Come poté un ragazzo lombardo, apprendista pittore, arrivato a Roma all’età di circa diciotto anni, costruirsi, crescere, straripare dalle zone basse di piazza Navona, oltre Tevere, oltralpe, oltre il suo secolo e i secoli successivi, arrivare fino a noi quale uno dei più alti moniti (forse il più stabile e compatto), imporsi quale bandiera del moderno alle scelte più disparate, alle fazioni più contrastanti?
Come è possibile che ancora oggi, dopo Kandinsky o Mondrian, il passante più casuale, o il patito di Pollock o di Rauschenberg, o il più condiscendente elettore dell’arte ludica, entri in San Luigi dei Francesi e senta riaprirsi in petto una piaga che credeva chiusa per sempre?
Sono domande senza risposta, o la cui sola risposta possibile (da molti tenuta in dispregio) è che la verità di una grande passione creativa si misura dalla sua durata, dalla sua capacità di riproporsi come fonte d’acqua viva alle ideologie, alle nuove convinzioni, ai nuovi gusti: mostrare una faccia nuova, mai vista prima.
È vero che il giovane aveva lasciato Milano già padrone di un proprio nucleo ideale.
Aveva saputo impossessarsi di ciò che gli serviva con un senso acuto della fruizione culturale che gli impediva tentennamenti e dispersioni.
La sua certezza giovanile era per lui il più perfetto dei selezionatori, la bussola che lo orientava e lo avrebbe orientale negli anni futuri.
Per naturale adesione prende contatto con i gruppi “naturalisti” di Lombardia, assertori di un’arte semplice, realistica, non “ideale”.
Poi, il viaggio alla volta di Roma.
Ed è da supporre che per via si fosse riempito la bisaccia di nuove acquisizioni utili a rinforzare quel suo proprio nucleo.
Non conosciamo quali strade percorse, ma sappiamo quel che c’era in quel tronco di terra italiana a sud del Po: Parma, Bologna, Firenze, Assisi, forse Orvieto; Annibale Carracci, Masaccio, Gioito.
A Roma si allogia da qualche parte, nelle stradine piene di coltelli attorno a piazza Navona.
Ed era naturale che si trovasse con i giovani ribelli, affini all’ambiente dei naturalisti lombardi e a lui più congeniali: i nomi di Lorenzo Siciliano, di Prosperino, di Longo e del Leoni, e quello del Cavalier d’Arpino, già sull’onda della moda, sono indicativi della sua scelta.
Una scelta normale per un artista arrivato di fresco in un grande centro; come è accaduto, e accade, a qualsiasi giovane ardente sbarchi dalla sua provincia a Roma, a Parigi.
Nella Roma “dei manieristi e dei grottescai” era ovvio che si accostasse a questi ultimi.
Non solo per temperamento o per necessità; piuttosto per un suo pensiero, il suo pensiero dominante, e per la coscienza intellettuale che in quel clima “minore” c’era più possibilità di toccare il cuore delle cose, più fecondo terreno alla rivoluzione che portava in petto, che non sotto lo spento baldacchino accademico.
E benché nel suo sprezzante rifiuto per la “grande manière” coinvolgesse – era comprensibile – anche Raffaello (“dispregiando gli eccellentissimi marmi degli antichi e le pitture celebri di Raffaele” [Bellori]), dovette accorgersi (molti brani della sua opera ne fanno fede) che Raffaello non era un “raffaellesco”: al Caravaggio non poteva sfuggire il rapporto ideale tra Raffaello e Masaccio; ne poteva, di conseguenza, escluderlo, per polemica, dalla propria esperienza creativa.
Gli ultimi decenni del ‘500 furono anni di grande travaglio, densi di novità, di straordinaria importanza per il formarsi di una coscienza moderna. Sono gli anni che videro la morte di Michelangelo, la nascita di Galileo, e il Concilio di Trento chiudere i lavori.
È in quest’ora che il Caravaggio accende il suo fuoco.
L’operazione, apparentemente artigianale, di dipingere frutta e fiori esigerà una ben straordinaria forza morale, diventerà arma di rinnovamento, proposta (e quanto perentoria) di un nuovo realismo. Non si tratta di avanzare un’ipotesi, ma di affermare il significato oggettivo di nuovi contenuti e nuove forme, di una pittura stretta alle cose reali, nata dall’osservazione inalienata del reale.
