di Teresa Lanna.

“Voglio riuscire a trasmettere l’idea che esista una continuità ininterrotta tra i nostri comportamenti odierni e quelli di epoche anche lontanissime da noi; insomma, una sostanziale unità strutturale del genere umano. Credo, infatti, che l’arte serva proprio a questo, cioè a mostrare che nulla cambia e che l’umanità di quarantamila anni fa è esattamente come quella di oggi”.
Questo è il cardine del pensiero attorno al quale ruota l’opera di Nicola Verlato.
Pittore, scultore, architetto, musicista e digital artist, Nicola Verlato (Verona, 1965) è noto a livello internazionale per la sua particolare ricerca, che pone in armonioso dialogo pittura, arti plastiche e new media, ispirandosi, da un lato, all’arte rinascimentale e seicentesca, dall’altro alle sollecitazioni contemporanee estrapolate dal cinema, dai cartoons, dai videogame e dalle tecnologie di realtà virtuale.
Verlato inizia a studiare pittura sin da bambino e, dopo aver realizzato commissioni private, comincia ad esporre le sue opere all’interno di gallerie e musei d’arte contemporanea. L’artista veronese è rappresentato dalla Postmasters Gallery di New York-Roma e dalla Poulsen Gallery di Copenhagen; ha partecipato, tra gli altri, alla 53a Biennale di Venezia, alle Biennali di Praga e Tirana, alle esposizioni al Palazzo Reale di Milano, al MART, al Museo Nazionale di Stoccolma e al White Columns di New York.
Quello di Verlato è un linguaggio assolutamente originale, sorprendente e, per certi versi, irriverente, che si relaziona senza esitazione con le rapide trasformazioni del tempo moderno, attraverso racconti visivi i cui personaggi paiono rappresentare una fusione perfetta tra il mondo antico e quello contemporaneo, in un ‘viaggio virtuale’ che parte da un passato che, inevitabilmente, torna, sempre e comunque, a farsi presente.

L’intervista
[Teresa Lanna]: Lei ha iniziato a dipingere fin da bambino, grazie al suo primo maestro, Fra Terenzio, un frate francescano appassionato di arte ed anch’egli pittore. Quali sono stati i soggetti delle sue prime creazioni e quanto il contatto ravvicinato con Fra Terenzio ha influenzato il rapporto tra lei e la spiritualità?
[Nicola Verlato]: In realtà, la mia famiglia era molto secolare e non frequentavamo la chiesa, ma, essendo così fortemente attratto dalla pittura del Rinascimento e del Seicento, erano i temi religiosi ad affascinarmi di più, proprio perché erano quelle le narrative sulle quali i grandi pittori mostravano le loro capacità compositive e drammatiche espresse al massimo grado.
La sua passione per l’arte l’ha portata, sin da subito, alla consultazione e allo studio dei numerosi libri di storia dell’arte custoditi all’interno della biblioteca di famiglia, facendole ‘incontrare’ uno degli artisti ai quali si ispirerà sempre: Caravaggio. Quali sono stati gli elementi caravaggeschi che l’hanno colpita di più e quale opera del Merisi ha inizialmente catturato in modo particolare la sua attenzione?
Ero un bambino di cinque anni che disegnava con i pastelli colorati e che era disperato perché non riusciva, con quel rosa, ad ottenere il colore della pelle. Me lo ricordo come un problema di capitale importanza… Quando vidi Caravaggio, in particolare la Flagellazione di Cristo (1607, [ndr]), conservata all’interno del Museo Nazionale di Capodimonte, a Napoli, rimasi esterrefatto da quella immagine, ipnotizzato dalla sua potenza… La ‘pelle’, ciò che io cercavo, era rappresentata nel modo più perfetto possibile. Ciò che mi colpì, in realtà, fu soprattutto la drammaticità dell’aspetto chiaroscurale e la violenza con la quale le narrazioni dei vangeli venivano espresse. Quell’impatto emotivo, che la pittura di Caravaggio produsse sul me bambino, è sempre rimasto lo scopo sottotraccia di tutti i miei sforzi nell’arte. È come se, da quel momento, avessi deciso di dover riuscire a riprodurre nei miei quadri l’impatto emotivo che quel dipinto aveva avuto su di me.

