Non poteva non arrivare, per Ottorino Stefani, il momento di Asolo.
Si sa: per la cultura veneta Asolo è un tòpos ideale: riunisce in sé la straordinaria dolcezza del paesaggio collinare (giorgionesco) e gli echi nostalgici di una tradizione letteraria ben radicata (da Caterina Cornaro al Benibo, fin magari a Eleonora Duse).
Come più di cinquant’anni fa Stefani aveva aperto la sua finestra sul Montello, imbevendosi fin nelle fibre di quel pacato sereno paesaggio, così ora, ha aperto un’altra finestra: quella che coglie, da lontano o da vicino, il fluire delle colline asolane, accentrato nel metafisico biancore della Rocca.
Ne sono usciti, nel giro di quasi un anno, una trentina di dipinti: tutti simili eppur tutti diversi, nati da emozioni che si rinnovano, nutriti dal variare stesso delle angolazioni prospettiche e, ovviamente, dal mutar delle stagioni e delle ore.
Un ciclo tra i più riusciti e forse il più sinfonico nella lunga produzione del pittore montebellunese.
Dipingere Asolo non è mai stato facile, almeno in epoca moderna.
Anzitutto il richiamo ai grandi del Cinquecento, da Giorgione appunto a Cima, finiva per paralizzare quasi il pennello.
“La troppa bellezza nuoce”, diceva Renoir, che di bellezza (non solo femminile.) se ne intendeva.
Come rendere le armonie dolcissime dei colori, i vapori sospesi nell’aria, i ritmi soavi delle colline, la verzura così multiforme e cangiante? E poi: come uniformare nello stile le case e i palazzi talora di matrice toscana) con la cadenza morbida degli alberi? E a proposito di questi, come inserire le verticali scure dei cipressi in un paesaggio così curvilineo? Inoltre: come rievocare (sia pure indirettamente) il plafone dell’antica cultura che forma quasi un filtro invisibile tra l’apparire delle cose e il disparire della memoria? Asolo ha ingannato troppi pittori, specie nell’Ottocento: e ne sono uscite immagini stereotipe, spesso false, o comunque senza cuore.
Nemmeno un fine artista di eco secessionistica come Wolf Ferrari c’è pienamente riuscito; mentre Ila colto il senso dell’incanto asolano un discreto veneziano come Carlo Dalla Zorza, che aveva il dono dell’armonia cromatica.
Ottorino Stefani ha aggirato, in un certo senso, gli ostacoli.
Il suo occhio è partito da lontano, magari da Fagliano o da Casella o da Monfumo: e s’è avvicinato lentamente al cuore del problema pittorico.
I quadri ritraggono Asolo come se di fronte a loro si aprisse un velo: lo stesso velo die Giovanni Bellini scostava delicatamente per mostrare, sullo sfondo delle sue celestiali Madonne, il profumo del paesaggio veneto.
Un’apparizione, quindi: un incanto virginale quale può essere percepito solo da chi scopre all’improv.iso l’Eden non mai visto ma vagamente desiderato.
Questa è almeno la sensazione che si prova di fronte ad una pittura come quella di Stefani che sembra tralasciare la sua ben corroborata saggezza, che dimentica persino Cézanne, che filtra appena i ritmi di Gino Rossi, che in sostanza vuole sorgere ogni volta ab ovo, stupefatta e fanciulla.
Si rimane storditi.
La troppa bellezza, come la troppa cultura, ha prodotto il suo antìdoto: la purezza della poesia.
Ecco le colline ondeggiare nella sfocato chiarore del mattino: appaiono come curve femminee sullo sfondo di un cielo ora sereno e ora percorso da nuvolette capricciose.
Il verde si tinge di mille screziature, tra ocre finissime e azzurrini appena spenti, con il contrappunto di certi toni rosati che ricordano Tiepolo.
Si scorge in lontananza il punto magico della Rocca: lontana, irrealmente lontana, eppur vicina nel sentimento.
Talora la vallata si fa più turgida, densa, intrisa di umori, marezzata come fosse dopo un piovasco; talaltra risplende di luci soavi che paiono rincorrersi nell’aria tersa: oppure tende a chiudersi in una sorta di torpore che annuncia l’elegia mesta dell’imbrunire.
Sono appunto momenti atmosferici che si traducono in momenti sentimentali: e di qui in accordi particolari di colori.
Ma certo è che, rispetto ad altri cicli di Stefani (quelli, ad esempio, di Possagno di Asiago, di Breganzeì il paesaggio è più svariato, più mosso, più intriso di cangiantismi, più vivace nelle armonie: si potrebbe dire più caldo.
Nei primi piani spuntano qua e là dei cespi vegetali sui rossi e gli arancione, persino sui gialli, che sono come un canto felice di apertura al paesaggio.
Quali le ascendenze di questi scorci asolani? Una ce la indica direttamente Stefani: Gino Rossi.
E stato il suo grande amore pittorico della giovinezza; ora ritorna sulla scia degli stessi dipinti che lo sfortunato artista veneziano ha dedicato proprio al paesaggio di Asolo.
Essi vengono inseriti quasi quali sfondi di finestre aperte, con i fiori sul davanzale.
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Paolo Rizzi
Tratto dal Catalogo: “Visioni asolane di Stefani”
a cura di Paolo Rizzi
Villa Freja – Asolo
9 – 27 giugno 1999
GMV Libri – giugno 1999