Dopo Giotto e dopo Masaccio egli riafferma il principio secondo cui non concetti astratti o prevenute concezioni filosofiche siano da incollare sulla tela, ma la conoscenza della realtà, le cose come esse sono, indagate ed esplorate nelle loro relazioni di luogo, spazio, luce: le cose, da sole, esprimono idee, filosofia e storia, perché da esse si sprigiona il “presente” e il suo suono, la nuova condizione umana, i nuovi concreti rapporti tra gli uomini e degli uomini con le cose e la storia.
Le vie del realismo non sono infinite. È significativo che, alla fine del ‘500, punto di partenza verso il realismo sia la natura morta, la pittura di oggetti. Lo stesso accadrà al momento della nuova ripresa realista negli ultimi decenni del XIX secolo: i “fiori”, la “trota”, le “pere” di Courbet, il “dessert” di Monet, e Cezanne ostinarsi davanti a un cartoccio di mele, per tanti sensi affine a “quei due baiocchi di frutta” dipinti dal Caravaggio davanti al Bacchino malato.
Nasce così una tesi rivoluzionaria, lo smantellamento delle gerarchie dei temi, la scelta di una pittura “senza soggetto apparente” e senza “actione”, più idonea ad accostare la verità, a scrostarla da miti, ideologie e falso decoro. Solo per questa via si poteva arrivare a una giusta, moderna idea dell'”actione”, a un nuovo vivente attuarsi di una pittura di “historia”. E le “historie” verranno, per mano del Caravaggio, e si sa in che modo violento egli saprà riproporle.
Come è d’uso, la sua ricerca verrà accusata di essere plebea. Ma non si trattò di rivolta plebea, né della proposta intellettualistica di un’arte popolare da opporre all’arte aulica. Anzi, alla base della sua rivoluzione è un’approfondita conoscenza dell’arte, dei fatti, delle opere, delle scuole, delle discussioni in atto: un’alta coscienza culturale e storica. Non plebeo, bensì di animo popolare, come chi abbia inteso quale sia la fonte di verità a cui attingere : toccare terra per trame linfa e sangue.
Non è certo un caso che siano stati Géricault e Courbet a tirar giù Caravaggio dalle cimase dei musei; e che ancor prima un pensiero caravaggesco lo abbia avuto David, riprendendo dal San Matteo caravaggesco il gesto del Martin d’Auch nel Giuramento della Pallacorda (e confessando di essere stato attratto, in quegli anni giovanili, dalle opere “brutalement exécutées, mais pleines de mérite” di Caravaggio).
È notevole il fatto che in tempi di totale disattenzione verso l’arte italiana del secondo ‘500 e del ‘600. nella quasi totale assenza di testi critici e storiografici, tra le informazioni false, manchevoli, semplicistiche e orecchiate, fossero i pittori a cercarsi i loro ascendenti, a tirarne da soli le conseguenze, immettendo elementi culturali di collegamento ideale con altre imprese relative alla stessa esigenza.
Il suo iter, giunto a Roma, è simile a quello di tanti altri. “Senza denari e pessimamente vestito”, miseria, malanni, ricovero all’ospedale dei poveri; lavorucci di bottega presso questo o quel pittore, teste a un grosso l’una, copie ecc., appena per vivere, e male. Ma dipingeva anche, per la sua idea, pitture di natura morta e di genere, mezze figure dal tema “tagliato”, breve, “neppure in grado di intitolarsi” [Longhi], soggetti di strada.
È, ormai, la sua scoperta: i suoi personaggi mitologici e, poi, i suoi santi non scenderanno nel suo studio da nessun Olimpo, da nessun Empireo : saranno gli uomini con i quali aveva commercio di giovinezza e di vita. Perché il mondo è cosparso di dèi, di santi e di eroi, nelle strade, nelle case, negli stadi, nelle officine, nelle osterie.
I suoi malevoli biografi e gli storici del tempo, volenti o no, debbono accorgersi che il giovane ha il diavolo in corpo.
Il soggetto? tutto è un soggetto. La “historia”? non ne ha bisogno. Le leggi accademiche della composizione? inutili. Si può strutturare una complessa scena attraverso un movimento di braccia, un’inclinazione della testa, un volteggio di pieghe. Ogni parte contiene in sé la struttura generale.
Si tratta di elaborazioni nelle quali all’apparente semplicità corrispondono un’articolazione immaginosa ma sorvegliata, una scienza dei ritmi, degli accordi, della rispondenza tra gli spazi, una sapiente distribuzione degli accenti e un disegno estremamente vigile e sensibile. Pittura né rozza, né scorretta, né improvvisata. E qualcuno se ne accorse se, scavalcando molti accreditati “maestri”, il Caravaggio riuscì a ottenere, poco più che ventenne, una grossa commissione per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, a confronto con quel Cavalier d’Arpino nella cui bottega era stato fino a poco prima lavorante.
