
Come i ragazzi di bottega dei quali si legge nella straordinaria “Carta del navigar pitoresco” di Boschini, che finalmente per la sollecitudine amorosa di una donna gentile, Anna Pallucchini, ha visto rispettata la sua musica inferiore, ricca di sfumature e di visioni, Carlo Maschietto ha lasciato la piana dolcissima, tagliata dalla lama stillante bagliori del Piave (anzi della Piave, dicono nel loro liquido dialetto i contadini, pieni di intuizioni folgoranti), per approdare in riva alla laguna.
Dove la favola della pittura continua a richiamare i personaggi più strani, che alle volte riescono ad imboccare sentieri inediti, lungo i quali tutto diventa nuovo, aderente al battito inquieto del sangue.
Nel breve arco d’una stagione ha preso confidenza con il mestiere, e facendo violenza alla sua naturale disposizione all’indugio contemplativo, che ogni tanto lo sorprende alle spalle, ha subito iniziato il suo apprendistato.
Scandito da una febbre sottile che lo ha portato a saggiare in tormentata progressione le varie tecniche legate a modi particolari, e talora viziati scopertamente di polemica, d’interpretare la realtà quotidiana.
Nel tentativo di affrontarla senza averne lo sgomento, di esorcizzarla in nome di valori che alla verifica del tempo, solito a bruciare con il suo lampo bianco lo schermo protettivo dell’illusione, finiscono immancabilmente con il perdere la loro rassicurante consistenza.
Per fortuna nei momenti in cui la tela diventava una specie di gorgo vorticoso in cui il pennello ripeteva ossessivamente un colore sempre uguale, quello della mancanza di scatto fantastico, Maschietto, non ha mai perduto fiducia nel lavoro, nello scambio attivo della scuola, nel gioco a sorpresa degli incontri, che l’aiutavano a cercare con una tenace, ostinata, disperata insistenza.

È stata un’esperienza logorante, che, proprio nella fase in cui la sua pittura accennava a diventare una sorta di geroglifico intellettualistico, lo ha visto bruscamente ripetere l’operazione auspicata da Pasolini nei suoi ultimi, accorati messaggi.
Nei quali proclamava che la salvezza s’identifica nel recupero d’una civiltà che, nonostante la pressione di un costume ormai prossima allo stravolgimento, riusciva a salvare il fiore della gentilezza umana, il patrimonio delle tradizioni antiche, la freschezza intatta del sentimento che non accetta di subire il degrado della mercificazione.
Con un coraggio che sorprende chi non ha dimestichezza con la sua scontrosa e gelosa intransigenza d’uomo abituato a guardare in faccia le cose, Maschietto ha ricominciato ab imis il suo itinerario creativo, andando alla riscoperta della sua gente e del suo paese.
Visto in una luce ferma e vibrante, che non indulge all’abbandono, ma sfocia nel racconto attraverso un sorvegliato e minuzioso accumulo di particolari.
Così implacabili da suggerire l’immagine d’un ossessivo rimorso, mentre al contrario, osservati con più lucido distacco, partecipano il senso esatto d’un processo liberatorio.
Nel quale gli alberi, l’acqua, le crete, le sponde, la vegetazione, l’erba, le barche diventano simboli d’un qualcosa che traluce dietro l’apparenza quotidiana.
Forse il segno di un’altra orbita, di montaliana memoria, in cui è possibile ancora la speranza.
Per la quale ogni sua tela rasenta la testimonianza.
Gian Antonio Cibotto
Tratto dal Catalogo: “Lungo il fiume da San Donà di Piave a Noventa. Carlo Maschietto pittore”
Edizioni Galleria del Naviglio – Milano
Direttore Renato Cardazzo
Catalogo stampato in occasione della 672a Mostra del Naviglio
11 – 31 gennaio 1977