di Francesca Piperis.
L’immersione in una dimensione totalizzante, da un punto di vista visuale e sonoro, è resa possibile da uno dei più innovativi digital artist contemporanei: Lino Strangis.
Nato il 19 gennaio 1981 a Lamezia Terme (CZ), Strangis si avvicina alla musica in età prescolare, affiancandola nel corso delle sue sperimentazioni artistiche alla produzione virtuale. La definizione che l’artista dà di “realtà altra” è strettamente legata alla sua visione del mondo e di ciò che lo circonda, come insieme di esperienze sovrapposte e sovrapponibili. La “virtualità” delle sue performance permette al fruitore di entrare a far parte – fisicamente e mentalmente – di realtà che (altrettanto vere) si differenziano da quella da cui il singolo proviene: egli parla di una sorta di comunità, virtualmente intesa, in cui soggetti ed entità differenti fondono assieme le proprie sensazioni.
Lontano da qualsivoglia riproduzione di elementi preesistenti, Strangis mira alla ri-contestualizzazione di materiali e strumenti (partendo da quelli musicali da lui realizzati in maniera del tutto inedita) che nelle sue produzioni acquisiscono un tipo di rilevanza tra il distopico e l’onirico.
Una delle opere più emblematiche del suo progetto è sicuramente Partiture Spaziali. Altre musiche per altri tempi, in cui l’autore cerca di sintetizzare componenti coreografiche, partiture musicali ed effetti elettronici, trasformando così lo spazio fisico in una scenografia che fa da sfondo alla performance.
L’intervista
[Francesca Piperis]: Anzitutto, quale avvenimento o considerazione (se ve ne fossero di specifiche) l’hanno portata a sperimentare nel mondo della videoarte animata e digitale?
[Lino Strangis]: La dimensione digitale rappresenta l’approdo dopo essermi avvicinato molto giovane – con passione e curiosità – a quelle che, per semplicità, definisco arti sperimentali inaugurate dalle avanguardie. Ho adoperato pittura, scultura, installazioni e nel frattempo suonavo in varie band. Eravamo proprio a cavallo tra i millenni quando, durante i miei studi universitari, ho scoperto storia e filosofie di ricerche intermediali e conosciuto le esperienze dei pionieri delle arti elettroniche (che poi sarebbero divenute digitali). Tutto questo mi ha affascinato molto e ha portato ben presto il computer al centro del mio operare. In particolare, mi ha sedotto la possibilità, per me allora e tuttora eccezionale, di lavorare ad immagini in movimento e suoni per cercare delle composizioni audiovisive che non rientravano in quello che, all’epoca, avevo in mente quando pensavo al video. Avendo come punto di riferimento G. Youngblood, ho iniziato a vedere il computer come meta-medium, in cui confluivano tutti i miei interessi, tutti i linguaggi e le tecniche che cercavo di “spingere oltre” i loro confini. Forse per rispondere bene a questa domanda dovrei scrivere un saggio di 4 o 5 cartelle, ma spero sia possibile intuire il non detto da ciò che ho detto.
A fronte della sua produzione fino ad oggi, quale tra le sue opere reputa più significativa o rappresentativa del suo personale modo di vedere la realtà che la circonda?
Probabilmente il progetto che ad oggi posso ritenere più rappresentativo delle mie ricerche è “Partiture Spaziali. Altre musiche per altri mondi” e come si può intuire dal titolo c’è un riferimento alla realtà ma più nel senso di ipotizzare (più o meno metaforicamente) altre realtà. Prima di tutto […] la ricerca di altri mondi ed esperienze (che potrebbe sembrare semplicemente un’evasione dal reale) si sviluppa all’interno di un discorso che proviene da posizioni (anche politiche) che definirei molto critiche e radicali nei confronti di ciò che definiamo “realtà e attualità” fin dalle sue fondamenta. Io cerco di creare mondi in cui si possa fare esperienze “altre” per nutrire le menti della consapevolezza che il nostro non è l’unico mondo possibile e, che anche le cose che sembrano più irremovibili potrebbero divenire altro e cioè cambiare: per questo altre musiche per altri mondi. Ho pensato all’espressione verbale, mi pare soprattutto meridionale, che dice qualcosa come “questa musica deve cambiare” che descrive la necessitò di modificare l’andamento della cosa pubblica e questo mi ha suggerito che, forse, tramite esperienze di suoni e visioni differenti si può in qualche modo diffondere l’urgenza di un cambiamento.
Per quanto riguarda invece l’ambito musicale, quando ha maturato una predilezione per la musica (universalmente intesa)? Ed in particolare per gli strumenti musicali “improvvisati” per così dire, che espone spesso sui social network?
