La fotografia di paesaggio italiano. Intervista a Guido Guidi

di Fabiana Maiorano.

La fotografia di paesaggio italiano. Intervista a Guido Guidi.

Esiste un curioso spaccato di storia della fotografia che riguarda la fotografia di paesaggio italiano: un grand tour che un’intera generazione di fotografi ha intrapreso negli anni ‘70 e ‘80 con l’intento di far emergere una nuova coscienza visiva capace di coniugare la documentazione e le riflessioni concettuali che stavano maturando in ambito artistico.

Il Belpaese da cartolina cambiava faccia: la fotografia viaggiava tra le campagne dimenticate, attraversava le periferie e raggiungeva le Alpi, toccava muri fatiscenti e angoli insoliti, raggiungendo anche gli interni delle case.

Tra i nomi di coloro che hanno contribuito a restituire la narrazione di un Paese non più stereotipato spicca quello di Guido Guidi (Forlì, 1941), il cui racconto fotografico rappresenta, per certi versi, il rovescio della medaglia dell’età postmoderna, reso con un rigore estetico da ricercare nelle tonalità e nella grande profondità di campo che permette di cogliere i dettagli di ogni scena.

Si concentra su luoghi spesso trascurati o dimenticati, restituendo un’atmosfera aulica e malinconica, capace di evocare emozioni profonde. Questo rende la visione dei suoi scatti un’esperienza visiva unica e personalmente, per quanto riguarda soprattutto i lavori recenti che ho avuto modo di osservare, ho provato un senso di nostalgia e di bellezza perduta.

L’intervista

[Fabiana Maiorano]: Tu sei uno dei più importanti fotografi del panorama nazionale ed internazionale, pioniere della nuova fotografia italiana di paesaggio e tra gli artisti che parteciparono al famoso “Viaggio in Italia” dell’84, importante manifesto di questa nuova iconografia del paesaggio italiano.
Sei stato allievo di personalità del calibro di Carlo Scarpa e Italo Zannier, sei un artista estremamente prolifico con un curriculum fatto di libri, mostre e cataloghi di tutto rispetto. Le tue opere sono state esposte in prestigiosi musei in tutto il mondo e molte di esse impreziosiscono le collezioni di importanti istituzioni italiane e internazionali.
Partiamo dal principio: com’è avvenuto questo approccio al mondo della fotografia?

Fabiana Maiorano con Guido Guidi, Bologna, 2023

[Guido Guidi]: In adolescenza. Mio zio voleva sdebitarsi con mio nonno per un favore che gli aveva fatto e chiese di farmi un regalo, allora chiesi una macchina fotografica. Possiamo dire che da quell’episodio è iniziata la mia storia di fotografo; ero appena un liceale e mi dilettavo a fotografare i miei compagni e i parenti. Pochi paesaggio, finchè all’università la fotografia è tornata utile per alcuni esami di urbanistica e architettura. In verità volevo fare il pittore e l’architetto, poi però durante il servizio militare ho avuto modo di lavorare in un laboratorio di stampe che era lì e iniziavo a pensare alla fotografia in termini completamente diversi. Su consiglio di qualche amico mi sono iscritto al corso di Industrial Design a Venezia, dove insegnavano Zannier e Veronesi. Italo Zannier è stato un mentore e un maestro per tutta la vita e colgo l’occasione per ringraziarlo.

Quali sono le correnti artistiche che ti hanno influenzato?

Sicuramente l’informale; apparve quando ero al liceo ed è stata la prima corrente artistica ad avermi formato. Oltre a questa, nelle mie fotografie c’è tanto concettuale e ovviamente iperrealismo. Guardando invece al passato, mi è sempre interessato il Rinascimento toscano e veneto.

Come mai hai deciso di dedicarti alle fotografie di paesaggio e di architettura?

Molto semplicemente perché uscivo fuori di casa ed il paesaggio era tutto lì attorno. Presi consapevolezza che fare il pittore non faceva per me, perché mi avrebbe obbligato a stare chiuso in studio. L’idea outdoor era più stimolante.

