Science Art Visions

La nuova “mitologia della creazione” di Stelarc. Anatomia protesica dell’uomo moderno

di Francesca Piperis.

La nuova "mitologia della creazione" di Stelarc. Anatomia protesica dell'uomo moderno

“Distopico” è senza dubbio l’aggettivo più appropriato a descrivere il progetto anatomico di Stel Stelarc, uno dei nomi più rilevanti nel panorama body-artistico contemporaneo.

L’artista cipriota fa del suo interesse verso la robotica l’elemento chiave della sua ricerca artistico-tecnologica: l’inserimento di protesi meccaniche come parti inorganiche all’interno di un corpo biologico (spesso il suo), diviene la base della sua poetica.

La sperimentazione dell’artista nasce dalla radicalizzazione dell’utilizzo protesico all’interno della società odierna: più che una cura, questi apparecchi divengono – secondo Stelarc – una sorta di moda dell’eccesso, a tal punto da spingere l’artista oltre i limiti fisici del corpo, studiando nuovi modi di adoperare l’elemento meccanico per modificare le leggi biologiche che governano ciò che egli definisce obsoleto nell’uomo.

Munendosi di neurotrasmettitori, strumenti di stimolazione muscolare e protesi di vario tipo, il pioniere di questa particolare architettura anatomica si sottopone ad interventi e prove di resistenza fisica di natura performativo-espositiva, con l’obiettivo di raccontare una storia inedita del rapporto che l’uomo sviluppa con la propria componente fisica e, soprattutto, di esporre al suo pubblico le innumerevoli possibilità che l’intersezione tra ricerca scientifica e nuove tecnologie aprono all’uomo del futuro.

L’intervista

[Francesca Piperis]: Le tue sperimentazioni nascono dalla necessità di ridefinire leggi fisico-biologiche del corpo umano e il suo modo di vivere lo spazio che lo circonda. Quando si sviluppa questa esigenza di scoperta e decostruzione? Deriva da una formazione specifica o si è sedimentata con il tempo?

[Stel Stelarc]: Beh, non tanto per affinare i parametri fisici del corpo ma piuttosto per sperimentare architetture anatomiche alternative. Esporre e interrogare il corpo come risultato evolutivo e svolgere, sperimentare e articolare ciò che significa operare e interagire con altri corpi, macchine, strumenti e sistemi computazionali. Questa volontà di ripensare, reimmaginare e persino di considerare la possibilità di riprogettare il corpo si è sviluppata nel corso di molti anni senza una direzione specifica o una posizione ideologica; piuttosto un’oscillazione di preoccupazione tra il biologico, il tecnologico e il virtuale. Quando ho esaminato visivamente tre metri di spazio interno del mio corpo, tra il 1973 e il 1975, mi sono reso conto che il corpo non è semplicemente delimitato dalla pelle ma è un’architettura interna di strutture, spazi e sistemi circolatori. Ciò che seguì fu una serie di privazioni sensoriali e prestazioni fisicamente difficili culminate nelle sospensioni corporee tra il 1976 e il 1989. Venti anni dopo l’utilizzo di queste sonde interne, ho disegnato una scultura per l’interno dello stomaco: non una scultura per uno spazio pubblico ma per uno spazio fisiologico privato, una struttura chiusa che poteva essere inserita lungo l’esofago. All’interno dello stomaco poteva aprirsi e chiudersi, estendersi e rientrare, aveva una luce lampeggiante e un suono che riproduceva una sorta di “bip”. Una semplice coreografia meccanica all’interno di un organo molle del corpo, quest’ultimo è reso semplicemente la cornice di una scultura (piuttosto che luogo della psiche).

StickMan, Stelarc

Nel progetto “StickMan” lo scheletro artificiale diventa struttura del movimento dell’uomo che lo performa. Puoi esporre le fasi di progettazione di quest’opera, soffermandoti anche sulla motivazione della scelta dei materiali che la compongono?

