“Mi metto davanti ai quadri di Edouard Manet come davanti a fatti nuovi che desidero spiegare e commentare.
Quello che in essi mi colpisce per prima cosa è la delicatissima esattezza dei rapporti tonali.
Mi spiego. C’è della frutta, posata su un tavolo, che spicca sul fondo grigio; vi sono, tra frutto e frutto, a seconda che siano più o meno avvicinati, dei valori cromatici che formano un’intera gamma di tinte.
Se partite da una nota più chiara di quella reale, dovrete seguire una gamma sempre più chiara; mentre si dovrà avere il contrario, quando partite da una nota più cupa.
È quello che si chiama, mi pare, la legge dei valori.
Nella scuola moderna non conosco che Corot, Courbet ed Edouard Manet che abbiano costantemente obbedito a questa legge dipingendo delle figure.
Le opere ottengono in tal modo una singolare nitidezza, una grande verità, ed esercitano un’enorme attrazione.
Edouard Manet, di solito, parte da una nota più chiara di quella esistente nella natura.
I suoi dipinti sono biondi e luminosi, di un pallore sottile. La luce cade bianca e ampia, rischiarando gli oggetti con dolcezza.
Non c’è il minimo effetto forzato; i personaggi e i paesaggi sono immersi in una specie di lieto chiarore che riempie tutta la tela.
Quello che mi colpisce, in seguito, è una conseguenza necessaria dell’osservazione esatta della legge dei valori.
L’artista, posto di fronte a un soggetto qualunque, si lascia guidare dagli occhi che percepiscono tale oggetto in tinte larghe, che si regolano a vicenda…
L’intera personalità dell’artista consiste nel modo ini cui è organizzato il suo occhio : che vede biondo, e per masse..
Ciò che mi colpisce, in terzo luogo, è una grazia un po’ secca, ma affascinante.
Intendiamoci: non parlo della grazia rosa e bianca che hanno le teste delle bambole di porcellana; parlo di una grazia penetrante e autenticamente umana…
La prima impressione che produce una tela di Edouard Manet è di una certa durezza.
Non siamo abituati a vedere traduzioni della realtà tanto semplici e sincere.
Poi, come ho detto, c’è qualcosa di rigidamente elegante che sorprende.
Dapprima l’occhio non scorge che delle tinte, applicate largamente; ben presto, però, gli oggetti si disegnano e si mettono al loro posto; in capo a pochi secondi, l’assieme appare vigoroso, e si prova un autentico incanto contemplando questa pittura chiara e grave, che rende la natura con una brutalità dolce, se così si può dire.
Avvicinandosi al dipinto, si vede che il mestiere è più delicato che brusco; l’artista non usa che un grosso pennello, ma se ne serve prudentemente; non vi sono grumi di colore, bensì uno strato uniforme.
Questo audace, di cui tanti si sono fatti beffe, usa procedimenti molto prudenti : e, se le sue opere hanno un aspetto particolare, non lo devono che al modo tutto personale in cui egli vede e traduce gli oggetti”.
Emile Zola
da “Edouard Manet. Elude biofraphique et critique”, 1867
“Quando tornai a Parigi nel gennaio 1882, la mia prima visita fu per Manet.
Egli dipingeva allora il Bar alle Folies-Ber gère, e il modello, una bella ragazza, posava dietro un tavolo carico di bottiglie e cibi.
Riconosciutomi, mi tese la mano dicendo : ” È seccante scusatemi: sono costretto a stare seduto. Mettetevi là”.
Presi una sedia dietro a lui, e lo guardai lavorare.
Benché dipingesse i suoi quadri dal modello, Manet non copiava affatto la natura; mi resi conto delle sue magistrali semplificazioni.
La testa della donna veniva modellandosi, ma il modellato non era ottenuto con i mezzi mostrati dalla natura.
Tutto era sommario : i toni erano più chiari, i colori più vivi, i valori più serrati.
Il tutto formava un assieme di un’armonia tenera e bionda.
Entrò qualcuno : riconobbi il mio amico d’infanzia, il dottor Albert Robin.
Si parlò di [Charles] Chaplin [1825-1891].
“Sapete che ha molto talento”, disse Manet, mentre dipingeva a piccole pennellate la carta dorata di una bottiglia di champagne.
“Molto talento”, ripeté.
“Conosce il sorriso della donna, e questo è molto raro.
Sì, lo so, ci sono persone che pretendono che la sua pittura sia troppo leccata.
Si sbagliano; e poi, è molto bravo nei colori”.
Vennero altre persone, e Manet smise di dipingere per andarsi a sedere sul divano, contro la parete di destra.
Fu allora che mi accorsi di quanto l’avesse provato la malattia : camminava appoggiato a un bastone e sembrava tremare.
Però era ancora allegro e parlava della prossima guarigione.
Tornai a vederlo durante il mio soggiorno, e mi diceva cose di questo genere : “In arte, la concisione è necessità, significa eleganza. L’uomo conciso fa riflettere; l’uomo verboso annoia. Regolatevi sempre nel senso della concisione. ..In una figura, cercate le grande luce e la grande ombra; il resto verrà naturalmente; e spesso è assai poca cosa.
E poi, coltivate la memoria; perché la natura non vi darà mai che informazioni.
È come un parapetto, che vi impedisce di cadere nel banale. .. Bisogna restare sempre il padrone, e fare quello che diverte. Niente compiti! Ah, no, niente compiti!… Ecco, dato che vi piace, andate di là”. M’indicava un uscio.