Oltre al Caravaggio, lei si è ispirato ai grandi artisti del Rinascimento e del Barocco italiano, combinando, col tempo, classicità e mitologia con fantascienza e tecnologia moderna. A tal proposito, quali sono gli strumenti che usa per ottenere questa “fusione” tra antico e moderno e, inoltre, come ha imparato ad utilizzarli e come sono cambiati nel tempo?
Sì, infatti, io mi sono ispirato moltissimo a Michelangelo, al quale, com’è noto, anche Caravaggio si ispirava; così come a tutti i manieristi, da Pontormo e Rosso Fiorentino al Beccafumi. Fin dal 1982, anno in cui vidi il film Tron, di Steven Lisberger,che per la prima volta mostrava lunghe sequenze generate in CGI con la tecnica wireframe, ho notato l’estrema somiglianza fra quella che era una nuovissima, al tempo, tecnologia di produzione di immagini ed i disegni poligonali di Piero della Francesca e di Paolo Uccello. Capii che era essenziale, per me, impadronirmi di quegli strumenti che, seppur nuovissimi, insistevano su un antico progetto di modellizzazione del mondo.
Inizialmente, collaboravo con un amico veneziano che lavorava con un Mac; poi, fui incaricato della regia di un video musicale per la cantate Marina Rei dalla etichetta discografica inglese Virgin Records, che mi chiese un videoclip basato sul personaggio di Lara Croft (Un inverno da baciare, 1999 [ndr]). Io lo impostai come se fosse un videogioco e, così, con i tecnici della casa di produzione, imparai a modellare col programma Softimage. Rimasi molto stupito quando la stessa etichetta, per i Red Hot Chili Peppers, realizzò un video musicale che credo prendesse ispirazione proprio dal mio, ma con un budget molto più elevato e, quindi, con risultati sicuramente migliori. Nel corso degli anni, con lo sviluppo progressivo della tecnologia, ho sostituito i vecchi programmi con quelli che utilizzo ancora oggi: Maya e ZBrush.
Ciò che io ed il mio collaboratore, prima, realizzavamo in un anno, ora posso portarlo a termine in un paio di giorni. Non è automatico che l’utilizzo di questi programmi produca una certa estetica, però, inseriti all’interno di una metodologia attentamente strutturata, come quella che ho sviluppato in oltre vent’anni di lavoro, contribuiscono ad un certo equilibrio formale che è caratteristico del mio lavoro.
Lei è un artista a tutto tondo, infatti si è formato in musica classica e ha studiato liuto e composizione presso i conservatori di Verona e Padova. È solito ascoltare una musica particolare mentre lavora e, se sì, quale preferisce?
Credo che la musica occupi la stessa zona del cervello che occupa la pittura, quindi di solito non la ascolto mai mentre dipingo, appunto per evitare che mi distragga; avendo studiato al Conservatorio, infatti, ho una attitudine analitica verso la musica e sento tutti i nomi di ogni nota. Preferisco, quindi, ascoltare il parlato che credo tenga occupata l’area del mio cervello che altrimenti sarebbe continuamente distratta da problemi pratici dei quali devo disfarmi quando dipingo, come ad esempio conferenze su temi filosofici, storici e politici. La sera, invece, quando ho finito di lavorare, ascolto finalmente la musica. Ascolto di tutto, ma ultimamente prediligo, in particolare, la musica inglese della fine del Cinquecento per Consort of Viols di autori quali Orlando Gibbons, William Byrd o Alfonso Ferrabosco; una musica molto polifonica e meditativa che, quando torno a casa, mi isola dal caos delle strade di Roma.

Lei ha reso omaggio a varie figure di fama internazionale; il Ritrovamento del corpo di Pier Paolo Pasolini (2020) ne è un esempio. Quale chiave di lettura bisogna utilizzare per fruire appieno di quest’opera e qual è il messaggio che intende inviare attraverso di essa?
Voglio riuscire a trasmettere l’idea che esista una continuità ininterrotta tra i nostri comportamenti odierni e quelli di epoche anche lontanissime da noi; insomma, una sostanziale unità strutturale del genere umano. Credo, infatti, che l’arte serva proprio a questo, cioè a mostrare che nulla cambia e che l’umanità di quarantamila anni fa è esattamente come quella di oggi.
Il Ritrovamento del corpo di Pier Paolo Pasolini (2020), quindi, calato all’interno della struttura compositiva del Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio (1608, [ndr]), aggiunge ad un evento della storia recente un carattere monumentale che solo la pittura di impostazione classica può conferire. Al contempo, le strutture compositive antiche vengono rivitalizzate dalle narrative odierne, creando una circolarità temporale che solo l’arte può ottenere. Si scardina, così, l’impianto lineare della storia vista in senso millenarista a favore di una visione circolare del tempo.