La musica mi accompagna da sempre, sin dall’infanzia […]. Ritrovai la musica però durante l’adolescenza ed in particolare tramite la chitarra elettrica durante gli anni ’90. La morte di Kurt Cobain aveva dato il là ad un fenomeno musicale di grande impatto su molti giovani dell’epoca […]. La svolta però avvenne durante gli anni dell’università dove […] iniziai a comporre prevalentemente musica elettronica sperimentale con una delle prime versioni di fruity loops e con Ableton live. In particolare, suonavo per poter realizzare la parte sonora delle mie prime opere di videoarte (che nel frattempo iniziavano a girare per mostre e festival). Appena ho potuto, però, ho preferito iniziare a lavorare con i singoli sintetizzatori invece che con i software di simulazione e questo in quanto volevo ritrovare la dimensione musicista/strumento che si può avere solo quando ci si interfaccia con qualcosa che ha uno specifico carattere e una certa forma/corpo […]. Con il passare del tempo ho capito che mi interessa molto – e mi sembra significativo – lavorare a progetti che possano accogliere e far dialogare tecnologie attualissime e sviluppatissime con strumenti realizzati guardando a tecnologie più primitive: la maggior parte dei miei strumenti musicali auto-costruiti è ispirata a tradizioni musicali di varie parti del mondo; solitamente, più uno strumento è semplice e antico a livello tecnologico […] maggiore è il mio interesse a farlo entrare nel circuito di esperienze e di senso che cerco. […] Così facendo recupero una dimensione gestuale e scenica che mi mancava, specialmente nelle performance, dato che in quelle incentrate sull’elettronica/digitale il corpo umano si muove poco ed in modo poco significativo davanti a pulsanti e manopole, in questi casi la performance è tutta in proiezione, mentre io cercavo performance che spaziassero sia nel mondo fisico che in quello virtuale. Questo mi ha fatto pensare all’importanza – nel mondo del software – di non perdere la nostra “animalità”: muovere il corpo, usare mani, toccare i materiali, sudare sopra gli strumenti, “godersi” tutto ciò che può darci, a livello esperienziale, ciò che chiamavamo cyberspazio e qualcuno oggi vuol chiamare “metaverso” e comunque evitare di perdere tutto il resto.
Quale riflessione l’ha condotta a fondere i due interessi tanto da renderli parti imprescindibili del suo lavoro?
Sicuramente mi interessa mettere in scena l’incontro di elementi diversi e apparentemente lontani: quelle che mi piace chiamare “drammaturgie delle differenze”, per rendere concreta l’idea che anche cose molto diverse possono convivere (invece di entrare in conflitto), possono generare fenomeni inediti magari anche molto interessanti e perfino virtuosi. Credo si intuisca come apparentemente il mio sia un discorso tecnico, in verità, però, le stesse parole si potrebbero usare se si parlasse di comunità caratterizzate da diversa provenienza etnica e culturale che si trovano a vivere insieme nelle nostre città. Inoltre, mi interessa lavorare in una dimensione che forse potrei definire “meta-storica” dove si superano anche i confini tra presente, passato e futuro.
Considerando la sua opera “Partiture Spaziali. Altre musiche per altri mondi”, la performance risulta una sorta di combinazione di stratificazioni artistiche e tecniche differenti: dalla videoarte alla realtà virtuale, dalla modellazione tridimensionale alla dimensione puramente performativa, il tutto adornato dalla produzione musicale elettronica. In che modo (ed in quanto tempo) ha partorito quest’idea e, successivamente, concretizzato le prime intuizioni?
Cerco sempre di fare in modo che le mie installazioni mettano in scena una fotografia dello stato dell’arte della mia ricerca. Nel caso di Partiture (ed in particolare l’installazione del M.A.C.RO. nel 2019) sono riuscito a realizzare un ambiente che definirei “totale”, nel quale molte delle varie direzioni del mio ricercare hanno trovato spazio condiviso in un concept fondato su un contesto creativo che mi piace definire “circolare”, dove gli output possono essere molto diversificati e gli input muoversi e provenire da molte direzioni. Nel progetto Partiture Spaziali, infatti, le modellazioni 3D – che ho realizzato con un innovativo sistema di modellazione con controller per mani in VR – sono state sia inserite nel mondo virtuale visitabile dal pubblico (tramite headset) che usate per la performance, stampate come sculture, usate per realizzare immagini ottenute catturando frame della realtà virtuale (e stampate su fogli di carta con i quali ho creato una installazione su tutto il pavimento. Questo affinchè avessero anche una presenza fisica nell’ambiente espositivo, che diveniva così una sorta di portale dimensionale tra il qui e l’oltre, composto di elementi che possono attraversarne i confini e fondare nell’ambiente uno spazio liminale.
Se dovesse riassumere con cinque aggettivi il progetto, quali termini userebbe?
I termini sarebbero: intermediale, totale, circolare, multidisciplinare, ambientale.