Aprii e mi trovai in un locale di sgombro, dove erano ammassati dei quadri, molti quadri. Vidi il Bucato, l’Olimpia, Dal ‘Pere Lathuille’, il Cristo con gli angeli [da intendersi però come il Cristo deriso dai soldati, poiché l’altro dipinto non era più presso Manet dal 1882], Argenteuil.
Fui attratto dal ‘Pére Lathuille’, che era il meglio illuminato.
Questo quadro, che avevo visto al Salon del 1880, mi era rimasto nella memoria come la più sbalorditiva rappresentazione del ristorante parigino…
Stavo davanti a questa tela, pensando alle misteriose attrattive di una pittura così più sottile d’ogni altra, e vi sarei rimasto senza muovermi non so per quanto tempo, se la voce di Manet non mi avesse chiamato.
Lasciai la stanza dove si ammucchiavano i capolavori disprezzati, e tornai da lui.
Gli dissi, meglio che potevo, quello che provocava in me la sua pittura, ed ebbi la gioia di vedergli spuntare negli occhi, di cui la malattia aveva rispettato la vivacità, un’emozione che resta uno dei ricordi più preziosi della G.Jeanniot, in “La Grande Revue”, 10 agosto 1907.
Oggi la classicità e l’assolutezza di Manet appaiono sempre più nitide.
La sua opera, nel complesso, ci presenta una tale purezza d’arte, da scoraggiare qualunque commento, che sembra un’aggiunta superflua e irrilevante alla contemplazione. ..
È un mondo completo e in sé perfetto, in cui ogni elemento o relazione di storia vengono fusi e superati in un rinnovamento che implica tutte le condizioni e le funzioni del rappresentare.
Ne risulta una integralità di linguaggio e di creazione che si coglie e si assorbe, ma che è estremamente difficile spiegare con giusti equivalenti di parole.
Qui è la forma di Manet, la sua grandezza.
Un mondo creato de toutes pièces, tutto investito di forza poetica ed autonomo, che si fissa in una serie di capolavori senza tempo.
Ecco che il giudizio di esteriorità si rovescia in quello di un’intimità così essenziale e inviolabile, da rendere Manet quasi simbolo dell’arte stessa…
La sua formazione non ha tracce di dissensi profondi, di errori, di crisi, di incertezze dolorose.
Est deus in eo, un’intattezza meravigliosa di ispirazione che presiede e misura le sue esperienze, mediandole tutte verso l’approfondimento dell’originario nucleo di sensibilità.
La cronologia delle opere ha per questo, in Manet, diversamente da quel che avviene in molti altri, come in Cézanne e Renoir, un significato assai relativo…
Tutto è essenzialmente nel colore, sempre di una personalità incisiva che nella sua stesura compone e armonizza, e nella pennellata, che ha una vibrazione vitale infinita, una capacità di registro inesauribile nel tradurre le flessioni insieme più sintetiche e sottili di una sensibilità aperta, vasta, assorta nel miracolo perenne del suo spiegarsi”.
Carlo Ludovico Ragghianti
da “Impressionismo”, 1944
“Manet ha le qualità d’un mago, effetti luminosi, toni fiammanti che imitano Velàzquez e Goya, i suoi prediletti: ad essi ha pensato nel comporre ed eseguire il circo.
Nel suo secondo quadro, Angeli al sepolcro di Cristo, ha imitato, col medesimo furore, un altro maestro spagnolo, El Greco, probabilmente a mo’ di sarcasmo contro i compunti innamorati della pittura discreta e linda.
Quel Cristo morto, seduto come una persona normale e visto di faccia, le braccia lungo il corpo, è orribile a vedersi : forse sta risuscitando sotto le ali dei due angeli che lo assistono.
E quanto strane, quelle ali d’un altro mondo, colorate d’un azzurro più intenso dell’estremo limite del ciclo ! Gli uccelli della terra non hanno un simile piumaggio, ma può darsi che gli angeli, questi uccelli del cielo, portino tali colori; e il pubblico non ha il diritto di riderne, dal momento che non ha mai visto angeli …
Di angeli e di colori, non bisogna discutere.
Riconosco, tuttavia, che quel formidabile Cristo e quegli angeli dalle ali blu di Prussia sembrano non curarsi di quanto dice il mondo: “Roba mai vista! Un’aberrazione!”.
Era una signora distintissima ad apostrofare in tal modo il povero Cristo di Manet, esposto allo scherno dei farisei parigini.
Ciò non toglie che i bianchi del lenzuolo funebre e i toni delle carni siano quanto mai appropriati, e che il modellato del braccio destro, soprattutto, e lo scorcio delle gambe del Cristo richiamino maestri alquanto apprezzati: Rubens nel Cristo morto e nel Cristo sulla paglia del Museo d’Anversa, e anche.
Annibale Carracci in taluni Cristi eseguiti nei momenti di libertà e di grandiosità.
L’accostamento è singolare.
Il Cristo di Manet, nondimeno, somiglia a quelli del Greco, allievo del Tiziano e maestro di Luis Tristan, divenuto, a sua volta, maestro di Velàzquez.
Non dirò altro di tali eccentricità, che nascondono un vero pittore, le cui opere, un giorno, saranno forse applaudite.
Ricordiamoci gli esordi di Èugène Delacroix, il suo trionfo all’Esposizione universale del 1855, e quel che ha venduto, dopo morto!”
Théophile Thoré-Bürger
da !”Indépendance belge”, 1864
Tratto da
“L’opera pittorica di Edouard Manet”
Classici dell’Arte Rizzoli
Presentazione di Marcello Venturi
Apparati critici e filologici di Sandra Orienti
Rizzoli Editore – Milano, 1967