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Palestina on the skateboard. Intervista al fotografo Maen Hammad

di Mariateresa Zagone.

Palestina on the skateboard. Intervista al fotografo Maen Hammad

Maen Hammad è cresciuto nella periferia americana del Michigan e, attualmente, vive tra Ramallah (Palestina) e Washington (USA). Skater, fotografo e regista è anche attivista per i diritti umani. Per lui lo skateboard, come ci racconta nell’intervista, non è mai stato solo un gioco, un’attività liberatoria adolescenziale, una fase di passaggio; attraverso un rapporto quasi simbiotico con la tavola, fra un frontside e un heelflip pattinando sulle strade anonime della città statunitense, Hammad ha infatti cominciato ad accarezzare l’idea di un ritorno nella terra d’origine dove il pattinaggio si è trasformato in un mezzo potente di radicamento e di identità. Vissuto come una danza in grado di interpretare l’ambiente circostante, uno strumento per promuovere la comunità, uno sbocco per far volare l’immaginazione sua e degli altri skaters, ha trovato la propria narrazione attraverso una street photography potente e disinvolta, guidata essenzialmente dall’impulso di esplorare l’immaginazione e di giocare con la leggerezza e la quotidianità.

L’intervista

Maen Hammad

[Mariateresa Zagone] Chi è Maen Hammad?

[Maen Hammad] Sono un fotografo documentarista palestino-americano di 31 anni, skateboarder e attivista per i diritti umani.

Quando nasce, in te, l’amore per lo skateboard?

Credo sia stato una sorta di “amore a prima vista”. I miei genitori mi regalarono il mio primo skateboard all’età di nove anni, quando abitavo negli Stati Uniti. Io e i ragazzi del mio quartiere abbiamo iniziato a pattinare e mi è proprio entrato dentro: si può dire che mi sono radicato nella sua cultura tanto da considerarla la mia identità più vera. Vedo il mondo attraverso lo skateboard.

E quello per la fotografia?

Nasce tutto dalla mia passione per lo skate la cui pratica è stata molto documentata, nella sua pur non lunghissima storia, sia dalla fotocamera che dalla videocamera. Per questo motivo mi sono sempre sentito a mio agio con la macchina fotografica; che si tratti di filmare i vari trick con i miei amici o di sfogliare riviste di settore, lo skeatbord ha un proprio storytelling che i non skeaters non riescono a colgliere nei dettagli. Le immagini di skeatbording possono porre l’osservatore, senza filtri, davanti alle esperienze vissute da chi pattina e alla magia di questa pratica. Quando sono tornato a casa, in Palestina, sapevo di voler condividere questa magia ma non nel contesto dell’occupazione dei territori.

Sei nato a Gerusalemme ma ti sei trasferito negli Stati Uniti da bambino, cosa ti ha lasciato il Michigan?

Il Michigan e, più in generale, gli Stati Uniti, hanno sicuramente avuto molta influenza su di me, sul mio modo di stare al mondo, non potrei mai negarlo, del resto ho vissuto lì dai due ai ventuno anni. Sto ancora analizzando e cercando di consapevolizzare l’influenza che hanno avuto nel bene e nel male. Sono cresciuto in un modo incredibilmente privilegiato, ho frequentato una grande scuola pubblica e ho avuto genitori che non mi hanno mai fatto mancare nulla. Allo stesso tempo però sono cresciuto in una situazione di diaspora, la Palestina era ovunque in casa mia, nella mia famiglia. Crescendo ho avuto la curiosità di vedere la mia terra andando molte volte in Palestina, cosa che mi ha permesso di radicarmi nella mia terra d’origine.

Cosa ti ha spinto a tornare in Palestina?

