
Ne è passato di tempo da quando Dürer, oltre alla pratica xilografica che consentiva sottigliezze relative e risultava di difficile lettura per gl’intagliatori incaricati d’interpretare i suoi disegni, si dispose a lavorare le prime lastre sul durissimo ferro! Era una battaglia epica, fare apparire un disegno con linee sottili come un capello dalla scalfittura di un materiale così refrattario ed improbo da polire.
Ma Dürer ambiva alla massima diffusione possibile, senza rinunciare alla duttilità del risultato grazie alla commistione di tratti robusti, di macchie pittoriche e di linee quasi incorporee.
L’incisione doveva avere caratteristiche simili al disegno, con il vantaggio di un vasto numero di copie.
La strada percorsa è stata dunque lunga.
La tecnica attuale ha modificato o perfezionato tutti i materiali, li ha resi docili ed arrendevoli sotto la mano del tecnico ed in più ha aggiunto uno strumento, la fotografia, capace di sfornare copie perfezionatissime in quantità illimitate.
L’intromissione della fotografia che, considerata come un ausilio, è uno strumento utilissimo per eliminare errori e migliorare la qualità dell’immagine (quindi utilizzata nel corso del processo), quando diventa fine risulta una mina pericolosissima per l’esistenza stessa dell’attività grafica, inquinando l’immagine, corrompendo il gusto ed inflazionando il mercato.
È il problema centrale che deve essersi posto Guttuso, quando ha cominciato ad occuparsi di grafica prodotta in più esemplari.
Guttuso, come si sa, è un artista dall’impegno di lavoro assiduo e scrupoloso.
La sua produzione di dipinti, per quanto continua e sorvegliata, con il tempo si va rarefacendo, data la preferenza che vien data ad opere di grande respiro, quelle che consegnano un artista alla posterità, scavalcando la gloria effimera delle partite correnti.
Come disegnatore, poi, Guttuso ha una foga torrentizia.
Senza la pratica disegnativa, fervorosa ed accanita come un diario intimo tenuto costantemente aggiornato, tanta produzione pittorica non potrebbe nemmeno esistere.
Ma anche codesta poderosa emissione di valuta intellettualmente pregiata, come sono i disegni, non basta a coprire la legittima sete di conoscenza di un vasto pubblico, interessato all’opera di un maestro meritatamente illustre.
Non basta nemmeno a soddisfare le attese di un collezionismo in espansione, ma che non dispone di grandi mezzi, ne vuole soggiacere ai falsi che una parte del mercato può propinare con irrisoria facilità.
Guttuso non è per natura un incisore; il suo animus è quello del disegnatore, stilisticamente precisato, ma sempre ricco di energia, di soluzioni vigorose e fulminee, il che mal si adegua con la lenta e paziente pratica di messa a punto della lastra.
Bisognava trovare una soluzione che salvaguardasse le esigenze di :qualità ed autenticità del prodotto e sollevasse il maestro dalle incombenze minuziose e defatiganti che presiedono alla pubblicazione di opere grafiche accurate in ogni dettaglio e della stessa qualità dal primo all’ultimo esemplare.
L’incontro con la stamperia di Eleonora e Valter Rossi è stato determinante a questo riguardo e ne possiamo valutare i risultati anche come indicazione per il futuro.
In questo modo, oltre ad alcune lastre incise direttamente dal maestro, sono state trasferite in incisione all’acquaforte, a più colori, tele e gouachès e disegni anche di grandissimo formato.
Come Leon Battista Alberti demandò le cure del cantiere del Tempio Malatestiano a Matteo dÈ Pasti, riservandosi il progetto e la supervisione dell’esecuzione, così Guttuso ha felicemente scelto di non rischiare l’inaridimento della sua vena creativa nella lentezza della realizzazione meccanica, intervenendo spesso sia per dirigere sia per modificare l’esecuzione affidata a dei maghi di stamperia.
Ma per dire infine che la collaborazione sia stata proficua e che codeste acquaforti e acquatinte ribadiscono nel numero moltiplicato le qualità intrinseche degli originali, le dobbiamo verificare sul fatto, controllare quale fosse lo scopo del Guttuso disegnatore e pittore e cercare di ritrovare la stessa concezione e gli stessi esiti d’immediatezza nell’opera replicata in più esemplari.
