Gender Fluid

La fotografia epidermica di Mustafa Sabbagh. L’intervista

di Paola Milicia.

Racchiudere in poche battute l’opera di Mustafa Sabbagh non è un’impresa semplice. Si ha la sensazione di voler definire qualcosa per natura incontenibile, e questo perché Sabbagh, come pochi altri, ha una capacità di decuplicare lo sguardo, di rinviarlo fuori e dentro il soggetto in posa, di rimandare infinitamente ad altro, di rinvenire un mistero o un miracolo, e di consegnarcelo, nel dubbio che sia proprio, o soltanto, questo quello che abbiamo vissuto e intuito guardando il suo lavoro. È un’opera di stratificazioni di sensi la sua; è un deposito remoto di significati che complica tanto l’esperienza della visione quanto il suo recupero. In questo, è davvero maestro: ove raggiunge una dimensione espansa della figuratività, rimettendo in gioco il senso unico e univoco dell’imago che non appartiene più alla realtà visiva, piuttosto, assume la forma di una proiezione fantasmica che è dentro l’altrove.

In un viaggio fatto essenzialmente di connessioni tra cinema (corpi ibridati da oggetti del genere Android e freak, e atmosfere di film horror), moda, scultura, design, pittura (la ritrattistica fiamminga del Seicento, Caravaggio), Mustafa Sabbagh propone una complessa e affascinante rilettura del corpo umano, ricco di estasi, di miracolo, di vizio, di vanità, di dramma, di supplizio, di dubbio, di guarigione, di preghiera, che dà vita a un apparato figurativo e scenografico fortemente permeato di simbolismo e di una profonda liturgia gestuale.

La sua opera sembra volerci suggerire l’arrivo di un’era semanticamente più epidermica e biomorfica, un nuovo profilo antropologico in cui il corpo è al centro delle relazioni, prestandosi a essere trattato al pari di un testo, o più ancora un textum, tessuto, sul quale intessere le proprie identità e condizione individuale o generazionale.

Il suo è un itinerario in apparenza discontinuo, ma questa mancanza di linearità mostra, invece, un’intima coerenza nel rivelare la segreta essenza dell’entanglement umano. I due filoni, quello di luce e di oscurità, ad esempio, sono portatori di informazioni solo in apparenza opposte che nella realtà reclamano una sostanziale complementarità, come la vita e la morte, la fine e il principio, la giovinezza e la vecchiaia, l’innocenza e il peccato, come la vista e la cecità. Non c’è polarità, non c’è disarmonia, ma solo l’illusorietà del dualismo: la sostanza originaria, formalmente percepibile come diversa, si trasforma in un unico contenuto di una grande amara narrazione d’autore o di un destino sostanzialmente uguale al di là di ogni possibile dissimulazione.

Il nero colore luttuoso, della magia proibita, dei riti satanici, della superstizione, dell’erotismo spregiudicato, del latex, del buio, della notte… In Onore al Nero (2014), serie fotografica di grandissimo effetto ipnotico, siamo colpiti dalla singolare trasformazione delle figure umane in organismi plastici dotati di una intensa vitalità estetica, essenzialmente legata alla capacità dell’artista di controllare e far fluire nelle forme statuarie quella reminiscenza di codici, di esperienze e di linguaggi di una coscienza e conoscenza della contemporaneità di cui siamo fatti. Ma anche di riflessioni che si adattano con straordinaria lucidità al nostro tempo, nel quale le differenti età del corpo (e della pelle) sono esaltate da un artificioso camuffamento. Madonne nere, martiri carbonizzati, statuette voodoo, body toys: questa specie vivente afotica, che discende nella propria ombra, rimanda alla moderna ossessione di doversi “reprimere” in un mondo inchiodato su sé stesso, in cui il tema dell’identità, del desiderio, dei sogni si tingono di dolorosa negazione e cecità.

