di Mariateresa Zagone.
Almeno un paio di generazioni di storici dell’arte e di addetti ai lavori hanno guardato con diffidenza o, quanto meno, con sufficienza ad un intero secolo di storia dell’arte patria. Il genio trascinatore di Roberto Longhi aveva sigillato nella tomba, si pensava, pressoché tutta la nostra pittura ottocentesca che era, a suo parere, “un ramo secco”. Tutti ricorderanno il suo azzeccato ma perfido commento al Bonjour, monsieur Courbet: e buonanotte Signor Fattori!
Longhi allora non aveva tutti i torti, ovviamente.
Si usciva da un’ubriacatura di nazionalismo provinciale e da una ingiustificata esaltazione delle presunte virtù italiche che dovevano ad ogni costo rifulgere al confronto con la mediocrità e la superbia delle nazioni europee più ricche, fornite di giganteschi apparati industriali e di non pochi personaggi di genio. In quel frangente, di non breve durata, sembrava anche ovvio che i Sovrintendenti e i direttori di pubbliche raccolte non tenessero in gran conto i dipinti dell’Italia dell’Ottocento. Li destinavano magari ad arredare qualche sede prefettizia o qualche ufficio delle imposte. Insomma, tutto ciò che sapeva di Accademia non meritava la minima attenzione. E si ripeteva (forse neppure a torto) che l’ultimo artista italiano a dar esempio all’Europa intera era stato Canova: e poi più niente.
E anche su Canova, di certo, qualcuno aveva da storcere il naso.
Anche i Macchiaioli sapevano troppo di provincia, quasi di vernacolo rispetto agli Impressionisti. Si salvava appena qualche vacca svizzera sullo sfondo delle Alpi giusto perché Segantini applicava alla pittura il tentativo di divisione in fotoni, come Seurat. Per fortuna questa sorta di apartheid da qualche tempo volge decisamente al termine. Forse non è ancora mutato il gusto ma si è di certo risvegliato non poco interesse per i nostri artisti in sentore di Accademia. Escono monografie, si allestiscono mostre e spuntano quadri dai recessi delle raccolte pubbliche.
Per quel che concerne la Calabria, molti studi e articoli a partire da quelli del Frangipane sulla rivista Brutium fino ai più recenti di Maria Pia Di Dario Guida, Isabella Valente, Enzo La Pera, Maria Teresa Sorrenti, Maria Katia Guida e molti altri, convegni come quello di Cosenza “Arte in Calabria nell’800”, tenutosi nel maggio 2009 o quello di Vallelonga (VV) “Le arti per lo spazio sacro nell’Italia meridionale fra Ottocento e Novecento”, tenutosi nell’ottobre del 2015, e mostre come quella tenutasi fra Rende e Cosenza fra il 2008 e il 2009, ci danno perfettamente il termometro di ciò che è stato appena affermato.
Non essendo una studiosa di Ottocento Calabrese il mio articolo avrà, per necessità, un taglio divulgativo.
Per comodità affronterò la pittura di quelle aree che alternativamente furono i tre capoluoghi, Monteleone (adesso Vibo, capoluogo dal 1562 al 1593 e dal 1806 al 1816), Reggio (capoluogo dal 1147 al 1443 e dal 1465 al 1582), Catanzaro (capoluogo dal 1443 al 1465 e dal 1593 al 1806).
Sulla base degli studi appena accennati e cominciando ad entrare nel merito, è possibile individuare, fin dagli inizi del XIX secolo, alcuni fatti significativi della Calabria Ulteriore (il cui fervore seguì quello della ricostruzione post terremoto del 1783), nel sobrio e politissimo linguaggio Neoclassico.
É il caso del vibonese Emmanuele Paparo, interprete di quel linguaggio che, secondo i dettami di Winckelmann, guardava soprattutto a Raffaello, ai Carracci e al ‘600 emiliano. (Madonna del S.S. Rosario e Santi domenicani).
Allievo di Vincenzo Camuccini, pittore neoclassico (anche se non tutti concordano su questo rapporto di studi), il Paparo studiò prima a Napoli e poi a Roma dove frequentò il Canova da cui si sentì fortemente forgiato, come scriverà lo stesso artista: “E del mio cor le tempre modificò, corresse, egli mi formò l’anima […] ai tuoi Greci io antepongo il mio Canova, egli più volte mi additò, mostrommi dell’arte ogni mistero ed ogni arcano”. Ebbe il compito di organizzare i funerali di Maria Carolina d’Austria (1815) e del marito Ferdinando I realizzando i loro monumenti funebri.