Nelle tue fotografie avverto un silenzio nostalgico per una bellezza decadente. È una giusta lettura?

Giusto è che tu sovrapponga alle mie fotografie quello che sei e quello che pensi, senza chiedermi se la tua interpretazione è giusta o sbagliata. Io stesso prima di essere l’autore sono innanzitutto lo spettatore della scena.

Come ti sei ritrovato a far parte di quel gruppo di artisti che parteciparono a “Viaggio in Italia” dell’84?

Avevo conosciuto Ghirri alla fine degli anni ‘70, mi chiese di partecipare e acconsentii. Il progetto nacque dall’idea di Ghirri di creare un atlante che non fosse il solito da Touring Club e bisognava coprire tutto il territorio nazionale; tuttavia alcune aree sono rimaste scoperte, come ad esempio quella siciliana.

Tu hai avuto modo di assistere ad un importante passaggio generazionale. Cosa noti sia cambiato nel fare fotografia?

Fare fotografia ai miei tempi era dispettoso. Usare un linguaggio disprezzato dai più per noi era un piacere. Adesso fare fotografia è una moda, ma non bisogna mai dimenticare che è diventata “arte” entrando dalla porta di servizio. Bisogna tenere sempre a mente questa cosa, soprattutto perché molti oggi vogliono entrare dalla porta principale, dunque si adattano a maneggiare la fotografia con delle modalità che sono più della pittura e rischiano di snaturarne l’essenza.

Hai un’esperienza pluriennale nella docenza. Come si insegna la fotografia?

La fotografia non si insegna, ma si apprende. Bisogna associare questa disciplina alla mentalità dell’umiltà e l’umiltà non si insegna. Mi auguro che le nuove generazioni non abbiano un percorso così duro come fu per noi.

Che aria si respirava ai tempi?

Un’aria di insufficienza nei nostri confronti. Diverso tempo fa un gallerista mi chiese dove eravamo noi fotografi quando a Torino si faceva l’arte povera e l’arte concettuale. Gli risposi che eravamo fuori dai loro palazzi, dovevano solo venirci a cercare.

Nel tempo la fotografia si è ritagliata il suo spazio o pensi che c’è ancora un po ‘di timore nel parlarne accostandola all’arte? Secondo me spesso la fotografia viene considerata un accessorio, uno strumento utile al cinema, alla pubblicità o alla moda.

È vero, ci sono ancora degli scrupoli quando se ne parla. La frase “L’artista che usa la fotografia” è emblematica in questo senso: la fotografia non si usa, la fotografia è un linguaggio e casomai è il linguaggio che usa te che lo pratichi. Dire “artisti che usano la fotografia” è come dire “artisti che usano la pittura” o “architetti che usano l’architettura”. È paradossale che ancora esistano questi modi di dire. Il fotografo è fotografo come il pittore è pittore, lo scultore è scultore, etc.

Da settembre 2023 la collezione permanente del MAMbo di Bologna vanta alcune tue opere, esposte al pubblico per la prima volta in occasione della mostra “Architettura e fotografia nelle campagne dell’Emilia-Romagna. Maura Savini, rilievi e progetti – Guido Guidi, fotografie”. Appartengono al tuo ultimo progetto realizzato quest’anno. Di cosa si tratta?

Si tratta di una committenza legata al progetto Strategia Fotografia 2022, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura per la selezione di proposte di acquisizione e valorizzazione del patrimonio fotografico italiano. Il bando del progetto è stato vinto dal MAMbo, che ha poi presentato una mostra sull’architettura rurale in Emilia-Romagna. Per l’occasione ho fotografato due piccionaie a Minerbio e Granarolo e una casa colonica a San Giorgio di Cesena. Il museo ha acquisito sei fotografie di questo progetto, oltre alle quali ho dato in comodato d’uso quattro fotografie degli anni ‘80 di grandi dimensioni.

Contatti
guidoguidi.fotografia@gmail.com
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Tutte le immagini © Guido Guidi
Immagine in evidenza:
© Guido Guidi – Minerbio, 2023