Con la prestazione di Propel che ha preceduto StickMan, il corpo è stato attaccato ad un esoscheletro rigido all’estremità del braccio di un robot industriale. La posizione e l’orientamento, la traiettoria e la velocità del corpo potevano essere precisamente programmati per la sua coreografia motorizzata. Non era interattivo – in parte a causa del pericolo derivante dalla situazione – ma era una performance di un sistema ibrido, composta dall’intersezione tra metabolismo corporeo e muscolatura meccanica.
StickMan – al contrario – è un esoscheletro minimale ma completo che attiva il corpo con sei gradi di libertà per cinque ore di prestazioni continue. Una gamba è libera di ruotare, consentendo al corpo di modificare la sua ombra e modulare un feedback (video) proiettato sulla parete adiacente. Quindi il corpo è in parte posseduto dalla tecnologia e in parte libero di muoversi con la sua propria agency.
Vi è anche un’interfaccia figurativa che permette al pubblico di inserire la propria coreografia all’interno della performance, piegando gli arti del “mini StickMan”. L’esoscheletro è in alluminio, con tutti i cablaggi e i sensori esposti. La sua estetica è il risultato dei materiali utilizzati, ed essendo pneumaticamente azionato, StickMan è anche un’installazione sonora caratterizzato dalla coreografia di movimenti che compongono lo scenario sonoro della performance, combinando suoni di aria compressa, clic solenoidi e suoni provenienti da segnali dei sensori sulla spina dorsale dell’esoscheletro. Quando l’artista non è attaccato, StickMan è un’installazione interattiva a sé stante: si esibisce per l’intera durata della mostra in musei o gallerie.

Convenzionalmente (in ogni ambito in cui si utilizza) le capacità dall’androide vengono ridimensionate in relazione alla mancanza di elementi vitali che lo differenziano dall’essere umano. Sempre in merito all’opera “StickMan”, in questo caso l’esoscheletro sta a rappresentare una sorta di capovolgimento del rapporto di potere tra l’uomo e la macchina?

In quanto sistema ibrido-umano, la questione non è tanto posta su chi ha il controllo, in realtà il rapporto di potere tra il corpo e le sue tecnologie non viene invertito: esso viene problematizzato. Nei sistemi complessi e interattivi non ha senso chiedere chi ha il controllo, molte di queste prestazioni sono estese a sistemi che hanno anche interattività online da parte di agenti remoti.
Un’altra performance che illustra meglio questo concetto è Re-Wired / Re-Mixed, al Perth Institute of Contemporary Art, dove per cinque giorni – e per sei ore al giorno, ininterrottamente – il corpo poteva vedere solo con gli occhi di qualcuno a Londra, poteva sentire solo con le orecchie di qualcuno a New York, mentre chiunque, ovunque, poteva accedere al braccio destro dell’’artista e coreografare a distanza i movimenti. Vi era quindi una condivisione di sensi visivi e acustici e una distribuzione dell’agency tra gli individui partecipanti. Il corpo era effettivamente in tre posti contemporaneamente. Fisicamente a Perth e virtualmente a Londra o New York. In questo modo riusciamo ad abitare contemporaneamente i regni della Carne Circolante, della Carne Frattale e della Carne Fantasma.

Sitting/Swaying: Event for Rock Suspension, Stelarc – Tamara Gallery, Tokyo 1980. Foto: Keisuke Oki

Sin dall’inizio della tua carriera, hai fatto della robotica e dell’arte i baluardi della tua formazione. Da cosa nasce questo interesse incrociato tra il mondo tech e quello artistico?

Mi sono sempre interessato a quali nuove possibilità potessero essere generate dalla tecnologia sin da quando ero uno studente d’arte. Alla Art School ho creato occhiali indossabili che dividono la percezione binoculare; e una capsula rotante, immersiva, visiva e acustica per il corpo. Pochi anni dopo aver lasciato la scuola d’arte ho deciso di andare in Giappone, dove ho vissuto per quasi venti anni. All’inizio degli anni ’70 la tecnologia era considerata un’antitesi dell’arte.
Quando progettai Third Hand, i miei amici artisti giapponesi scherzavano sul fatto che l’alta tecnologia si traduce in bassa arte. Difatti, subito dopo il completamento di Third Hand, il mio lavoro era abbastanza sofisticato da ricevere inviti dal Jet Propulsion Lab di Pasadena e dal Johnson Space Center di Houston per esporre il progetto sperimentale al Gruppo “ExtraVehicular”. Erano interessati al sistema di controllo EMG (muscle signal), che richiedeva poco sforzo per azionare la mano e nessuna energia per mantenere il pugno a tempo indeterminato. Gli artisti solitamente sono affascinati dalle tecnologie che danno risultati inaspettati concettuali ed estetici. Negli anni più recenti la precisione, la velocità e la potenza dei robot e la loro affidabilità ripetitiva sono diventate seducenti. Mentre creiamo sempre più robot simili agli umani, il corpo si trasforma sempre più in una macchina con i suoi accessori, esoscheletri e impianti. Ci sarà un futuro in cui non avrà senso distinguere se stiamo interagendo con una macchina umana o un corpo biologicoaumentato.