A Reggio Calabria, invece, rimarrà vivo per tutto il secolo l’interesse per la pittura di paesaggio alimentata, in parte, dalla circolazione di incisioni, guaches ed acquerelli dei viaggiatori stranieri che nel XIX secolo cominciarono ad essere più numerosi rispetto al precedente secolo dei lumi. Fra i maggiori esponenti è da annoverare Ignazio Lavagna Fieschi (RC, 1814 – RC, 1871), che dalla fine degli anni ‘30 fu allievo a Napoli, della scuola di Raffaele Fergola. Qui subì l’influenza della Scuola di Posillipo, nata negli anni ‘30 per la persistenza della tradizione vedutistica del secolo precedente e per gli influssi esercitati da pittori stranieri che nella città soggiornarono più o meno lungamente come Anton Sminck Van Pitlooche nel 1816 aveva ottenuto proprio la cattedra di paesaggio all’Accademia, da ricordare inoltre i soggiorni napoletani dei maggiori paesaggisti europei, da Turner a Corot. (Pozzuoli, veduta dei Campi Flegrei, 1843).
Nei suoi paesaggi si nota una ricerca incentrata sugli accordi tonali e una predilezione per gli aspetti maestosi e terribili della natura in linea con la poetica Kantiana del Sublime (La Valle dei molini, Cava dei Tirreni)
Altra figura di spicco è quella del pittore, critico e patriota Demetrio Salazar (RC, 1822- Pozzuoli, 1882). Dopo il fallimento dei moti liberali in Calabria del 1848, Salazar andò esule riparando prima a Parigi e poi in Lussemburgo, a Londra, in Irlanda e in Belgio prima di ritornare a Napoli dove stabilì la propria sede. Durante una sua visita alla città natale, propose la fondazione di un Museo per accogliere i reperti archeologici che numerosi venivano trovati durante gli scavi, tale proposta fu accolta dall’allora sindaco Fabrizio Plutino e il Museo Civico, destinato a diventare successivamente il Museo Nazionale della Magna Grecia, fu inaugurato al piano terreno del palazzo Arcivescovile, nel giorno della festa dello Statuto Nazionale, nel 1880. Scrisse numerose opere di Storia e di Arte apprezzate, fra l’altro, da Benedetto Croce.
Poche le opere pervenuteci del suo catalogo, fra le quali L’Autoritratto, firmato e datato 1845 che fa parte del nucleo più antico di opere della collezione comunale di Reggio Calabria; citato nel catalogo-inventario del Museo Civico del 1882-1919 al numero 846. Il personaggio è raffigurato secondo la più tradizionale iconografia, di tre quarti e a mezzo busto, elegantemente vestito secondo la moda contemporanea. Dell’attività pittorica svolta dal Salazar restano purtroppo esigue testimonianze (Valente 1998), perlopiù limitate al genere del ritratto, nel quale una certa influenza dovette esercitare, quantomeno nella fase giovanile di cui il dipinto reggino è espressione, l’insegnamento risolutamente accademico del suo primo docente Natale Carta, autorevole rappresentante del genere, e col quale Salazar entrò in contatto presso gli ambienti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Di Reggio è anche Giuseppe Benassai (R.C. 1835-1878) un pittore paesaggista che opera nella seconda metà del secolo sui più aggiornati concetti del “vero”. Formatosi prima con Ignazio Lavagna Fieschi, poi con Salvatore Fergola a Napoli dove si era trasferito nel 1856, si recò successivamente a Roma dove incontrò Nino Costa, il gruppo della Campagna romana, De Nittis, Grita (scultore di Caltagirone) ed altri innovatori. Continuò a studiare da autodidatta tra Roma e Firenze, che scelse a sua residenza a partire dal 1863; qui avvicinò i macchiaioli fiorentini e, attraverso Pasquale Villari, conobbe l’ambiente culturale e giornalistico della città e partecipò a numerose esposizioni anche a Parigi con vario successo di critica. Con La Quiete (Reggio Calabria, Pinacoteca Civica) conseguì nel 1868 il premio governativo per l’incoraggiamento alle arti, sezione paesaggio (Una pineta a San Rossore). La grande Esposizione di Parigi (1867), che vide il trionfo delle arti applicate, entusiasmò molto Benassai, che si propose di diffondere con opere e scritti (Le arti, lo Stato e le industrie nazionali, Firenze 1868, dedicato al Villari) tra i suoi connazionali il gusto per l’applicazione dell’arte all’industria sul modello delle Arts and Crafts londinesi. Si interessò particolarmente di maiolica frequentando a Doccia lo stabilimento Ginori di cui fu direttore fra il 1873 e il 1878. Nello stesso tempo fondava a Sesto Fiorentino una scuola di disegno per le maestranze e ne assumeva la guida. Fra i più ammirati lavori fabbricati a Doccia, con la direzione e l’opera pittorica del Benassai, sono due vasi di grandi dimensioni; uno, alto m. 1,75 e detto il Colosso decorato con l’Incendio delle Pampas, un altro di m. 1,20, con boscaglie e fauna, e quattro coppe con paesi rappresentanti le quattro parti del mondo, che furono inviate alle Esposizioni di Milano (1871), Parigi, Vienna (1873), Napoli (1877), Torino (1880), ed ottennero premi. Ne L’Incendio delle Pampas vi è una sorta di reportage dal vivo: la corsa folle di bisonti, cavalli, cervi ed altri animali nella campagna incendiata. Ritornato a Reggio, nel 1878, morì il 5 dicembre dello stesso anno.