Ecco il Caravaggio di fronte all’impegno di dipingere “historie”. E subito nascono guai. Il suo san Matteo “non haveva decoro né aspetto di santo, stando a sedere con le gambe accavallate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo”. Il quadro fu, si dice, rifiutato, benché sia difficile spiegarsi come, dopo un tale rifiuto, il Caravaggio abbia ottenuto di dipingere, per la stessa cappella, la Vocazione e il Martirio di san Matteo, ciò che non soltanto non era nel contratto iniziale, ma veniva a rimpiazzare un incarico di affreschi al d’Arpino.
Il primo San Matteo e l’angelo – distrutto dalla guerra, a Berlino, nel 1945 – è il primo gesto della sua invasione di campo, del suo ingresso nell’arte “pubblica”. Nel dipinto il contrasto fra il santo, terrestre al massimo, e l’angelo, dolcemente manieristico, assume significato ideologico. Matteo è un uomo come il Caravaggio ne vede e frequenta; ma il pittore non sa come sia un angelo: deve immaginarlo, e sebbene gli presti sembianze di fanciullo, sembra, egli stesso, non riuscire a convincersene. L’angelo, femmineo, s’insinua accanto a Matteo, fa scivolare un braccio tornito a guidare la grossa mano contadina, che sembra non quella di uno che non sappia cosa scrivere, ma di uno che non sappia scrivere. Da questo contrasto di dichiarazioni, terrestre e celeste, da questo intersecarsi e allacciarsi di forme eterogenee nasce una ambigua violenza, un fascino nuovo.
Più probabile è che sia stato egli stesso, dopo l’esecuzione della Vocazione e del Martirio, a volerlo sostituire, per ragioni di armonia dell’insieme della cappella. E, a mio avviso, il secondo San Matteo e l’angelo è un quadro di legamento, meno intenso del primo, anche se certamente più colto e meno provocatorio.
Il Caravaggio trascorre così a Roma un decennio di tumultuosa creatività che lo rende “celeberrimus pictor”, come lo definisce nel 1597 Ruggero Tritonio. Il suo campo d’azione si è improvvisamente esteso; vi scorrazza senza contraddirsi, precisando i termini della sua proposta, rendendoli sempre più convincenti man mano che acquista capacità di integrare culturalmente il proprio contributo, in una situazione storica.
Le commissioni di opere “di historia” gli pongono ovviamente nuovi problemi. Il Caravaggio deve tenerne conto; ma ciò che importa è che tali problemi non vengono affrontati “mettendosi all’ordine” con il gusto del tempo: affronta una pittura più severa, timbri più gagliardi, da profondità e nettezza agli scuri, senza sconfessioni o adattamenti, anzi ribadendo il suo concetto nell’ambito di una operazione più vasta.
Inventa per la luce una funzione strutturale del tutto nuova, quasi un “terzo elemento” accanto al disegno e al colore (Longhi ne paragona l’importanza alla scoperta della prospettiva quattrocentesca), una nuova emotività dei rapporti spaziali, riuscendo a far nascere il “tumulto” dall’equilibrio ortogonale (impiego del quadrato, all’interno della struttura compositiva) piuttosto che dalla michelangiolesca piramide a spirale attraverso cui legiferavano i manieristi.
Un lavoro intellettuale, di costruzione effettiva e totale dello spazio, che si precisa faticosamente, tra pentimenti, distruzioni e rifacimenti. Se appena si accorge di essersi lasciato attrarre dalla macchina cinquecentesca (prima redazione del Martirio, come risulta dalle radiografie), rismonta la composizione e la riconduce verso il proprio intento, con coraggioso atto di coerenza e moralità artistica.
La Vocazione di san Matteo è uno dei dipinti chiave di tutta la storia dell’arte. È il vero “scoppio” del Caravaggio. Un quadro nel quale tutti gli aspetti sono compenetrati e interdipendenti, dove la scelta dello squarcio di vita — una scelta non casuale — si attua attraverso l’impiego costruttivo e significante della luce. (Sarà proprio la luce significante a corrodere e ad aggiudicare al Caravaggio il manto dell’apostolo che copre il Cristo, d’invenzione alquanto manieristica).
Naturalmente, per gli accademici, per la burocrazia culturale e cattedratica del tempo, solo gli “incompetenti” potevano lodare quelle pitture. Il principe della pittura di allora, non dissimile dai principi della pittura dei nostri giorni, Federico Zuccaro, se ne uscì con la nota frase riportata dal Baglione :”Che romore è questo? Io non ci vedo che il pensiero di Giorgione… e sogghignando … alzò le spalle andandosene con Dio”.