Handswriting: The Third Hand, Stelarc – Maki Gallery, Tokyo 1982. Foto: Keisuke Oki

Spesso ti focalizzi sul superamento dei limiti fisici del corpo umano, in una sorta di sfida continua contro le leggi biologiche che governano l’uomo. Molti critici associano la tua poetica sperimentale alla filosofia nietzschiana; quali rimandi filosofico-teorici sono le radici del tuo pensiero e la base dei tuoi progetti scientifici?

Ho certamente fatto riferimento a Nietzsche, ma se questo è alludere al suo Ubermensch me ne distanzio, perché i progetti e le performance non sono realizzate al fine di valorizzare il corpo ma piuttosto volte ad esporre la problematica dell’identità e dell’incarnazione: si tratta di esperimenti con architetture anatomiche alternative. In questo regno liminare che offusca la vitalità del nascituro, del comatoso, del protesico, dei corpi criogenicamente conservati e plastinati, mi piace l’osservazione intelligente di Nietzsche secondo cui i vivi sono solo una tra le specie di morti.
Wittgenstein espone anche l’idea semplicistica che il pensiero si realizzi nella testa: pensi con le labbra con cui parli e le mani con cui scrivi. Quindi, forse, se un robot umanoide si comporta in modo appropriato in situazioni impreviste, se è socialmente interattivo e risponde con la sincronizzazione labiale in tempo reale nel discorso, non ci sarà bisogno di mettere in dubbio l’intelligenza dello stesso. Sono anche sedotto dall’idea di Marshall McLuhan secondo cui la tecnologia funzioni come organo esterno del corpo. […] Più recentemente, After Finitude di Quentin Meillassoux è diventato importante contributo alla filosofia contemporanea e una forte critica del correlazionismo. In contrasto con il materialismo dei realisti speculativi, le idee di Hilary Lawson e Donald Hoffman si orientano verso una posizione idealistica in cui la coscienza è privilegiata. Ma bisogna sottolineare che l’arte non è fatta per illustrare idee: l’arte non è tanto radicata nella filosofia, contribuisce piuttosto alla nostra esperienza della realtà. Come artista della performance, ciò che è importante analizzare sono le idee, sperimentare personalmente e avere qualcosa di significativo da poter articolare in seguito. Se questo genera la lettura di idee alternative, tanto meglio; soprattutto se queste mettono in discussione le ipotesi confortevoli riguardo cosa sia un corpo e come esso operi nel mondo.

La performance “Ear on Arm” nasce dal tentativo di estendere il sistema operativo del tuo corpo e introdurre un organo artificiale in una zona che biologicamente non lo accoglie. L’avambraccio diviene un mezzo di connessione artificiale. Questa idea, che sembra quasi uscita da un romanzo della Shelley, è stata partorita direttamente con questo determinato obiettivo e questo particolare organo?

Il progetto Ear on Arm nasce dal desiderio di progettare una protesi morbida, non come un attaccamento metallico al corpo (come nel progetto Third Hand) ma piuttosto un’aggiunta fisica, costruita a partire dalla mia pelle e dalle mie cellule. L’orecchio è principalmente un costrutto chirurgico. A sei mesi dall’inserimento della scaffalatura del biomateriale del polimero sotto la pelle, sono avvenuti la vascolarizzazione e lo sviluppo interno del tessuto. L’orecchio è diventato una parte viva del corpo. Il mio è un gesto estetico che rappresenta una possibile modifica del corpo non solo chirurgicamente ma anche geneticamente.
Ciò che non è ancora stato raggiunto, invece, è l’ottimizzazione elettronica dell’udito per consentirne il funzionamento su Internet, in modo tale che diventi un dispositivo di ascolto remoto per le persone in altri luoghi. La plausibilità di questa idea è stata testata nel corso del secondo intervento, durante il quale un microfono è stato inserito nella costruzione dell’orecchio. Anche con il braccio parzialmente ingessato e avvolto in una benda, il chirurgo (che indossava una maschera facciale) poteva parlare all’orecchio e la sua voce era captata e trasmessa via wireless. Attualmente, però, ci sono ancora problemi biomedici e tecnici che ne impediscono una realizzazione più elegante.