L’ambiente più ricco sembra comunque essere quello di Catanzaro, soprattutto nella seconda metà del secolo la cui personalità di spicco è senz’altro Andrea Cefaly (Cortale, CZ, 1827-1907) pittore, scultore, scrittore d’arte, poeta, patriota, uomo politico, una delle maggiori personalità di tutto l’Ottocento calabrese. La sua attività artistica si intreccia più volte a quella di patriota garibaldino. Dopo i suoi studi catanzaresi nel collegio degli Scolopi si trasferì nel 1842 a Napoli per intraprendere la professione forense. Qui frequentò le lezioni del letterato Cesare Malpica e di Francesco de Sanctis. Vinta la resistenza paterna, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti, allievo di Filippo Marsigli, e alla scuola libera di Giuseppe Bonolis. Nel 1848 prese parte ai moti Liberali Antiborbonici e combatté nella Guardia Nazionale, di cui fu capitano. Nel 1855 ritornò a Napoli, quando la ricerca del vero stava soppiantando il portato romantico della Scuola di Posillipo. Parallelamente ai corsi in Accademia, dal 1856 al 1859 Cefaly, nel suo studio di vicolo S. Mattia, costituì un gruppo di giovani artisti polemicamente rivolto all’arte e alla politica, il cui scopo era quello di seguire il realismo di Filippo Palizzi, che frequentava il gruppo, spingendolo però in una direzione di verismo sociale. Di esso facevano parte altri corregionali (A. Martelli, A. Migliaccio, A. Talarico, M. Tedesco, F. Sagliano).
Nel 1860 prese parte ai combattimenti garibaldini – insieme con Martelli, Lenzi e altri contro le truppe borboniche – e fu con Garibaldi fino alla battaglia del Volturno, esperienza che tradusse ne La Battaglia di Capua della Pinacoteca di Reggio Calabria con la quale partecipò alla Mostra di Firenze del 1861 che apre una serie di soggetti garibaldini ora nel Museo provinciale di Catanzaro (Bivacco di Garibaldini). Ritornato a Cortale, nel 1862 fondò una Scuola di Pittura, con presidente onorario Garibaldi. La scuola fu frequentata da molti artisti quali Raffaele Foderaro, Michele Mangani, Guglielmo Tomaini, Achille Martelli, Antonio Palmieri, Guglielmo De Martino, Carmelo Davoli, Antonio Migliaccio, Gregorio e Raffaele Cordaro, ed ebbe termine nel 1875. Fu consigliere comunale e provinciale (anni 1871-1875), deputato repubblicano al parlamento (1876-1880), nella I e III legislatura del Regno d’ Italia, quando la destra era al potere, cercando sempre di sensibilizzare gli ambienti politici intorno alle tristi condizioni della Calabria di allora. Le sue opere spaziano dai quadri di ispirazione dantesca (Paolo e Francesca) aperti all’influsso del Morelli, ma più ancora del purismo e del preraffaellismo, a quelli di soggetto storico (Giorgio Castriota, Morte di Raffaello, Battaglia di Benevento) a quelli di soggetto socio-politico e di attualità che ammiccano alla pittura dei macchiaioli, di Fattori e Signorini (Famiglia in terrazza).