Come numero prevalgono le cosiddette nature morte di ortaggi, di frutta, di foglie e di tronchi.
In realtà di morto non hanno nulla; non corrispondono nemmeno al nome nordico di natura ferma (stilleben), tanto ancora sono animate di una vita interna che le contorce, le illumina come tizzoni, costringono noi ad inseguirne i profili mutevoli piuttosto che adagiarsi docili sotto il nostro sguardo.
Ci sono due pannocchie, una su fondo giallo-rosso e l’altra su fondo bruno che attirano immediatamente un commento.
La guaina bianca della pannocchia, che a lungo ha protetto il tesoro dei chicchi dorati, si spiegazza come un lenzuolo disfatto, sfinito dalla grande combustione del campo che’sembra aver assorbito tutta l’energia del disegno, lasciando come una spoglia vuota l’intrico irregolare ed incerto della pellicola in disfacimento.
Nell’altra immagine, su fondo bruno, la guaina invece mantiene intatta tutta la sua energia come un’ossatura.
Le linee di contorno sono forti e decise e l’accartocciamento avviene per pieghe rigide e nette.
Non da l’idea di una fibra vegetale, quanto di un crostaceo dalle chele acuminate ed attive, pronte a difendersi da un pericolo imminente.
A questa pulsione di energia intermittente segue un’immagine di più pacato abbandono: una treccia d’aglio poggiata su un ripiano dalla sagoma irregolare^ color ghiaccio e, come sfondo, una parete scura con uno squarcio quadrato.
È quasi una posa teatrale, da primattore esausto che desidera luci attenuate, sfumature più miti ed un eloquio a mezza voce dove i toni contano più dei significati letterali.
Anche il peperoncino vive in due redazioni: la prima, ambigua e quasi dissimulata sotto mentite spoglie di bacche delicate, contornate da foglie accartocciate; quasi un idillio che non fa presagire il fuoco che vi cova dentro.
La seconda è composta di due trecce roventi, un balletto di gambe, generato da un’incoercibile pressione sanguigna che lo anima sotto i nostri occhi.
La tensione non è affatto attenuata dalla giustapposizione e sovrapposizione di rosso su rosso, che anzi si carica di una densità inaudita, intensificata dallo smeraldino delle capsule che tralucono qua e là.
Di segno diametralmente opposto è il broccolo incastonato tra un cielo rannuvolato e un piano di arancione acceso.
Il broccolo, la testa piccola e picchiettata di macchioline delicate che l’addolciscono come un candito, se ne.
sta appartato e dimesso in confronto al fogliame sontuoso che lo fascia come una veste.
Sembra la trasposizione in chiave botanica di una di quelle immagini rinascimentali nelle quali il volto purissimo e astratto di una Madonna è cancellato dal virtuosismo delle pieghe del panneggio che sono il vero soggetto dell’artista.
Qui Guttuso riesce ad esprimerci l’ispessimento delle foglie, le circonvoluzioni che creano come un gorgo di verde di una densità che trascende il mero fatto vegetale.
Al confronto, più espositivi appaiono i carciofi e la mela o l’incisione del girasole o quella con le arance, opere nelle quali c’è un percorso, una distribuzione di parti più ovvia ed equa tra i vari elementi che le rendono più cantabili e meno drammatiche, più appariscenti e meno conturbanti.
Severa, macerata, austera come un esercizio spirituale ci appare l’immagine delle foglie accartocciate, color tabacco, prosciugate fino all’ultima goccia di linfa, mentre un’accozzaglia di tronchi in ordine sparso, vitalissimi come se fossero animati di una vita inferiore non può non richiamarci irresistibilmente il famoso verso di Pier delle Vigne: “e ‘/tronco suo gridò: Perché mi schiarite?”.
In definitiva l’intero ciclo di nature morte si può anche leggere come uno studio dei quattro temperamenti: malinconico le foglie secche, flemmatico l’aglio e il broccolo; collerico il peperoncino ed i tronchi; sanguigno le arance ed il girasole.
Detto questo, mi rendo conto di aver parlato di cedeste opere come se fossero dei disegni e, qualche volta, delle pitture con colori anche corposi e non solo acquarellati.