Parlando di realtà virtuale, si sente pienamente rappresentato dagli strumenti offerti da questo nuovo mondo “artificiale”? Crede che il suo lavoro, pregno di innovazioni e contaminazioni, abbia trovato terreno fertile nelle nuove peculiarità tecnologiche prodotte dall’intelligenza artificiale?
Non è facile spiegare in poche parole ma ci proverò. Non mi sento particolarmente rappresentato da molti degli andamenti – che vedo e intravedo (per il futuro) – di queste tecnologie a livello mainstream e, anzi, sono convinto che avremo presto bisogno di saper distinguere tra i vari modi d’uso e quindi i modi di veicolare strumenti e linguaggi in questo contesto […]. Mi sembra importante evitare che si verifichi ciò che già molti anni fa aveva paventato J. Baudrillard e cioè, per dirla brevemente, che il mondo virtuale tendesse alla cancellazione del mondo, proponendo simulazioni e simulacri che vanno a sostituirsi alle cose e alle esperienze delle cose reali. Non che io ci tenga a “proteggere” questa che chiamiamo realtà […], ma so che perdere il rapporto diretto con le cose condurrebbe a gravi perdite esperienziali per l’umanità e porterebbe ad un mondo in cui la percezione di ciò che è reale potrebbe divenire una “pillola” somministrata alle masse dai gruppi di potere a mezzo di media sempre più pervasivi. Per questo nei miei mondi virtuali cerco di “superare” il conflitto tra realtà e realtà virtuale spostando il discorso dalla realtà alla verità: se una simulazione non ha un modello originale non risulta una simulazione e quindi questa non può sovrapporsi a nessuna esperienza precedente, forse non sarà reale (per questo la definiamo virtuale) ma a quel punto ritengo che essa diventi un’esperienza “vera” ed è questo che voglio cercare di offrire, esperienze vere e uniche, si spera coinvolgenti ma anche significative. […] Cerco, in generale, di creare realtà virtuali che non intrattengano un rapporto di tipo sottrattivo con il mondo.
Sono un ricercatore curioso e difficilmente non mi accorgo di qualcosa che è davvero interessante per nutrire e popolare i mondi e le esperienze di cui sopra; ho usato e uso in vari modi le possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, ma molto più quelle già da tempo utilizzate nel mondo dei videogames. Io uso qualunque strumento nel modo in cui mi sembra servirmi e posso dire che – dopo aver provato i vari DALL-E e soci – li ho trovati giochini non certo privi di un interesse generale (che sarebbe lungo da trattare) ma tutto sommato non particolarmente intriganti per me. A me le intelligenze artificiali piacciono quando sono utilizzate per “disertare” il loro mandato di base e fare altro […]. Ad esempio, in vari progetti recenti ho usato le intelligenze di alcuni droni militari, ho chiamato il progetto Reformed A.I., utilizzando una parola di derivazione militare che era usata per definire coloro che venivano considerati non adatti al servizio di leva, i cosiddetti “riformati”. Questo concetto del “essere riformato” e cioè di non essere considerato adatto alle mansioni per le quali si crede che una certa cosa sia destinata, che porta a cambiare forma, immaginare e intepretare una nuova vita per darsi un senso, mi interessa molto e per questo ho cercato di trasformare quei droni militari in oggetti sonori, luminosi e coreografici […]. Scherzando dico che ho trasformato i militari rifiutati in “stelle della danza sperimentale”.
Concludendo, in merito al suo nuovo progetto, vuole raccontare in che modo ha preso vita e le modalità con cui il progetto sta prendendo forma? Quali sono gli elementi inediti che, mediante questa performance, vuole offrire al suo pubblico?
Si tratta di una nuova evoluzione di tutto quello che ho fatto finora. In particolare, ho incentrato la mia attenzione su ambienti 3D sensibili al suono e su suoni (e quindi rispettivi strumenti) con i quali avrei potuto dialogare. Di base queste installazioni (videoproiezioni di ambienti 3D sempre visitabili anche in VR) interagiscono con i suoni della sala (voci, passi, …) o dell’ambiente magari esterno in cui sono installati (non l’ho ancora fatto, ma mi piacerebbe sistemarne qualcuna in ambienti pubblici, in strada ad esempio) e chiaramente anche con le mie performance sonore. […] Anche qui gli output, e quindi gli oggetti presenti sul luogo, saranno molti e toccheranno la dimensione pittorica, la stampa di vario genere, le sculture o comunque oggetti tridimensionali, le installazioni mixed media e ovviamente i miei strumenti musicali auto-costruiti (che dopo essere stati utilizzati dal vivo resteranno parte dell’ambiente espositivo).
Riferimenti
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© Lino Strangis – frame da Opera di Realtà Virtuale Partiture Spaziali. Altre musiche per altri mondi