Tornando alla Scuola di Cortale essa ebbe, nel panorama calabrese dell’epoca, un posto di grande rilievo soprattutto riguardo ai nuovi interessi di cui Cefaly si fece promotore (penso al carteggio non solo con i pittori dell’ambiente napoletano, ma col mondo della musica, da Francesco Florimo già direttore dell’Archivio Musicale di Napoli, a Saverio Raffaele Mercadante, direttore del Conservatorio di san Pietro a Majella, al calabrese Paolo Serrao, dal ‘68 direttore del San Carlo. Questo isolamento tanto criticato, ad esempio, da Filippo Palizzi (Vasto, 1818- Napoli, 1899, carbonaro e di indirizzo verista), non gli impedì la continua partecipazione alle Promotrici di Napoli, di Parma (1870), e di Vienna (1873). La Scuola fu orientata in modo inequivocabile verso lo studio delle tradizioni e degli usi e costumi locali in linea con gli interessi demologici volti, dopo l’unità d’Italia, alla valorizzazione delle singole realtà che componevano la Nuova Nazione. Ruolo importante, in questi anni, hanno gli studi della cultura arberesh, che già allora era profondamente integrata nella società calabrese (Ritratto della moglie in costume arberesh con il figlio Raimondo, o il Giorgio Castriota, entrambi al Museo Provinciale di Catanzaro). La tendenza fu seguita dagli allievi (Raffaele Foderaro, Donna in costume di Cortale che cuce, Guglielmo Tomaini, Fanciulla in costume di Tiriolo sempre del Museo Provinciale di Catanzaro). Un altro aspetto su cui si concentrarono gli sforzi del Cefaly negli anni di Cortale fu quello inerente la polemica sulle vie di comunicazione in Calabria che si evince già da alcuni titoli di denuncia delle opere come: “Il commercio in Calabria senza ponti, senza strade e coi briganti…La ferrovia promessa dal Ministro italiano pel 1867 è rimasta in aria e i Calabresi, veduto ch’è inutile lo sperare più strade tentano mettersi in relazione con gli altri popoli affidandosi ad un pallone spinto da razzi volanti”. Qui riportiamo l’opera: “Il miglior modo di viaggiare in Calabria” (Napoli, Museo di Castelnuovo). L’intento politico di denuncia non fu apprezzato dal Palizzi e dall’Imbriani mentre, al contrario, fu compreso e sostenuto da Tommaso Aloysio Juvara (Messina, 1809-Roma 1975), incisore messinese della storica famiglia di Filippo. La sua fervente attività sta alla base anche della realizzazione di una Esposizione Artistica a Catanzaro perché i migliori allievi della Scuola potessero essere conosciuti, oltre che alle Esposizioni Napoletane, anche in Calabria. Le sue iniziative ebbero grande risonanza tanto che il Re approvò il contributo per l’esposizione da tenersi a Cosenza il 3 maggio del 1870 e la Giunta ne esaminò il progetto con queste parole: “Le tre calabresi province che si uniscono per far mostra… danno prova… dell’amore alle belle e utili Arti”
La Scuola di Cortale, come appena detto, è frutto del ritiro postunitario del Cefaly la cui formazione avvenne comunque all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Questa, come ampiamente sottolineato da studi e pubblicazioni recenti, esercitò un ruolo fondamentale nella formazione dei giovani artisti delle regioni appartenenti al Regno delle due Sicilie, i cui lavori erano spesso esposti, e con sincero e vivo apprezzamento che risulta dagli Annali Civili del Regno delle due Sicilie (i resoconti ufficiali stilati a commento delle Esposizioni di Belle Arti indette, a partire dal 1826, da Francesco I). L’organizzazione di tali esposizioni era già stata sperimentata durante gli anni murattiani e la prima mostra era stata realizzata il 10 gennaio del 1809 con l’obiettivo di creare un momento di incontro e dibattito tra le esperienze maturate all’interno dell’Accademia e fuori, onde assicurare, pur nella continuità con il passato, attenzione e sensibilità verso le novità.
E proprio dagli elenchi delle opere esposte si evince quel cambiamento di gusto che porta alla riforma morelliana prima, e palizziana dopo; nel persistere, infatti, del linguaggio accademico, legato agli ideali del mondo classico e al metodo centrale del disegno, si fa strada un linguaggio maggiormente legato al vero ed è fra questi due poli che avviene la formazione di due altri artisti calabresi quali Vincenzo Morani (Polistena 1809 – Roma, 1870) più vicino ad un linguaggio tradizionale e Achille Martelli (Catanzaro, 1829 – Avellino, 1903) di linea verista palizziana.
