di Ginevra Amadio.

Una duplice forma di estraniamento si impossessa di chi si accosti alle opere di Paolo Fichera, perché all’immediato rimando al pittore della solitudine, Edward Hopper, si affianca la sensazione di fare i conti con l’impalpabile, con ciò che resta in ombra e non traspare.
Un sottile pulviscolo riposa in ogni tela, un’impercettibile patina in dissolvenza che rende il senso di un tempo fermo, in cui la stagnazione emotiva si accompagna all’incomunicabilità, a un’anestesia percettiva che solo una sguardo altro, inevitabilmente dal margine, potrà forse svelare.
È nello spazio di questa “invenzione”, di una verità ricostruita attraverso i mezzi dell’arte che si colloca l’agire pittorico di Paolo Fichera, un viaggio nei meandri dell’io in cui la dialettica interno-esterno concerne uno spazio che è insieme fisico e mentale, senza cedere, tuttavia, alle lusinghe di un rispecchiamento romantico, men che meno lukacsiana, guardando semmai alla lezione di De Chirico, meglio ancora alla metafisica definita dal fratello Savinio come “essenziale”, una poetica in grado di svelare «quell’altra realtà» che solo un occhio addestrato, «un occhio di poeta», riesce a penetrare.

Ogni riferimento è però destinato a sfumare nelle tele di Fichera, che da grande artista esibisce e rielabora le suggestioni per dar vita a qualcosa che è insieme se stesso e altro, una radiografia della solitudine che emerge in dipinti scabri, “scanditi” da un tempo imprecisato, ora evocato dalle sedie vuote in Leda e il cigno (2020) o dal vetro oltre cui un uomo e una donna fuggono i rispettivi sguardi, laddove un titolo di rinascita, Primavera (2019), rimanda semmai a un gioco manchevole dei sensi, a una morte in differita: il requiem di un amore agonizzante.
C’è qualcosa dei silenziosi e dolenti vàgeri di Lorenzo Viani nelle tele di questo artista che, nella sua ricerca, passa dalla sospensione temporale al territorio dell’alienazione tout court sfiorando il piano fisico, emotivo, razionale. Tutto si carica di un sentimento di perdita destinato a collocarsi sul crinale tra straniamento e immedesimazione, come nello spazio indefinito de La tela bianca (2020), grande metafora di un annebbiamento che è assenza di un’unica prospettiva, di un unico e convenzionale sguardo per osservare la realtà.

Così, i protagonisti delle tele di Fichera rappresentano in fondo i “disadattati”, coloro che senza rumore, quasi in dissolvenza, smettono di assolvere a un ruolo, fuoriescono dal percorso tracciato, dalla congiura delle convenzioni tra cui figura la famiglia, il rapporto di coppia, l’affermazione di un sé coerente, privo di debolezze. Gli effetti dell’inquietudine sono conseguiti mediante suggestioni strutturali e stilistiche, in un muto dialogo tra arte visiva e racconto, perché ogni scena nasconde un racconto, dischiude sviluppi destinanti alla lacerazione, allo strappo violento perché inespresso.
Con un’operazione straniante, da letterato più che da pittore, Fichera rovescia un elemento del contesto, ne ispessisce i contorni edificandogli attorno un’attesa, come in certi scritti di Dino Buzzati e nel folgorante Deserto dei tartari (1940), quando uno scarto improvviso scopre grottescamente l’“inganno”, lo svuota di significato, e tutto ricomincia, come una giostra.
Nell’indicibile svolgersi dei rapporti umani.
Ginevra Amadio
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Paolo Fichera – Leda e il cigno, 2020 (part.)
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