Cosa voleva dimostrare l’Accademia? Che in Caravaggio non c’era niente di nuovo, oltre la volgarità, e che in quanto allo stile era arretrato, sorpassato.
Un giudizio grossolano ed esteriore (il solo rapporto con Giorgione sta nei cappelli piumati e negli abiti alla lanzichenecca). Ma la scena richiama altri, più profondi accostamenti (al Tributo di Masaccio al Carmine fiorentino. È nello stesso repertorio di verità che entrambi avevano tuffato la mano).
Chi fosse stato il Matteo dei Vangeli poco importa al pittore: gli basta sapere che era un uomo chiamato mentre attendeva a una qualsiasi azione della sua giornata. E, per dire, Caravaggio si serve di una scena a lui familiare, di un tema che sempre lo ha affascinato, perché solo attraverso ciò che gli è congeniale e familiare può dar conto della verità, e non ricostruendo un teatrino su testi e nozioni tradizionali.
L’uomo legge, pensa, immagina; ma ogni cosa a cui mette mano vive solo nel paragone del presente, di ciò che conosce; e le storie del tempo passato, o di luoghi lontani e sconosciuti, solo attraverso ciò che ci è più prossimo, ciò con cui abbiamo consuetudine — case, oggetti, azioni, sentimenti — possono essere restituite alla vita.
Nella Caduta di san Paolo della cappella Cerasi, Caravaggio costruisce la composizione su un quadrato nel rettangolo verticale della tela. San Paolo, a terra, alza le mani: folgorato, si direbbe, dall’enorme massa luminosa del corpo del cavallo. Ancora il quadrato entro il rettangolo, nella Crocefissione di san Pietro.
Ma le scoperte formali e le invenzioni sono sempre in funzione del “dire cose”. Un pampino d’uva può accartocciarsi allo stesso modo in cui si aggronda la fronte di san Matteo, perché “tanta manifattura” gli “era fare un quadro buono di fiori come di figura”. E non è una tesi formalista, non è una tesi artigianale: è concetto da “valent’huomo” (“Appresso di me” dice Caravaggio “un pittore valent’huomo è uno che sappia dipingere bene le cose naturali”), di uno che fa bene il mestiere del pittore; mestiere attraverso cui si genera vita, si suscitano impulsi vitali, si significano idee e concetti, si disvela la realtà.
Si direbbe che i biografi non sappiano raccontare la vicenda del Caravaggio che attraverso il rifiuto delle sue opere da parte di questa o quella confraternita. Ma è certo che appena un quadro veniva rifiutato, qualcun altro lo rilevava. Le commissioni incalzavano. Per disordinata e complicata che fosse l’esistenza del pittore, tra risse, colpi di spada, fughe, opere di grande impegno, scrupolosamente elaborate, si susseguono.
Cosa diventa, fra le sue mani, l’antico tema della Dormitio Virginis! Una scena quotidiana di lutto che si svolge fra parenti e amici, fatta di vero dolore, la morte della madre quale si da in tutte le case. Come sta per essere deposto Cristo nel sepolcro? Chi altro mai aveva pensato di costruire così una tale scena? Anche qua nessun espressionismo né forzatura di atteggiamenti teatrali. Il solo “gesto” è quello della figura di Maria di Cleofa che alza al cielo le braccia: ed è gesto classico, da tragedia greca. Tutto è sonoro, scandito, concreto: gesti, sentimenti, spazio, volumi, colore.
Non sappiamo, benché siano intuibili, i rapporti di Caravaggio con le dispute ideologiche del tempo. È tuttavia da respingere l’interpretazione della sua opera in chiave di Controriforma lombarda.
La natura di Caravaggio è certo più vicina al pensiero di Giordano Bruno che a quello di san Carlo Borromeo.
Caravaggio dispone a suo modo la materia sacra. Il suo discorso con la realtà non gli consente di rispettare alcuno schema prestabilito: lombarde o romane, fastose o severe, le “macchine” pittoriche controriformiste si assomigliano tra loro, esprimono la stessa ideologia, volontaristicamente edificante o ammonitrice; l’arte del Caravaggio è estranea a questo spirito.
Va notato inoltre che nel Caravaggio i popolani non sono. come nella pittura lombarda di Controriforma, spettatori oranti, infelici, appestati, plebe verso la quale la pittura rivolge lo sguardo della carità. No. Sono i protagonisti: diventano il Cristo morto, san Matteo, la Madonna, sant’Anna.