Nella recente esposizione “Senza titolo. Prodotto F” (2022), ospitata presso la Casa della Memoria, a Milano, i corpi di giovani immersi in un destino per tutti ugualmente illusorio raccontano la storia comune alla generazione Fantasma, in un ciclico alternarsi di acquisizione e perdita, di compiutezza e smarrimento, di mascheramento e palesamento, di identità e altro-ve. Ci invita a ripensare alle geometrie e alle simmetrie sociali del nostro tempo: chi è rimasto su questa porzione di terra, vedrà sempre l’altro e l’altrove con una distanza che si frappone tra i tanti immaginabili altrove che ciascuno di noi inventa per realizzare la propria emancipazione.

In un compendio di poetica visiva che affronta l’interazione fisica e culturale del corpo umano e il suo ambiente, come locus di denuncia sociale, politica, razziale e sessuale in un’epoca di rapidi cambiamenti e trasformazioni anche tecnologiche, la fotografia di Sabbagh ha dato vita a una magia compositiva diacronica con cui tornare a riflettere e interrogarci sulla nostra Storia.
Paola Milicia

Mustafa Sabbagh, Almost True _ untitled, 2013
stampa lambda su dibond, ed. di 5 + 1 PA
courtesy: l’artista

L’intervista

[Paola Milicia]: Nel saggio La storia dell’arte E. H. Gombrich affermava che non esiste una “cosa” chiamata arte, ma ci sono gli artisti e le loro opere. Comprendere e indagare l’arte sarebbero operazioni più semplici se prima si rispondesse alla domanda: chi è l’artista, il suo ruolo “sociale”, le origini…Parliamo di te: che artista sei? Di cosa sono fatte le tue opere?

[Mustafa Sabbagh]: Il saggio di Gombrich a cui fai riferimento, Paola, ha rappresentato di certo un crinale per la storia dell’arte, ma appartiene al 1950, e risponde a un’esigenza – quella propria di ogni studioso – di accomodarsi all’interno di una cornice metodologica per poter dare fondamento alle proprie tesi, che sono quasi sempre figlie del proprio tempo. Un tempo che va a tempo. Sostenere che non esiste l’arte ma esistono gli artisti, oggi, non è per me altro che una dichiarazione di metodo che occorre disperatamente superare, ora che dovremmo essere consci della devastazione alla quale porta l’idolatramento dell’Antropocene. La tesi di Gombrich era quella di un fatidico switch sul singolo, la necessità metodologica di un approccio individualista che desse rilievo all’artista prima che all’arte, dunque alla persona più che alla storia. Non può più essere così, arriva un certo punto all’interno del quale occorre necessariamente elaborare il lutto del padre per poter procedere in un cammino evolutivo che sappia discernere qual è il buono dell’evoluzione. Ho troppo amore per l’arte, quella vera e non sciacallata – chissà se esiste questa parola, ma rende bene… – dai moralismi usa-e-getta, per dimenticarmi che l’arte, quella vera e non sciacallata, con le sue correnti e le sue avanguardie, è maturità critica, è reazione e non reazionarismo, è libertà, è una atemporale presa di posizione nel presente, conscia del passato, necessaria per il futuro. Un artista non prescinde mai dal proprio tempo; semmai, a partire da esso, lo trascende, e cammina nel solco dell’arte, non del proprio ombelico.
Alla luce di questo, mi chiedi che artista sono… Guardo sempre con sospetto le auto-definizioni, le lascio al paradigma individualista di cui sopra, ma in devozione del ruolo dell’arte spero di essere un combattente (so che è un periodo buio per dirlo, ma ci sono battaglie, come quella per la cultura, che vale assolutamente la pena combattere), e spero che le mie opere siano fatte di cortocircuiti.

C’è chi ha parlato di fotografia come un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità dell’altro. Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo. Tempo, soggetto e artista: in quale rapporto si trovano queste componenti nella tua ricerca e rappresentazione artistica?

