Nel 1867 l’exploit della pittura italiana all’Esposizione Universale di Parigi attestava il trionfo della cifra stilistica imposta da Domenico Morelli, mista di colorismo napoletano e aggiornamenti francesi, mentre Vincenzo Gemito trasponeva in bronzi e terra cotte le sprezzature cromatiche di Mariano Fortuny e il caratterismo di Jean-Louis-Ernest Meissonier. Sono proprio le opere realizzate da Morelli a partire dalla fine degli anni Sessanta a indicare la via del fortunysmo: sono dipinti a soggetto mistico e religioso, prevalentemente di ambientazione esotica e quindi ravvivati da un’accesa cromia.
Il sogno parigino di De Nittis avviatosi fin dal 1867 nell’orbita di Meissonier e Fortuny sancisce dalla Francia la diffusione italiana di un gusto destinato a segnare l’intera stagione ottocentesca, tra preziosismi pittorici e curiosità tematiche.
D’altra parte l’affermazione del quadro di genere, di un modello di pittura cioè che propone aspetti di vita contemporanea spesso intrisi di sentimentalismo e ai quali sovente sottendono moniti moraleggianti e didascalici, sembra porsi come sorta di contraltare alla raffinatezza delle mode neosettecentesche o alle suggestioni revivaliste.
Indagare su tale molteplicità di tematiche, sui dibattiti che ad esse sottendono, sugli esiti figurativi alle quali esse approdano, consente, così come è negli intenti di questa mostra, di dar conto di profondi cambiamenti etici e culturali della società italiana risorgimentale. In tali varietà di scelte sembra rispecchiarsi la difficile e contraddittoria ricerca di una identità anche sul piano delle arti da parte della nascente borghesia italiana.
A partire dagli anni Sessanta la pittura di genere subisce la divaricazione in diversi filoni. Da una parte il rinnovamento del soggetto storico, da sempre privilegiato da parte della committenza più esigente, dall’altra rivoli di una quotidianità più aneddotica, dove l’umiltà del vero e la trivialità dell’aneddoto prendono il sopravvento sull’idealità della storia.
Non manca l’evasione verso il serbatoio esotico e quello in costume, dal Medioevo al Settecento, a soddisfarre il desiderio di una committenza sempre più desiderosa di evasione.
In Lombardia, tra i principali protagonisti di tale svolta figurano i fratelli Induno, Domenico e Gerolamo. Nel 1863 Domenico dipinge Un pensiero a Garibaldi esposto a Brera nell’autunno di quell’anno, celebrato quale capolavoro di una pittura di genere nella quale eccelle lo stesso fratello, Gerolamo. Nello stesso anno Gerolamo dipinge Roma 1963, noto come La bandiera nazionale: entrambi i dipinti possono identificarsi come il riassunto di tutta la pittura lombarda all’epoca dell’unità d’Italia, pittura complessa e densa di contraddizioni.
Dai soggetti di storia a quelli di carattere e costume, corre in questi frangenti un dibattito critico che tende a svilire questi ultimi quale frutto di una vera degenerazione, ma, nel corso di tale tragitto tematico, piovono comunque le committenze ad entrambi i fratelli da parte della più illustre nobiltà lombarda.
Domenico e Gerolamo Induno saranno celebrati all’Esposizione Universale di Parigi del 1855, dove ai dipinti storici e pietistici di Domenico si affiancano quelli militari, ma anche di genere neosettecentesco, del fratello. Ne è testimonianza l’apprezzamento di Théophile Gauthier che avanza addirittura un paragone tra gli Induno e la maniera di Hogarth. Per gli stessi motivi il mazziniano Giuseppe Rovani, uno dei massimi protagonisti del dibattito artistico a Milano, bocciava nel 1855 Domenico per l’assenza di contenuti moraleggianti nella sua rappresentazione della vita del popolo.
Con la Lettura del bollettino di Villafranca Domenico ratificava in effetti il rinnovamento della tematica storica alla luce delle sue ripercussioni sulla Milano popolare e non ufficiale, in omaggio ad una solidarietà tutta manzoniana destinata ad affievolirsi dopo l’unità.
D’ora in avanti gli Induno proseguiranno il loro percorso creativo nell’ambito di una reiterata ed evasiva produzione dedicata ad un repertorio oscillante tra scene militari, temi domestici e bozzetti neosettecenteschi, in omaggio ad un collezionismo sempre più pervasivo, benché culturalmente meno esigente.
Tra gli italiani che appaiono maggiormente suggestionati dalla dimensione esotica diffusa dall’ondata fortunyana si citano il torinese Alberto Rossi, impegnato nella rivisitazione del mondo egizio se pur con sensibilità di verista e il milanese Carlo Mancini, distintosi per una produzione paesaggistica in stile tardo – impressionista di estrema modernità, parte della quale conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Oltre all’esotismo è il gusto neosettecentista ad accompagnare in Italia la diffusione dello stile fortunyano, a partire da uno dei più fulgidi protagonisti della pittura veneta dell’Ottocento, ovvero quel Giacomo Favretto che, a partire dai primissimi anni Ottanta, avverte più insistentemente l’ascendente del lezioso linguaggio pittorico di Mariano Fortuny, conosciuto nel soggiorno parigino tra il 1878 e il 1879. A seguito di tale scelta “di campo” l’artista ottenne proficui contatti con commercianti tedeschi e inglesi e le sue opere conquistarono il mercato internazionale.
Ma è soprattutto il caso del lombardo Mosè Bianchi che, grazie al pensionato Oggioni, ottiene nel 1867 il finanziamento di un soggiorno di due anni a Venezia, dove studia la pittura del Settecento, quindi a Roma e a Parigi, dove è impressionato dalla pittura di Meissonier e Fortuny. In particolare furono la suggestione del cromatismo Veneto e la decorazione illusionistica del Tiepolo a caratterizzare la sua cifra stilistica verso un fortunysmo di successo.
Appare evidente il meccanismo di rispecchiamento che coinvolge la borghesia italiana e che potrà offrire una solida base di un successo a tale pittura giunta senza flessioni fino agli anni ‘80: “Le signore e i signori alla moda, i borghesi ricchi” scriveva nel 1877 il pittore e critico pugliese Francesco Netti “ritrovavan se stessi in quelle opere. Vedevan le stesse stoffe che avevano addosso, i tappeti che avevano a casa, il lusso nel quale vivevano, e poi scarpe di raso, mani bianche, braccia nude, piccoli piedi, teste graziose. Quelle figure dipinte stavano in ozio tali e quali come loro. Al più guardavano un oggetto, o si soffiavano con un ventaglio. Le più occupate facevano un po’ di musica o leggevano un romanzo. Era il loro ritratto anzi la loro apoteosi. E si faceva a gara per averle”.
tratto dal catalogo della mostra “L’Ottocento elegante. Arte in Italia nel segno di Fortuny, 1860 – 1890“
Palazzo Roverella, Rovigo,
29 gennaio – 12 giugno 2011