Morani fu figura di spicco dell’Ottocento, col Mancinelli vinse nel 1834 il Pensionato a Roma da dove continuò ad inviare opere per le Esposizioni Borboniche. Del ‘37 è il “Davide con la testa di Golia”, dal tono eloquente e chiaramente accademico. Nel frattempo gli vengono commissionate opere di soggetto biblico in cui si allontana dal rigido accademismo per adottare un linguaggio romantico legato all’orientalismo di Domenico Morelli come nel caso dell’”Incoronazione di Ester” commissionata da Vincenzo Ruffo nel 1842 o del “San Giovanni Battista, Erode ed Erodiade” del ‘39; opere nelle quali il tema biblico viene calato in un’ambientazione suggestiva e i personaggi, lontani dall’atarassia neoclassica, indulgono a manifestazioni di pathos seppur controllato. Al contrario tendono al purismo alla Overback la Sacra Famiglia presentata nel ‘45 con la sua composta monumentalità e Dante e Beatrice incontrano Piccarda e la Regina Costanza con il quale, a coronamento della sua carriera, nel 1862, partecipa all’Esposizione di Londra.
Achille Martelli nasce a Catanzaro nel 1834. Le prime notizie su di lui sono riferite dalla principessa Maria Della Rocca (1883) e risalgono al 1848, anno in cui arrivò a Napoli per la prima volta, il 12 maggio, dove prese parte alla difesa delle barricate del 15 maggio. Sebbene scarsissime siano le informazioni relative ai primi anni di permanenza a Napoli, è ipotizzabile che fosse arrivato nella capitale del Regno delle Due Sicilie sotto l’incitamento di Andrea Cefaly. Nel 1855 l’intendenza della Provincia di Catanzaro gli approvò un assegno mensile di 9 ducati per quattro anni. In seguito partecipò alla I Esposizione nazionale di Firenze con L’alloggio del garibaldino o Racconto dell’ospite garibaldino (poi acquistata dal Municipio di Napoli) e Scena domestica (ubicazione ignota). I due dipinti rientravano nel cosiddetto «filone garibaldino» al quale aderirono tutti gli artisti che parteciparono ai moti unitari: esso combinava la descrizione di episodi intimi della vita garibaldina con l’attenzione al vero derivante dalla frequentazione di Palizzi, in contrasto con i toni celebrativi dei dipinti ufficiali. Partendo da queste tematiche dei primi anni Sessanta, la sua pittura fu in seguito improntata alle scene domestiche, molto apprezzate da V. Imbriani, come l’Oroscopo amoroso (Avellino, Palazzo della Provincia) esposto nel 1877 o la Sosta. Il Martelli non trascurò i soggetti ispirati alla letteratura popolare, come Don Chisciotte e il suo scudiero Sancho Panza e Don Chisciotte nell’osteria ha creduto di ammazzare un terribile gigante (ubicazione ignota), con i quali guadagnò un premio nel 1866. Fu presente anche alle esposizioni delle Promotrici di Genova (1864) e Torino (1863, 1865), alle Esposizioni nazionali di Torino (1880) e Milano (1881) e alla Esposizione nazionale d’arte contemporanea di Palermo (1892). Un nuovo interesse per la decorazione su ceramica lo spinse a recarsi nel 1873 alla Esposizione Universale di Vienna per ammirare Il Colosso, il grande vaso in maiolica dipinto dal reggino G. Benassai, di cui abbiamo già detto. Come ceramista il Martelli esordì all’Esposizione nazionale di Napoli del 1877, riscuotendo lodi e apprezzamenti dalla critica che lo indussero a presentarsi alle mostre successive come pittore ceramista. Morì ad Avellino il 12 dicembre 1903. Nella I Mostra d’arte calabrese, organizzata dal Frangipane a Catanzaro nel 1912 con l’intento di valorizzare gli artisti calabresi dell’Ottocento, furono esposte trentotto sue opere. Altri suoi lavori furono presentati alle Biennali di Reggio del 1920 e del 1931.
