di Mariateresa Zagone.
Questo articolo è parte della rassegna “Gender Fluid. L’Arte sfida i binarismi di genere – Mostra virtuale 3d“
Il Bauhaus ha segnato una cesura senza ritorno con tutto ciò che lo ha preceduto. La fortissima volontà di cambiamento, il sentirsi un ponte verso un mondo completamente altro in cui il moralismo non bloccasse il fluire del dionisiaco insito nel bios ha animato i giovani di tutta l’Europa sia prima dello scoppio della Grande Guerra, soprattutto in Germania, che negli anni successivi alla sua tragica fine. Era la forza della gioventù che teneva in tasca i libri di Bakunin, di Marx, di Nietzsche, era la forza della gioia spavalda e della libertà. In questo contesto, nella martoriatissima Germania di Weimar, l’idea di rinnovamento del Bauhaus è passata anche, secondo recenti studi, attraverso la spiritualità, l’anticapitalismo, la condivisione, la presenza massiccia di studentesse quasi pari per numero agli studenti e la sessualità libera non-normativa. La distruzione del passato avveniva attraverso l’esercizio della libertà. Questo, tra tutti gli insegnamenti della scuola, fu quello che spaventò di più: “La libertà spaventa. In nome del decoro, della norma e del passato, le persone sono incasellate ed eterodirette. Ma non c’è creazione artistica, non c’è guizzo di genio, non c’è sviluppo personale, non c’è umanità dove il potere esercita il suo controllo” come scrive nella postfazione Valentina Grande, autrice di uno splendido graphic novel dedicato al Bauhaus.
La vitalità e l’ebrezza creativa di coloro che diedero vita al Bauhaus, insegnanti e giovani studenti insieme, provò a vivere fino in fondo un concetto di libertà che non venne né compreso né tantomeno accettato dalla società dell’epoca.
Il Bauhaus non ci ha lasciato solo oggetti, forme, architetture e idee che sono oggi alla base del design contemporaneo (forma = funzione), ma anche una concezione di superamento del passato, dell’idea capitalistica che già permeava tutti gli aspetti della società, del canone precostituito, una concezione che si basava sulla condivisione, l’inclusività e la libertà dei singoli individui.
La fondazione di una Scuola così progressista fu una bomba nella giovane nazione conservatrice e nella città legata alle etichette del Granducato di Sassonia-Weimar (crollato proprio con la fine della Grande Guerra) e creò, come era ovvio che fosse, un contrasto insanabile tra la formale popolazione locale e l’informale comunità che entrò a far parte della scuola tanto che il corpo docente del Bauhaus tentò di tenerlo sotto controllo attraverso severe regole interne e rimproveri per cattiva condotta. Si raccontano svariati aneddoti legati a questo aspetto tra cui quello di quando i giovani neo-iscritti decidono di farsi il bagno nudi nel River Ilm creando scandalo tra i cittadini di Weimar.
Questo contrasto è anche il riflesso di quanto accade in quel periodo storico; infatti, se da una parte l’anima riformatrice del Bauhaus subisce continui attacchi dal mondo accademico prebellico e dall’establishment culturale del tempo, la stessa che, tagliando i fondi alla Scuola di Weimar per motivi strettamente politici legati ai partiti della destra istituzionale, ne decreta la chiusura nel 1925, dall’altra, naturalmente, diviene la testimonianza concreta di quanto le correnti progressiste dell’epoca abbiano trovato terreno fertile nell’orientamento artistico espressionista che, in questa prima fase, fu l’atteggiamento dominante della scuola.
Negli anni in cui Walter Gropius cerca di attirare artisti famosi a Weimar per lavorare come insegnanti – tra i quali troviamo, solo per citarne alcuni, Wassily Kandinsky, Lyonel Feininger, Josef Albers, Paul Klee e Oskar Schlemmer – il Bauhaus rappresenta un vero e proprio luogo di incontro tra le menti più influenti dell’avanguardia europea ed il tentativo di realizzare una visione cosmopolita: un grande laboratorio creativo per la sperimentazione di diversi materiali, forme, colori con un motto alla base di tutto:
“Il gioco diventa festa, la festa diventa lavoro, il lavoro ridiventa gioco”. Libertà, sperimentazione e dubbio sono l’antitesi della stabilità del nascente regime nazista (e di ogni regime) che inserisce i propri artisti mediocri e pilotati e avvia la messa al bando dell’Arte Degenerata, ovvero di tutte quelle forme espressive non allineate ai precetti della dittatura hitleriana, quasi tutta la Die Brücke e, ovviamente, la produzione del Bauhaus.
Il 19 luglio del 1937 seicentocinquanta opere di cento artisti d’avanguardia vengono sistemate in uno spazio buio e ristretto ed esposte insieme a dipinti che ritraevano malati di mente, a slogan e didascalie ingiuriose.
Fra le produzioni dei circa 1000 allievi della scuola ci sono anche opere di Max Peiffer Watenphul che, nello stesso anno, lascerà la Germania.
Nell’autunno del 1919 aveva deciso di diventare pittore abbandonando la carriera legale e iscrivendosi come studente al Bauhaus di Weimar.
Pittore e fotografo, frequentò la scuola per soli 4 semestri in cui strinse forti rapporti di solida amicizia con le personalità di maggior spicco della cultura mitteleuropea del tempo, viaggiò moltissimo fino a quando si stabilì in Italia dove morì, a Roma, nel 1976. E proprio a Roma, la Casa di Goethe gli ha dedicato la mostra “Max Peiffer Watenphul. Dal Bauhaus all’Italia” che ripercorre la storia dell’artista, tra i primi membri queer del Bauhaus: 32 dipinti e 13 fotografie, dagli anni ’30 ai 70 che lo raffigurano insieme al suo circolo di amici, sullo sfondo urbano di Roma e Venezia: uomini muscolosi e donne libertine, trucchi eccentrici, cascate di gioielli, perline e tessuti, immersi in un’atmosfera decadente e al contempo intima.