Tra le sue più recenti mostre c’è Myth Generation, allestita da Imola Musei nelle sale espositive del Museo San Domenico, con decine di opere selezionate per esporre al meglio il suo iter professionale. Ci racconta cosa rappresenta, per lei, il Mito e qual è il filo conduttore che accomuna le opere scelte per la mostra?
Da sempre, viviamo immersi in narrative di carattere mitologico; produrre narrative è l’attività umana per eccellenza. Narrative che, inevitabilmente, tendono tutte verso la produzione di mitologie. La pittura e la scultura arrivano alla fine di questo processo collettivo di addensamento narrativo, trasformando le narrative lineari in oggetti che occupano lo spazio. Questa è la loro funzione precipua.
Il filo conduttore diventa la constatazione che quasi tutta la mia produzione ruota intorno a questo paradigma. Il direttore e curatore della mostra, Diego Galizzi, ha individuato questo filo che lega tutte le opere tra di loro. I dipinti che riguardano le narrative più antiche sono stati collocati vicino a quelli legati a narrative più recenti, con la funzione di rappresentare le matrici archetipali di queste ultime.


All’interno di opere come Beauty of failure (2009), lei rappresenta un uomo in lotta con un animale, lasciando a chi osserva l’opera il compito di stabilire chi, alla fine, avrà la meglio tra i due soggetti coinvolti. Il titolo lascia presagire che il primo soccomberà o è semplicemente una provocazione?
L’opera è stata realizzata per la 53a biennale di Venezia del 2009 ed è stata dipinta quando vivevo a New York. Questo quadro, così come altri con lo stesso tema, si riferiva all’hubris che percepivo come caratteristica fondamentale della civiltà statunitense. Nel dipinto, volevo mostrare proprio la ribellione degli elementi naturali contro lo sfruttamento senza ritegno a cui vengono sottoposti da secoli, tipico della cultura capitalistica a trazione anglo-americana.
Non è una provocazione; credo realmente che un pensiero che concepisce un finalismo apocalittico, proprio perché non pone alcun anticorpo ad una visione esclusivamente lineare del tempo, non può far altro che realizzare profezie che si autoavverano, ossia realizzare la propria fine.
Tra le opere di ieri e di oggi ce n’è una, in particolare, che rappresenta una sorta di “autoritratto” ed alla quale è legato per qualche motivo?
Potrà sembrar strano, ma il dipinto Hostia, ovviamente una rappresentazione allegorica della vicenda biografica di Pasolini, è anche il risultato di un processo di autoidentificazione personale con alcuni elementi della vita dello stesso scrittore. La precocità della vocazione all’essere artista e l’attaccamento alla tradizione classica, per esempio.

L’opera The Merging (2019) può considerarsi uno specchio della società di oggi, sempre più invasa dai nuovi media? E, inoltre, qual è il rapporto personale tra lei e la tecnologia, nella sua routine quotidiana extralavorativa?
Spesso oscillo fra momenti di ottimismo e lunghi periodi di pessimismo nel considerare il tempo che stiamo vivendo. Questo dipinto esprime un’ipotesi positiva sui recenti rivolgimenti della tecnica dove, infatti, le caratteristiche della modellazione tridimensional-digitale della rappresentazione dei fenomeni in termini razionali porterebbero ad una chiusura della voragine che si è creata fra arte e scienza, dall’inizio della modernità, nel Seicento, in poi. Questo avverrebbe ricollegandosi al progetto della tradizione rinascimentale, interrotto, appunto, nel Seicento. Questa visione ottimista contrasta, però, con l’avvento tecnico dell’intelligenza artificiale, che credo, invece, comporti una serie di sviluppi molto negativi riguardo la creatività umana e la conoscenza in generale.
Nonostante io utilizzi le tecnologie digitali nel mio lavoro, al di fuori di esso non sono un adepto della tecnica; la tengo a debita distanza, proprio perché preferisco altre narrative rispetto a quelle del progresso tecnico.

Le sue opere hanno avuto tanti riconoscimenti e sono state esposte in numerose gallerie, in Italia ed all’estero, nell’ambito di mostre personali e collettive. C’è un complimento, elogio, od omaggio, tra i tanti ricevuti nel corso degli anni, che lo ha particolarmente colpito e reso orgoglioso delle sue creazioni? Se sì, chi ne è l’autore?
A Roma, a Torpignattara, ho realizzato un grande murale che riproduceva, su una facciata di tre piani, il dipinto Hostia, ed alla sua inaugurazione ho visto molte persone commosse; alcuni di loro piangevano. Questo, forse, è il miglior tipo di apprezzamento che ritengo di aver ricevuto.
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Tutte le immagini © Nicola Verlato
Immagine in evidenza
Nicola Verlato, Assassinio di Marlowe / Pasolini, 2022, olio su tela, cm 200×300 (part.)