Nel 2014, dopo aver concluso gli studi, avevo pensato di andare a visitare la Palestina per quello che sarebbe dovuto essere un breve viaggio estivo al fine di seguire un corso di lingua araba. Nel villaggio in cui ero andato a studiare, per caso e per fortuna, mi sono imbattuto in un piccolo gruppo di pattinatori rimanendone stupito, forse a causa della mia ingenuità. Ho stretto amicizia con quei ragazzi miei coetanei e così mi sono immerso nell’allora piccolissima schiera di skateboarder della Cisgiordania. Nello stesso anno Israele lanciò una brutale offensiva militare contro Gaza ma, nonostante la Cisgiordania fosse abbastanza distante, quegli eventi, quelle coincidenze nel fluttuare della mia esistenza, hanno rappresentato un punto di svolta. Sarei dovuto tornare nel Michigan per frequentare la facoltà di Giurisprudenza ma tutto cambiò. La traiettoria della mia vita non era più soddisfacente e sentivo la Palestina come qualcosa di più profondo ed importante. Dopo quell’estate, infatti, sono tornato in Palestina.

Proprio in Palestina lo skateboarding ha trasceso la semplice passione ed è diventato mezzo per una narrazione identitaria. E’ così?

Suppongo che fin da ragazzino lo skateboard abbia sempre fatto parte della mia identità. Ero stato ossessionato dalla prima volta che avevo messo piede sulla mia tavola. Ma in Palestina è sorprendente come lo skateboard abbia riacceso l’ identità perduta. Ciò significa che è diventato una sorta di linguaggio, uno strumento, un mezzo per comprendere me stesso e il rapporto con la mia terra. Ho stretto amicizie incredibili grazie allo skateboard in Palestina. Questa è una delle cose più importanti della mia vita.

Cosa significa essere giovani palestinesi in una “patria” occupata militarmente?

Dico sempre che essere giovani ovunque non è facile. Nel contesto della Palestina è decisamente più difficile. Esistono livelli reali e radicati di violenza per mano del regime coloniale di insediamento israeliano che dovrebbero allarmare tutti. Penso che molte persone abbiano ben presenti le immagini dei checkpoint, dei soldati armati,delle proteste, ecc. quando pensano alla Palestina, immagini di una violenza esplicita e visibile. La violenza invisibile è molto più impalpabile, non fa rumore: lo sradicamento di un immaginario e di un’appartenenza, la sensazione di essere imprigionati nella propria terra, il dolore dello sfollamento, la frammentazione del nucleo familiare. Ci sono così tanti livelli di violenza che spesso mi sento sopraffatto cercando di riassumerli tutti. So che nonostante tutta la forza della brutale occupazione israeliana e del regime di apartheid contro i palestinesi, i ragazzi continuano a cercare di vivere e ad impegnarsi con gioia. E questa è la cosa che mi tiene saldo.

Per dare voce allo skating palestinese nei tuoi progetti hai inglobato foto di altri skater dotandoli di macchine fotografiche usa e getta. Cosa ti ha sorpreso dei loro scatti e come questi si armonizzano con i tuoi?

Sì, ho collaborato con cinque skaters in Palestina per il progetto. Ho dato a ciascuno una macchina fotografica usa e getta e ho chiesto loro di fotografare semplicemente il mondo che li circondava. Le loro immagini mostravano qualcosa di incredibilmente semplice ma molto potente, soprattutto considerando quello che l’intero panorama dei media e del giornalismo occidentali narrano della Palestina. I giovani palestinesi sono nient’altro che “giovani”, desiderano uscire con i loro amici, andare in skateboard in giro per la città, andare nei villaggi della loro famiglia, giocare. Sono foto sicuramente correlate alle immagini del progetto, in un certo senso offrono allo spettatore un portale di accesso al mondo attraverso gli occhi di un gruppo di giovani skateboarder palestinesi e del loro spazio mentale alternativo.

Landing” è il titolo di una tua mostra ma è anche un libro fotografico, Ci parli di questo progetto?