Come documentato dalla storica dell’arte Elizabeth Otto che nel suo saggio “Haunted Bauhaus. Occult spirituality, gender fluidity, queer identities and radical politics” fa luce sui 1200 insegnanti e studenti “mai più dimenticati”, di cui Peiffer Watenphul fu solo la punta dell’iceberg. Elizabeth Otto libera la storia del Bauhaus scoprendo un movimento che è molto più diversificato e paradossale di quanto si pensasse in precedenza ripercorrendo le traiettorie sorprendenti della scuola nelle direzioni della spiritualità occulta, della fluidità di genere, dell’identità queer e della politica radicale.
Le foto dell’artista tedesco fanno spesso leva su un fascino ambiguo di corpi eccessivi e di visi eccessivamente truccati per ribaltarne la visione e le dinamiche di potere che lo determinano. E, del resto, in opposizione alle incrollabili verità scientiste positiviste che mettevano al centro il legame fra le teorizzazioni sul genere e la scienza del progresso, la nascente psicologia del profondo del primo dopoguerra decostruirà, fra gli altri, il concetto di genere.
Peiffer Watenphul fu immediatamente ammesso alla scuola, stimatissimo da Gropius che gli diede uno studio tutto suo e gli permise di muoversi liberamente tra i laboratori così da avere piena autonomia nella sua sperimentazione senza dover mettersi alla prova attraverso corsi preliminari. Parte della sua diversificata produzione è un colorato arazzo a fessura, realizzato intorno al 1921. Al Bauhaus la tessitura era generalmente considerata un lavoro femminile. La maggioranza dei membri del laboratorio erano donne tanto che a partire dal 1920 la bottega venne chiamata semplicemente classe “delle donne”. A causa di questo legame di genere estremamente forte l’artista viene in una certa misura femminilizzato in quanto adotta una modalità di produzione basata sul genere. Come nel drag performativo però, questo tipo di incrocio rimane legato alla sfera del gioco e percepito come temporaneo. E in effetti, l’accoglienza critica rispetto a questo arazzo spesso si sforza di sottolineare che si trattava dell’unica, brillante tessitura di Peiffer Watenphul. L’opera, con il suo colore audace e l’astrazione attraverso forme elementari, era percepita come la quintessenza del Bauhaus. Almeno in questo caso il Bauhaus era abbastanza tollerante nei confronti dell’uomo.
Peiffer Watenphul trovò rapidamente il successo come pittore; dal 1920 diventò membro del gruppo di artisti Junges Rheinland con sede a Düsseldorf, e fece amicizia con membri dell’avanguardia tra cui Otto Dix e Max Ernst. Quando lasciò Weimar nel 1923, continuò a frequentare gli ambienti del Bauhaus e mantenne forti amicizie.
Oltre alla sua singolare prova di tessitura Peiffer Watenphul si avvicinò alla fotografia approfondendo le sue competenze alla fine degli anni ’20 alla Scuola Folkwang di Essen. La sua amicizia con Henri, a partire dalla fine degli anni ’20, ne influenzò chiaramente anche il lavoro. E così la sua sensibilità per l’audacia, la consistenza e la chiarezza della forma iniziarono a manifestarsi anche nel suo lavoro fotografico, in particolare nei ritratti realizzati fra la fine degli anni ‘20 e l’inizio degli anni ’30, alcuni dei quali intitolati “Grotesche”. Tra questi spiccano fotografie di donne, tra cui l’affascinante sorella minore Grace e Willers, uno dei suoi soggetti preferiti in fotografia e pittura. Le donne sono ritratte individualmente, in posa performativa; ognuna è tempestata di collane, anelli, orecchini, piume di struzzo, drappeggiate in tessuti abbondanti affiancate da vistosi dipinti e incrostate di trucco sgargiante in ambienti saturi di decadenza. Bicchieri di vino vuoti, occhi spesso socchiusi e parziali nudità danno il quadro di un’intimità squallida e un’aura di dissolutezza.
Con i ritratti “grotteschi” Max Peiffer Watenphul abbandona ogni adesione alla Nuova Oggettività fotografica e all’estetica essenziale del Bauhaus per abbracciare una visione decadente latamente queer. In una lettera del 1932 a Cyrenius così scriveva: “Ho realizzato nuove foto brillanti. Ma la gente dice che sono molto pervertite!!!?” Con questa serie di ritratti, Peiffer Watenphul si addentra profondamente nel territorio dell’artificio, dell’innaturale, dell’esagerazione e del doppio senso, abbracciando il gioco di genere e l’ambiguità di genere e attingendo al proprio vissuto fatto di legami con il Bauhaus e, per quanto possibile ricostruiti, di frequentazioni della scena gay underground.
Mariateresa Zagone
Immagine in evidenza
Max Peiffer Watenphul – Attrice (ritratto di Grete Willers), 1931
Tutte le immagini
Opere dalla mostra
“Max Peiffer Watenphul. Dal Bauhaus all’Italia”
a cura di Gregor H. Lersch
Museo Casa di Goethe
via del Corso 18, 00186 Roma
06 326 504 12; casadigoethe.it
© Archiv Peiffer Watenphul, Bauhaus-Archiv Berlin
Questo articolo è parte della rassegna “Gender Fluid. L’Arte sfida i binarismi di genere – Mostra virtuale 3d“