Schermi di tela

La fotografia di Pino Ninfa fra etica ed estetica

di Mariateresa Zagone.

"La fotografia di Pino Ninfa fra etica ed estetica" di Mariateresa Zagone

Pino Ninfa è un fotografo catanese, trasferitosi a Milano fin dall’adolescenza, fra i più sensibili dell’attuale panorama nazionale.

Artista dal corposo background è stato fotografo ufficiale del Jammin Festival dal 1998 al 2011 e della filiale italiana del Blue Note dalla sua apertura fino al 2004; ha inoltre seguito diverse edizioni di Umbria Jazz.
Ha realizzato campagne pubblicitarie per importanti aziende e ha sviluppato progetti solidali con varie ONG fra cui Emergency, Amani, CBM Italia e Cesvi. Nel 2014, ad esempio, ha seguito per Cesvi un progetto sul cambiamento climatico nella foresta amazzonica in Perù nella regione di Madre de Dios. In campo musicale, da anni, porta avanti progetti con diversi musicisti fra i quali Paolo Fresu, Franco D’Andrea, Stefano Bollani, Enrico Pierannunzi, Danilo Rea, Enrico Intra, Pietro Tomolo, Rita Marcotulli e Gavino Murgia, Luciano Biondini che prevedono l’incontro tra musica e fotografia.
Tiene workshop in Italia e all’estero su temi legati a vari aspetti della fotografia e dell’essere fotografo: uno fra tutti, dal 2013 a Lima con gli studenti dell’Università San Marcos, un lavoro di reportage sull’area del Cono Sur dove lo sfruttamento sessuale minorile è in continuo aumento.
Ha esposto in diversi musei in Italia e all’estero.
La sua poliedrica produzione si caratterizza per un’estetica di estrema raffinatezza, per un uso della luce e delle ombre che ricorda certa pittura europea del ‘600, da Rembrandt a Georges de La Tour, per un equilibrio compositivo derivato dalla perfezione tecnica della pittura accademica, per l’attenzione lenticolare alle più piccole pieghe del volto che ricorda la ritrattistica fiamminga e antonelliana.

In occasione della mostra Entrada Proibida. Cronache Amazzoniche presso le sale dell’ex filanda Mellinghoff di Messina, l’ho intervistato per Arte.go.

[Mariateresa Zagone] Com’è nata la tua passione per la fotografia?

Pino Ninfa

[Pino Ninfa]: Credo che la passione per la fotografia sia nata per un’esigenza profonda legata alle arti visive e alla pittura in particolare. Ma non ero capace di disegnare. La fotografia mi ha dato la possibilità quindi, con un altro linguaggio, di rimanere legato alla realtà tangibile e alla mimesis.

Come leghi i due principali filoni della tua produzione, quello di fotografo musicale e quello di fotografo di reportage?

Grazie per questa domanda che trovo davvero interessante. Ho lavorato a lungo per il Corriere della Sera come fotografo di grandi eventi legati alla musica ed ero ovviamente ben pagato ma la qualità di quella vita ad un certo punto mi è pesata. Ho quindi deciso di dire basta, i più non hanno compreso questa mia scelta tanto che venivo guardato quasi come fossi un marziano. Detto ciò, quello che cercavo nelle immagini di concerti, quello che ho sempre cercato, è il senso di umanità e la tangibilità di un’atmosfera legata a un luogo o a un momento. Ed è questo bagaglio – potremmo dire sinestetico – che io ritrovo dentro me come il leitmotiv di ogni mio nuovo progetto. Come sai sono appena rientrato da Cuba e lì mi sono più volte chiesto quale fosse il mio taglio, la mia visione di Cuba; ci sono infinite foto dell’isola caraibica, ma io cercavo le mie foto, quelle di Pino Ninfa e alla fine ho travato che erano quelle della “sera cubana” a risuonare dentro di me, ancora una volta come una musica, i fari delle auto lungo le strade di l’Avana vecchia, le ombre lunghe che proiettavano.

Hai fatto tantissimi reportage in zone anche bellissime del pianeta dove, spesso, vivono gli “ultimi” della terra in situazioni di estrema povertà al limite dell’immaginabile. Quale dei tuoi progetti/viaggi ti ha profondamente cambiato?

Nessuno in realtà. Quello che mi ha cambiato è stato il contatto diretto con la guerra. In Cambogia; ad esempio i khmer rossi avevano minato un tratto di 250 km al confine con la Thailandia, ho visto persone saltare in aria e scoppiare come fossero palloncini, in un’altra occasione ho visto un uomo guidare una moto e dirigersi verso un ospedale con due esseri aggrappati dietro totalmente scuoiati, con la pelle penzolante. Ho fotografato tutto e tanto ma sono foto che non ho mai pubblicato e che credo non pubblicherò mai. Al contrario ho lavorato tantissimo sulle protesi, investendole del valore simbolico della rinascita: anche questa è una scelta. Questo progetto è sfociato in una pubblicazione per Emergency– Una speranza in Cambogia.

Qual è il significato sociale della fotografia?

Alla fotografia è sempre più richiesto di fare spettacolo, di mettere i lustrini. Penso invece che il suo valore documentale, nudo, pulito, rimanga fondamentale.

A chi serve la fotografia?

A tutti coloro che possono usarla, ad aprire porte sul mondo, alle relazioni con l’altro e con l’ altrove.

Ogni fotografia ritaglia una precisa porzione di realtà denunciando l’evidente intenzionalità dell’occhio del fotografo. A questo proposito, nella fotografia “sociale” esiste un confine fra una fotografia destinata alla ricerca e/o alla denuncia e una fotografia artistica? In breve, il fattore estetico danneggia la ricerca e viceversa?

Assolutamente no. Uno dei miei principi di base consiste nel fatto che ciò che racconto deve arrivare al pubblico in maniera interessante, esteticamente pulito. Gli scatti che vedi qui in Entrada Proibida, ad esempio, sono scatti privi di qualsivoglia postproduzione o ritocco, nessuna modifica al rapporto luce-ombra è stato apportato, nessun taglio, li ho esposti così come li ho immaginati e realizzati.

Parliamo della fotografia sociale, dei suoi albori nell’ottocento. Penso ad esempio a Lewis Hine, alle sue foto degli immigrati italiani ad Ellis Island o a quelle dei bambini sfruttati nel lavoro minorile.

Lewis Hine è un fotografo molto noto anche perché statunitense e gli Stati Uniti in qualche modo hanno cercato una grande autonomia nei vari settori delle arti visive, hanno costruito un sistema, penso piuttosto ad un grandissimo fotografo sociale catanese di fine ottocento, Luigi Martines di cui gli inglesi hanno trafugato tutti i negativi e le cui stampe, adesso, si trovano sparse per i musei di tutto il mondo.

Qual è la responsabilità che Pino Ninfa sente su di sé quando affronta un nuovo progetto?

La responsabilità di essere in pace con me stesso in un mondo che alimenta in ogni modo il conflitto. Mi illudo di poter trovare delle strade che possano alimentare la riflessione. Penso che il mio lavoro sia un lavoro pulito che non ha l’esigenza di fare il verso a nessuno mosso solo dal desiderio di poter incontrare dei mondi.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Attualmente quello di portare in giro Entrada Proibida, penso infatti alla prossima tappa che sarà a Tarquinia. E poi ancora performances, in particolare con il vocalist Boris Savoldelli e il sassofonista Massimiliano Milesi a cui mi lega una simile idea del mondo e in particolare delle donne, della loro magia, del loro abitare la terra, abitarla riempiendola di senso.

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