Landing” è il mio progetto a lungo termine, il mio libro fotografico in cui documento la scena dello skateboard palestinese in Cisgiordania a partire dal 2015 e con il libro spero di dare vita a questo corpus di lavori. Ho iniziato a lavorare seriamente al progetto dal 2020. Collaboro con Roï Saade, un incredibile designer libanese, dal 2021 e lavoriamo insieme per creare il libro. Il libro ha anche molto testo, prosa, poesia, interviste… molto. Penso che il testo sia fondamentale nel mio lavoro. Ogni linguaggio è importante quando si tratta di raccontare la Palestina.

La tua è una fotografia che vuole documentare e, nonostante questa totale aderenza al vero, la composizione, l’inquadratura, “l’estetica”, rimangono valori assoluti. Come armonizzi questi due aspetti?

Documento le cose che vedo, le cose che mi piacciono, le cose che odio. Voglio che in tutto questo ci sia la mia visione delle cose. Non credo che la creazione di immagini sia una pratica oggettiva, né che possa mai creare alcun tipo di verità oggettiva. Cerco di non concentrarmi sull’aderenza alla realtà nei miei scatti, semmai cerco di fornire un frammento, un portale verso il mondo che vedo. Una cosa che amo dello skateboard e che forse si sovrappone alla mia pratica di fotografo, è l’esperienza soggettiva di entrambe le pratiche. Ad esempio, ogni pattinatore può vedere una rampa di scale o una sporgenza in modo diverso. Potrebbero voler eseguire un salto specifico a cui un altro pattinatore non avrebbe mai pensato.

Cosa vuoi che all’osservatore rimanga impresso delle tue foto?

Spero che gli spettatori possano osservare la realtà bella, gioiosa, dolorosa e violenta dell’essere giovani e palestinesi. Spero anche che possano vedere la bellissima relazione tra lo skateboard e lo spazio in Palestina. Come lo skateboarding sia una forma di resistenza al dominio di Israele e come un piccolo collettivo di giovani skater sia in grado di trovare le proprie radici. Ho sempre creduto che lo skateboard in Palestina sia una forma di resistenza. Fornisce momenti di gioia, può favorire una bella comunità e permette anche di radicarsi nello spazio che lo circonda. In Palestina, sia lo spazio che la terra sono in gran parte sotto il sistema di controllo e l’occupazione israeliani. Per i giovani skater vivere effettivamente il proprio ambiente urbano, immaginarlo e giocarci, beh, questo è davvero radicale. E’ bellissimo poterlo testimoniare, ed è magico sperimentarlo. E’ impossibile misurare questa energia, ma è una forza contraria al controllo di Israele.

C’è una canzone di un’artista italiana che mi è cara e che si intitola “Il cielo d’Irlanda”… com’è il cielo della tua Palestina?

Che bella domanda. Il cielo in Palestina è dipinto con sfumature così belle. Oggi è rosa all’orizzonte e sfuma nel blu verso lo zenit. Ieri grondava di arancione. A volte il cielo inghiotte le colline e altre volte le abbraccia come una coperta di lana. Stavo parlando con uno skater di Gaza questa settimana. Non ci siamo mai incontrati di persona perché si trova sotto assedio. Ma mi ha detto come si sente quando pattina. Mi ha parlato del cielo e di come gli permette di volare

Una domanda di rito, quali sono i tuoi prossimi progetti?

Sto lavorando duramente per provare a finire “Landing” e spero di farlo uscire nel 2024. Ci ho messo molto tempo. Ma sono sempre in giro con la mia macchina fotografica. Quest’anno sono negli Stati Uniti perché la mia compagna sta finendo i suoi studi universitari. Ho passato molto tempo a fotografare per strada. Trovo conforto stando fuori e nel caos degli ambienti urbani. Chissà, forse comincerò a condividere alcune di queste immagini o a lavorare su una serie.

Contatti
Maen Hammad official website | Instagram
Copyright
Tutte le immagini © Maen Hammad
Breve biografia
Maen Hammad (1992, Gerusalemme) è fotografo, regista e attivista per i diritti umani. Il suo lavoro è stato pubblicato, tra gli altri, sul New Yorker e Time Magazine. È membro della Magnum Foundation. Vive e lavora tra Ramallah e Washington.