i suoi discendenti Enrico II ed Enrico III.
Queste famiglie godevano di una grande influenza sia politica sia culturale sul territorio europeo, con esiti artistici di particolare rilevanza. Come esempio di questo esteso fenomeno, per prima cosa considereremo un gruppo di arazzi la cui storia produttiva e collezionistica manifesta l’apprezzamento per l’opera di Bosch di entrambe queste casate.
La fortuna di Bosch in ambito asburgico si deve non solo ai regnanti, ma forse ancor di più a una serie di mecenati e collezionisti che facevano parte delle loro numerose corti. Qui ricordiamo in particolare il cardinale Antoine Perrenot de Granvelle, avido collezionista, il cui apporto alla casa degli Asburgo non si limita all’attività politica estendendosi a quella di consigliere artistico, fondamentale nell’educazione del re Filippo II di Spagna. L’interesse di Granvelle per l’arte di Bosch è dimostrato da un gruppo di quattro arazzi che riprendono le sue invenzioni, ma includendole in cornici architettoniche classiche. Gli arazzi derivano da Il giardino delle delizie, Il carro del fieno, Le tentazioni di sant’Antonio e San Martino e i mendicanti, e sono realizzati a partire da una serie, oggi perduta, commissionata proprio da Francesco I di Valois. La serie originale era stata intessuta prima del 1542, e comprendeva un quinto pezzo, non incluso fra quelli appartenuti a Granvelle, che rappresentava la scena dell’assalto a un elefante, tema di cui si discuterà nella prossima sezione.
Gli arazzi della serie di Granvelle, come probabilmente quelli appartenuti a Francesco I, non copiano con esattezza le composizioni boschiane, ma in alcuni casi sembrano anche rielaborare e includere il linguaggio “alla Bosch” dei suoi seguaci.

L’assalto all’elefante: il quinto arazzo

La serie di arazzi “alla maniera di Bosch” appartenuta a Francesco I di Valois si completava con un quinto pezzo, il cui tema era l’assalto all’elefante. In particolare, questa scena non riprende una vera propria caccia, bensì una festa di carattere cortigiano in cui si inscenava un attacco a un elefante fittizio. Siccome l’arazzo originale è andato perduto e il gruppo in possesso del cardinale Granvelle non ne ha mai incluso una replica, il suo aspetto si può ricostruire solo attraverso due cartoni e diverse versioni a stampa, tra cui quella di Johannes e Lucas Van Doetecum qui esposta, testimoni anche della popolarità dell’invenzione boschiana.

Copia da Jheronimus Bosch – Scena con elefante, XVI secolo. Olio su tela. Firenze, Gallerie degli Uffizi © Gabinetto Fotografico delle Gallerie degli Uffizi

In questa sala non solo si mostrano assieme per la prima volta fuori della Spagna i quattro pezzi della serie, ma si vuole dare un’idea complessiva dell’originale gruppo di arazzi per Francesco I. Perciò si è cercato di integrare idealmente l’immagine dell’arazzo mancante attraverso il cartone degli Uffizi, che fa il paio con quello praticamente inedito di collezione privata, e attraverso il magnifico arazzo delle Feste dei Valois. Quest’ultimo fa parte di una serie commissionata da Caterina de’ Medici per onorare la casata dei Valois e, pur non avendo una relazione tematica o stilistica con gli arazzi di Granvelle, riprende in secondo piano il motivo boschiano dell’assalto all’elefante.
L’iconografia dell’elefante rientra sia nel fenomeno rinascimentale del recupero di temi “all’antica”, sia nel gusto per l’esotismo extra-occidentale che si sviluppa nell’arte europea, e compare in diverse occasioni nell’opera di Bosch. Esistono anche corrispettivi scultorei di questo fenomeno, come il bronzetto tedesco di tardo Quattrocento qui esposto. La rappresentazione di un elefante poteva avere anche un significato ideologico, come nel caso della monarchia francese, che ne aveva fatto il simbolo del proprio re.

Bosch, la curiosità e il collezionismo enciclopedico

Nel Cinquecento, nel mondo delle corti si sviluppano forme di collezionismo enciclopedico, o “universale”. Queste collezioni prendono il nome di “camera delle meraviglie”, in tedesco Wunderkammer, e nascono con diversi scopi: in esse si tenta di catalogare il mondo visibile, si esprime lo status sociale del proprietario, e soprattutto si mira a stimolare il pubblico in vario modo, attraverso la curiosità e la varietà degli oggetti esposti. L’opera di Bosch riflette in pittura questo tipo di cultura internazionale di corte del XVI secolo.
Quelli creati dall’artista sono infatti piccoli universi popolati da creature fantasiose e architetture bizzarre dove, tra un incendio e una chimera, si trovano anche particolari riprodotti con naturalismo quasi scientifico ed estrema cura per il dettaglio. Le opere del pittore si rivelano veri e propri microcosmi, specchio non solo del macrocosmo naturale ma anche dei sistemi di conoscenza dell’epoca.

Giuseppe Arcimboldo – Vertumnus, 1590. Olio su tavola Skokloster Castle Collections / National Historical Museum, Svezia © Skokloster Castle Collections / National Historical Museum, Svezia

In questa sala si è cercato non di ricostruire un’antica collezione, ma di rievocare una Wunderkammer “ideale” organizzata secondo le categorie cinquecentesche, che ruota attorno al Giardino delle delizie di Jheronimus Bosch, il cui pannello centrale è qui presente in una rara copia d’inizio Cinquecento.
Gli uccelli impagliati, esemplari della classe dei naturalia, si trovano riprodotti quasi esattamente nel Giardino delle delizie, così come gli strumenti musicali, esposti per la loro pregiata fattura a simboleggiare la vanitas, appaiono nel pannello laterale della stessa opera, raffigurante l’Inferno. I vari manufatti presenti rappresentano gli artificialia, ovvero gli oggetti creati dall’uomo, ed esprimono un gusto sia per il bizzarro, ritraendo mostri e chimere, sia per materiali pregiati come il corallo o l’avorio.
In chiusura, due opere che possiamo definire mirabilia, mirate a suscitare sorpresa e perfino la risata: una riproduzione dell’automa diabolico della Collezione Settala e lo splendido Vertumnus di Giuseppe Arcimboldo, che ripropone una raccolta di meraviglie naturali nella forma del volto dell’imperatore Rodolfo II, ultimo grande collezionista del Rinascimento europeo.

“Bosch e un altro Rinascimento”
a cura di Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades, Claudio Salsi
Palazzo Reale di Milano
piazza Duomo, 12, 20122 Milano

Catalogo “Bosch e un altro Rinascimento” (Edizioni 24 Ore Cultura)

Immagine in evidenza: Bottega di Jheronimus Bosch – La visione di Tundalo, 1490-1525 circa. Olio su tavola. Madrid, Museo Lázaro Galdiano © Museo Lázaro Galdiano, Madrid (part.)