Cresce la gloria, il benessere e l’invidia; cresce la convinzione del Caravaggio e, con questa, il rancore dei farisei. L’animo del pittore si inasprisce, ma egli non muta il suo stile, né la sua vita; fra impedimenti e contrasti d’ogni genere, dipinge e continua a frequentare la sua gente. Fino a che, per una rissa al gioco della pallacorda, un uomo resterà ucciso. Fuga del pittore, a Napoli; non provvisoria, questa volta.
A Napoli sarà subito carico di commissioni, e nello spazio di un anno dipingerà alcune opere memorabili, senza contrasti coi committenti, e senza incidenti personali.
Tra l’altro, la Flagellazione per San Domenico: un dipinto altissimo, essenziale, composto con una semplicità assoluta, la cui struttura compositiva è tutta fatta di cose “da dire”. Due carnefici, scaricatori del porto, preparano la vittima, e dal corpo di questa si espande una luce, un biancore di carne umana, come non ne aveva mai dati la pittura, una massa di candore che sta per crollare, il bianco vello del-l’Agnus Dei, che a contrasto (contatto) con le masse muscolose dei lazzari genera un impressionante scatto di verità.
Altro dipinto memorabile: le Opere di misericordia, dove Napoli appare come era, come è, con il suo frastuono, la sua azione. Un quadro denso, vario, avventuroso come la città.
Da Napoli a Malta. (Forse invitato, o incoraggiato da qualche incontro casuale. Non certo “per farsi far cavaliere”).
L’opera più importante dipinta a Malta, da includersi nella più rigorosa antologia caravaggesca, è la Decollazione del Battista, in cui sono superati molti contrasti ideali, e di fronte a cui naufragano molti luoghi comuni (realismo opposto a spirito classico), molte vane dispute culturali.
Come in certi brani delle Opere di misericordia (la Madonna che si affaccia al balcone della notte, la popolana che da il seno a nutrire il carcerato), risuona in questo dipinto l’alto spirito classico del Caravaggio – il suo incontro con il miglior Raffaello – e vi aleggia una risonanza di Grecia o di Pompei (brani visti a Napoli o inconscio accordo di intenti?).
Ma una spregiudicata natura, e forse anche un bicchiere in più di vino maltese, possono mettere a un tratto a repentaglio un uomo, anche se cavaliere (d’Onore e Devozione): ci sarà, in tal caso, un più-cavaliere (di Giustizia) che troverà il modo di trascinarlo in carcere. Fuggirà, una notte, rifugiandosi a Siracusa, dove nascerà un altro dei suoi dipinti più strabilianti: il “Seppellimento di santa Lucia“. Di quanti ne conosce la storia della pittura (penso all’Entierro del conde de Orgaz del Greco e all’Enterrement à Ornans di Courbet) questo del Caravaggio è certo il più tragico, quotidiano, vero. Un seppellimento come esso è, con la gente come essa è: un seppellimento notturno nel cortile di un carcere; due terzi della tela in verticale sono coperti da un inesorabile muro che s’alza, senza un incidente, parete di latomia limitata soltanto dall’arco scuro, il cui spazio sprofonda, a sinistra, fino alla curva che svetta all’angolo superiore della tela, ed è fermato in basso dal grumo di luce sulla massiccia scapola dell’affossatore. Benché di più presente sentimento tragico, è assai prossimo alla Decollazione di Malta: la stessa idea di un grande spazio unito in alto, appena corretto da indicazioni di racconto. Uno spazio che genera un rapporto inusitato con le figure, manovrato in modo assolutamente nuovo, libero, che disconosce i canoni compositivi, così come, con procedimento opposto, li aveva annullati un anno prima nelle Opere di misericordia.
Dopo Siracusa: Messina e Palermo; sempre lasciando tracce operative del suo passaggio. Fino alla morte sul tragico litorale tirreno che rotolò anche le ossa di Palinuro, di Shelley, di Nievo.
Ma Roma non seppe prendere coscienza di quella morte, né di quella vita. Per secoli lasciò in ombra la straordinaria occasione rivoluzionaria che l’opera di Caravaggio offriva. E toccò, da allora in poi, a rari uomini nuovi, a creatori solitari e convinti, riprendere in mano i fili di quell’occasione e perseguire l’idea della pittura come affermazione della verità delle cose. coscienza della vita e della morte.
Renato Guttuso
tratto dal volume: “Caravaggio”
Collana: I Classici dell’Arte – Corriere della Sera
A cura di Francesca Marini
Presentazione di Renato Guttuso
Rizzoli Editore – Gruppo Skira, 2003