II dibattito cresciuto negli ultimi anni intorno al rapporto tra pubblico e patrimonio figurativo, in particolare per l’aspetto didattico degli allestimenti museali e delle mostre temporanee, ha chiarito almeno un punto fondamentale: il visitatore più accorto riconosce onestamente un forte disagio di fronte a testimonianze culturali che restano lettera morta, senza un’opportuna documentazione integrativa, quasi non fossero mai appartenute al passato della nostra civiltà, bensì a una civiltà diversa, che con la nostra non ha avuto scambio alcuno.
È in effetti difficile sostenere il preconcetto che, se non tutti sanno leggere e scrivere, tutti riconoscono il significato delle immagini, con le imbarazzanti contraddizioni da superare al momento in cui si affronta un’immagine astratta.
Anche il vedere e riconoscere sono un modo di leggere, e comportano l’apprendimento di regole grammaticali e sintattiche tradizionali per gradi successivi di difficoltà, cosi da farle proprie, e magari poterle mettere in pratica personalmente.
A voler essere pignoli si può andare oltre affermando che molti sanno scrivere in poesia, cioè conoscono l’esatta lunghezza di un verso e la musicalità della cadenza ritmica (se non vogliamo pensare alle vecchie rime), mentre sono in minor numero quelli che sanno disegnare e dipingere, vale a dire che conoscono e dominano almeno i primi rudimenti di un veicolo espressivo ulteriore alla lingua corrente o alla parola poetica.
Ai lunghi anni di apprendimento elementare della lingua parlata e scritta non corrisponde un analogo impegno sul fronte del linguaggio figurativo e della pratica del disegno: di qui una maggiore difficoltà nel leggere una opera d’arte figurativa rispetto alla lettura di un romanzo.
Finora si è scelta la via didattica più impervia e disperante : l’illusoria ambizione di comunicare al pubblico curioso le conclusioni ultime del conoscitore e dello storico che si accostano all’opera con un agguerrito bagaglio culturale e con una lunga esperienza.
I risultati sono stati di conseguenza fortemente riduttivi: ci si è dovuti accontentare di descrivere alcune semplici costanti ottiche (“la composizione è costruita secondo un triangolo… un cerchio… ecc.”) o di proiettare sull’opera in discussione certe nostre reazioni per intuito (“l’opera esprime una calma contemplazione.. . una violenta accentuazione del moto… un alto sentimento religioso”).
È anche troppo facile smontare questi automatismi: le costanti compositive sono uguali per tutti, o quasi, e non danno ragione delle ‘ differenze tra l’originale e una sua copia fedele (o tra Leonardo e l’ultimo dei leonardeschi), ne potremo mai essere sicuri che le nostre proiezioni soggettive abbiano centrato il nucleo vero, storico e poetico insieme, del capolavoro che ci è posto di fronte.
Solo con il reinserimento dell’opera esiliata in un museo nella casella lasciata vuota al momento dello sradicamento, si può sperare di approfondire con sicura conoscenza di causa i caratteri specifici della sua testimonianza culturale, all’interno di un quadro storico di ampiezza adeguata, articolato cronologicamente per serie di oggetti omogenei e per sistemi organici di loro aggregazione.
È naturale che di fronte a questa necessità più generalmente esplorativa il museo finisca per essere inadempiente rispetto al suo pubblico, e che giustamente molti avvertano il disagio cui si alludeva all’inizio.
Una delle soluzioni possibili è capovolgere il problema e arrivare al capolavoro chiuso nel museo dopo aver verificato quanto sia più consistente e variegata la trama storica che si intravede incontrandolo nella sua originaria collocazione territoriale…
Giovanni Romano
tratto dal volume: “Il Patrimonio storico artistico”
Collana “Capire l’Italia”
Ed. Touring Club Italiano
Milano
1979