Puoi raccontarmi il processo chirurgico di inserimento dell’orecchio e ciò che hai provato nel momento in cui hai realizzato di possedere un terzo organo uditivo nel posto, passami il termine, “sbagliato”? Come ti sei sentito? Quali sono state le tue prime considerazioni?

L’intenzione non è mai stata quella di posizionarlo sull’avambraccio. Originariamente, volevo costruire un orecchio in più sulla mia testa, accanto a uno dei miei orecchi reali, ma non ho potuto trovare alcun chirurgo plastico che mi avrebbe aiutato a realizzarlo. Ci sono voluti dieci anni per ottenere il finanziamento e trovare tre chirurghi plastici per il progetto. Questa, certo, è semplicemente una costruzione chirurgica del rilievo di un orecchio, ma somiglia talmente alla forma di un vero orecchio che genera una sensazione inquietante quando lo noti sull’avambraccio. Normalmente – dato che ormai è una parte viva del mio braccio – lo dò per scontato nella maggior parte del tempo. Tra l’altro inizialmente il piano era di costruire l’orecchio sull’avambraccio esterno, ma per fortuna è stato posizionato in quello interno, in modo che la sua posizione risultasse più protetta, meno visibile e attirasse meno l’attenzione.

Propel: Body on Robot Arm, Stelarc – Demonstrable, Autronics Perth 2015. Foto: Steven Alyian

Come nasce l’idea di utilizzare materiale inorganico non più come cura di mancanze fisiche, ma come estensione del corpo in nome dell’’eccesso?

Con la proliferazione della tecnologia e l’aumento dei materiali micro, nano scaling e biocompatibili, la tecnologia non è più solo un contenitore, ma diventa anche una componente del corpo.
Per me il corpo è sempre stato considerato “al di là della sua biologia”. Si tratta sempre di un corpo protesicamente accresciuto – che va ben oltre le sue componenti naturali – come ha osservato anche Bernard Stiegler. Da quando siamo diventati corpi bipedi, due arti risultano manipolatori: costruiamo artefatti, macchine, strumenti e ora sistemi computazionali. La civiltà umana è stata determinata a partire dalla traiettoria della tecnologia: “essere umano” è in gran parte determinato dalle tecnologie derivanti dall’agire umano. Difatti, il corpo è diventato una chimera contemporanea di carne, metallo e codice, letteralmente un ibrido uomo-macchina.
Dopo una serie di privazioni sensoriali e prestazioni fisicamente difficili e poi una serie di sospensioni corporee, il focus non era sulla forza del corpo, ma piuttosto sulla realizzazione dei suoi limiti. Avendo individuato le inadeguatezze e persino l’obsolescenza del corpo umano, ho voluto aumentarla, radicalizzarla. Third Hand è stato il primo complesso sistema di aumento: sin dal primo progetto c’è sempre stata un’oscillazione tra il biologico, il meccanico e il computazionale.

Prendendo in considerazione il progetto “Kyoshin”, utilizzi neurotrasmettitori – collegati ai tuoi arti – come sonde del movimento. Puoi spiegare in che modo tali strumenti sono fatti funzionare?

Per essere spedifici, nella performance Kyoshin gli elettrodi amplificano il suono del battito cardiaco (ECG) e i segnali dei muscoli (EMG), attraverso un sensore che amplifica il respiro. Questo è stato creato su misura durante una residenza presso il Keio Media Design Lab. Il microfono di contatto sul robot aumenta i suoni del motore del robot. I “braccialetti sensore”, con accelerometri e chip sonori, generano segnali a partire dai movimenti delle mie braccia, delle mani e delle dita. Questa cacofonia di suoni registra i movimenti del corpo e del robot ed amplifica acusticamente la performance. La coreografia del corpo e del robot compone i suoni, immergendo il pubblico.