Anche qui, secondo me, Paola, occorre elaborare il lutto del padre, e in questo caso – più che della Sontag, alla quale personalmente perdono tutto avendo scritto quella perla di leggerezza che è Note sul Camp – di Barthes e della sua Camera Chiara, un indiscutibile caposaldo che ha indiscutibilmente fatto il suo tempo, perché sottilmente paga pegno a quell’attitudine con un tantino di puzza sotto il naso che nel tempo ha ghettizzato la fotografia come fosse figlia di un dio minore, nell’arte. La fotografia è una lingua tanto quanto lo sono la pittura, la scultura, la performance, tutte allo stesso modo funzionali all’esigenza di comunicare, e se per me l’arte trascende il tempo non prescindendo da esso, non vedo perché la fotografia, essendo arte, debba ucciderlo. Nella mia fotografia sto sempre attento, come dire, a non geolocalizzare: un conto è fare fotografia per congelare un ricordo, tutt’altro conto è farla, come deve fare l’arte, per scongelare la Memoria.

Ti muovi in un contesto di indagine semanticamente “epidermico”, tanto che le tue opere inventano una scultura figurativa “organica” fatta di massa, carne, organi, sensi…un corpus unico di corpi ritratti. Vige su tutto il contrasto di una fotografia tecnicamente perfetta e dalle reminiscenze patinate, e un dettaglio di imperfezione che emerge dall’osservazione. L’imperfezione si trasforma in una sorta di elemento “costruttore”, il cui obiettivo non è di realizzare un motore che funzioni, ma quello di ribellarsi a vecchi cliché estetici. Estetica ed etica possono convivere nel perseguimento di questo obiettivo?

Lo fanno per loro stessa natura, se si muovono nell’arte. L’arte è estetica, ma relegare l’estetica al reame irreale della perfezione parlando di arte è, fuor di metafora, parziale, limitante, antico e fuorviante. Basterebbe, come sempre nella vita, interrogarsi sull’origine delle cose: “estetica” viene da “aísthesis”, percezione, e traslarla nell’arte significa prestare ascolto all’immagine, sentire cos’ha da dire al di là di ciò che mostra, viverla come esperienza, coinvolgendo i cinque sensi e anche il sesto. Il più bel complimento che mi è stato fatto è stato quando mi hanno detto che, di fronte a una mia opera fotografica, riuscivano a percepirne anche l’odore. Piuttosto che sterile contemplazione, allora, estetica significa azione; ciò le permette di non essere costretta alla sola armonia delle forme, ma di poter andare finalmente oltre, ad abbracciare anche l’imperfezione, il disturbante, il perturbante, l’altro da sé. Per un creatore di immagini che possano appartenere all’arte è un impegno enorme, ma è anche, secondo me, il suo enorme dovere. È lì che l’arte come esperienza estetica si apre alla vita come esperienza etica: avere la volontà di mettersi in ascolto, sapere sentire, interpretare, cercare di prevedere e non solo di vedere. In definitiva per me restano scolpite nella mente, come un comandamento al quale devotamente attenersi, le parole di Ulay: l’arte è per me estetica, ma l’estetica senza etica è cosmetica.

Si è appena conclusa l’esposizione presso la Casa della Memoria. Vuoi raccontarci com’è andata? Il ritorno di pubblico? E su quali altri progetti stai lavorando?

Questa è veramente difficile per me, Paola, perché una volta consegnata un’opera, o il progetto di una mostra, a chi saprà prendersene cura, probabilmente per una forma di autodifesa me ne libero – per avere la libertà di andare avanti, o quantomeno di provarci. So dirti però che, in riferimento alla mostra alla Casa della Memoria, mi ha fatto particolarmente felice il messaggio di una mia cara amica, venuta all’inaugurazione con il suo bambino, il cui commento è stato (cito testualmente e con il dovuto rispetto): “È una figata, si può entrare con il monopattino e si può anche ballare”.
Ecco, personalmente direi che questo è un ottimo progetto futuro sul quale lavorare, lavorare sempre, perché ho fatto da tempo mie le parole di Emma Goldman: se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione.

Contatti:
Mustafa Sabbagh website

Immagine in evidenza: Mustafa Sabbagh, Onore al Nero _ untitled, 2016, stampa lambda su dibond, ed. di 5 + 1 PA, courtesy: l’artista
Tutte le immagini © Mustafa Sabbagh