Inizia a lavorare dopo l’unità d’Italia anche il catanzarese Achille Talarico (CZ 1837- Napoli, 1902). Nel ‘67 il critico Vittorio Imbriani si era soffermato su una sua opera “Dopo una festa in maschera” notando l’estrema modernità dell’impianto compositivo, la resa naturalistica della donna ritratta a figura intera e l’espressione ancora “piena de’ fumi del vino”. L’orientamento in cui Talarico andava ad inserirsi era dunque quello del realismo napoletano. Ma la sua cultura mostra decisamente di guardare oltralpe, soprattutto a Courbet (ricordiamo lo scandalo de Les Demoiselles sur la rive de la Seine, del 1857), a Manet e a Degas (Ritratto della Signora Colella, e La Famiglia Bellelli, opera sostenuta da un’importante struttura cromatica) …la pennellata sfrangiata si nota nella Fanciulla in altalena che ha in comune anche certi tagli obliqui usati dal pittore parigino soprattutto nelle varie tele a pastello con ballerine, ancora Giovinetta con mandolino e Ricordi, in cui la pennellata larga, il colore tonale acceso e giustapposto ricorda certi esiti di Renoir come in La Liseuse del 1876. Ancora nel piccolo olio su tela La famiglia in preghiera è da notare come la luce renda incerta ogni forma in parallelo al Degas meno noto, più intimista e anticipatore di talune visioni decadenti (L’infermiera del 1873).
Chiuderei con alcune “vedute” dello Stretto riprese dalla costa calabrese, si tratta di acquerelli, guaches ed incisioni realizzate nell’800 da viaggiatori stranieri. Bisogna infatti giungere al XIX secolo perché le immagini dello Stretto e della costa calabrese prospiciente siano realmente frutto di viaggi ad opera di stranieri che finalmente riuscivano a superare quelle barriere di diffidenza e di paura potendo così apprezzare di persona luoghi, ambienti, figure, società che per secoli avevano librescamente studiato ma non ancora conosciuto e su cui pesava il lapidario giudizio di Goethe sulla costa calabra “Die kusten nicht reizend genug waren” (Le coste non erano abbastanza attraenti), giudizio che cambia radicalmente, ad esempio, nel Courier che nelle sue “Lettres écrites de France et Italie” del 1806 affermava che “La nature enchante” e in Sir Arthur John Strutt che nel “A pedestrian tour in Calabria and Sicily” stampato a Londra nel 1842 sosteneva “il paesaggio e i costumi popolari sono un susseguirsi di linee e colori, singolarità di forme e atteggiamenti”. In queste opere topoi ricorrenti sono la rocca di Scilla e l’Etna sullo sfondo delle numerose vedute di Reggio. Sono opere che ci raccontano di una Calabria ancora chiusa ed isolata ma nello stesso tempo ricca di luoghi ameni, capaci di stupire il visitatore, come fa il Lear davanti a Scilla “una delle più sorprendenti scene di questa costa” o Reggio definita “un grande giardino… uno dei posti più belli che si trovano sulla terra”. Si tratta di tre opere provenienti, la prima dalla raccolta Zerbi, le altre due da collezioni private tutte di Taurianova.
Nella guache Scilla in tempesta di autore ignoto viene riprodotto, appunto, uno dei luoghi più celebrati dell’estrema costa tirrenica calabrese riconoscibile nei quartieri di Chianalea e San Giorgio mentre in primo piano sulla sinistra si svolge, rischiarata da una luce che squarcia le nubi, la scena di un gruppetto di scillesi intenti a trarre con fatica qualcosa dalle onde.
La seconda è una litografia datata 1823 e firmata dall’incisore Muller, “Reggio i Calabrien” nella cui veduta è evidente la prevalenza del dato naturalistico e l’interesse dell’ignoto viaggiatore tedesco per la rappresentazione di una natura quasi selvaggia bene espressa dalla grandiosa quercia in primo piano. Lo skyline della città è poco chiaro, intuiamo che questa sia la parte settentrionale purtroppo non esattamente definita. Sullo sfondo lo Stretto, ancora una volta reale protagonista della scena e l’Etna.
La terza opera, un’incisione in acciaio di Frommel è tratta dal Pittoresken Italien del 1840 di Kollman. Qui la città di Reggio è ripresa dai giardini che, numerosi, un tempo la circondavano. Quasi accennata è la città che si avverte lontana – Il pergolato e la torretta in primo piano danno, come nelle incisioni del Saint-Non, l’impressione di una città idealizzata, ricca e piena di verzura, dove la vita si svolge serenamente circondata da una natura accogliente. E’ un paesaggio di maniera, con le figure dei cappuccini e quelle delle contadine con la brocca in testa, poco caratterizzato se non per lo scenario dello Stretto con l’Etna.
Mariateresa Zagone
Immagine in evidenza: Pinacoteca di Reggio Calabria, La pesca del pescespada, Annunziato Vitrioli (Reggio C.,1830 – 1870)