Re-Wired/Re-Mixed: Event for Dismembered Body, Stelarc – PICA, Perth 2016. Foto: Steven Alyian

Protagonista della stessa performance è anche un braccio robotico sul quale è fissata una camera che segue tutti i tuoi movimenti. La relazione tra le due strutture è più profonda? Puoi raccontare la funzione concettuale del braccio all’interno di questo contesto?

Il braccio robotico utilizzato in Kyoshin è programmato per eseguire movimenti di panning, inclinazione e rotazione della telecamera collegata. Guardando sia il corpo che la proiezione, genera un feedback video dinamico. Ci sono tre telecamere utilizzate nella performance: oltre a quella fissata sul braccio del robot, c’è una telecamera a soffitto che riprende in basso il corpo e una piccola telecamera sul braccialetto sensore LHS che consente di vedere la parte superiore del corpo dell’artista da vicino.
Un sistema di sensori supplementari permette, inoltre, all’artista di passare interattivamente tra le tre telecamere. Il corpo diventa lo switcher video live e il mixer video per la performance. Quindi ciò che il pubblico vede è un contrappunto della presenza fisica tra i movimenti del corpo e quelli del robot. L’artista monitora il feedback video dinamico che viene proiettato, e ascolta e regola i suoni generati. La performance è strutturata ma non sceneggiata: l’artista improvviserà, ma farà comunque parte di un sistema operativo esteso e interattivo.

Extended Arm, Stelarc – Melbourne, Hamburg 2000 Photographer: Dean Winter

Quali pensi siano i limiti biologici – fisici – naturali (se pensi esistano) che neanche gli strumenti più innovativi possono superare?

Ebbene, si può sostenere che le funzioni che mantengono il corpo operativo e vivo sono le stesse che garantiscono la sua morte. Il corpo biologico si è evoluto come un organismo delicato che abita una biosfera planetaria necessaria per la sua esistenza e sopravvivenza. Inghiotte continuamente l’aria per estrarre ossigeno, se perde il 10% dei suoi fluidi corporei è morto. Il suo cuore batte 3 miliardi di volte in modo continuo e senza difetti durante una durata media di 80 anni. Anche se dipende dalla simbiosi di una moltitudine di vita microbica per esistere, può anche essere fatalmente infettato da altri batteri e virus che sono invisibili a lui fino a quando non è troppo tardi. Il corpo trascorre circa un terzo della sua vita inattivo nel sonno, sincronizzato con i ritmi circadiani e l’impulso elettromagnetico del pianeta.
La longevità del corpo è limitata alla sua organizzazione analogica complessa. Fatica, spesso non funziona bene e le sue ossa diventano fragili, i suoi muscoli si consumano nella vecchiaia. Ed ora questo corpo biologico vulnerabile e inadeguato è suscettibile a guasti strumentali e computazionali e catastrofici incidenti tecnologici. Quindi, sebbene l’intervento genetico, con CrispR modificherà alcuni parametri e si libererà di alcune patologie, mantiene le carenze generali della sua biologia. Esistono ricerche sulla senescenza cellulare nella speranza che questo processo possa essere ritardato e forse invertito. Ma se rimaniamo su questo pianeta siamo suscettibili e dipendenti come specie dalla sua biosfera. Anche con i nostri ingrandimenti tecnologici, si può sostenere che tutti gli esseri viventi sono destinati a scomparire, anche la specie umana, e se è così, forse dovremmo accettare il nostro destino e progettare un’elegante uscita.

Riferimenti e contatti
Stelarc official website
Crediti
Tutte le immagini © Stelarc
Immagine in evidenza: Ear on Arm, Stelarc
Sitting/Swaying: Event for Rock Suspension, Stelarc – Tamara Gallery, Tokyo 1980 Photographer: Keisuke Oki
Handswriting: The Third Hand, Stelarc – Maki Gallery, Tokyo 1982 Photographer: Keisuke Oki
Extended Arm, Stelarc – Melbourne, Hamburg 2000 Photographer: Dean Winter
Propel: Body on Robot Arm, Stelarc – Demonstrable, Autronics Perth 2015 Photographer: Steven Alyian
Re-Wired/Re-Mixed: Event for Dismembered Body, Stelarc – PICA, Perth 2016 Photographer: Steven Alyian

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