È infatti il loro maggior pregio quello di presentarsi come immagini ricche di sfumature, con delle densità e delle trasparenze articolatissime e con il segno sempre imprevedibile di Guttuso come un sismogramma ora dirompente ora più regolare.
Solo l’analisi ci dice che siamo in presenza di una trasposizione all’acquaforte e all’acquatinta; l’immagine in sé ha le stesse doti d’immediatezza del disegno ed il colore riesce quasi a rendere i trapassi, repentini fin quasi alla brutalità, voluti dall’artista, Ma non si tratta di un caso, dovuto alla preferenza, quasi retaggio dell’etnia, per questo tema.
L’alternanza di delicatezza e di brutalità, di spoglia forza e di sontuoso accarezzamento della materia si può seguire anche nelle altre opere diversissime per concezione.
Consideriamo i nudi, che costituiscono un altro tema caro al maestro.
Questo ciclo ne contempla alcuni dotati di caratteristiche diverse.
Il primo è un nudo in attitudine sportiva, intento ad una flessione.
Il compasso divaricato delle gambe mette in evidenza una coscia d’impianto scultoreo.
Ben quattro densità di chiaroscuro torniscono il volume della coscia.
A questo senso plastico fa da contraltare la massa fusa dei capelli retta da un intreccio grafico fittissimo.
Questi capelli mi ricordano quelli del taccuino di Villard de Honnecourt, padrone appunto di un grafismo esasperato come tutti i disegnatori gotici.
Il parallelismo ci riporta tra l’altro alla grande cultura d’immagine di Guttuso, che con umiltà ha immagazzinato un poderoso repertorio di attitudini e di stili che qua e là traspaiono nella sua opera.
È noto che Guttuso si è molto esercitato d’après Dürer, Michelangelo, Reni, David, tutti coloro insomma che potevano insegnargli qualcosa.
E infatti, i d’après di Guttuso non si risolvono in un ricalco algido o in una compitazione impacciata di modi altrui; immediatamente si pongono in un punto di equilibrio, in un crinale tra la propria impostazione grafica e la dimensione psicologica e stilistica del maestro rimodellato.
Guttuso nei d’après calamità il mondo di maestri lontanissimi nella propria sfera stilistica.
Un nudo preparatorio per la Crocifissione ne è una lontana prova.
L’attitudine, il gesto sconsolato, la posa frontale ma senza l’ostentazione della minima parte che possa generare un equivoco di sensualità, riportano al mondo quattrocentesco, alle Eve espulse dal Paradiso Terrestre; la linea di contorno decisa, ma così piena di avvenimenti con quelle anse e la successione delle curve insistite, riporta decisamente allo stile del maestro.
Il nudo dichiaratamente più sensuale è il foglio gigantesco (cm. 130×220) della donna supina, la volitiva testa negata alla curiosità dello spettatore, le forme opulente esposte con nonchalance in una sinfonia di grigi perlacei e setosi che graduano la penombra ed essa costruisce il corpo meglio di qualsiasi tratto di penna, con discrezione e con mistero.
Solo la coscia turgida, più che ricevere, emana una chiazza di luce abbagliante e la sensualità è tutta lì, nella contraddizione tra luce e penombra che rivela ed esalta senza le minute insistenze della penna che fruga voyeristicamente a definire i dettagli anatomici.
È uno di quegli esempi nei quali l’incisione conserva tutta la morbidezza e le sfumature dell’acquarello, senza quasi far sentire la propria presenza di tecnica duplicatrice.
Che a Guttuso non interessi tanto descrivere quanto individuare ce lo conferma l’altro torso nudo allo specchio, appena solidificato e compattato dalle campiture azzurrine che fanno da fondo, ma anche dilagano sul corpo sostanziandolo.
Qui il segno è aggrovigliatissimo; una sola matassa esprime i capelli, il contorno, le braccia in due posizioni differenti.
È il segno che si serve del nudo e non il nudo che si compiace del segno.
Ci sono ancora alcune sparse incisioni alle quali è bene accennare.
La prima è molto scenografica e mostra degli alberi eretti su un assito irregolare a mo’ di zattera che galleggia su un mare e contro il cielo forieri di tempesta.
Il pensiero corre al Macbeth: “finché la foresta grande di Birnam contro a lui la cresta salga di Dunsinane”.
C’è in quest’immagine una forza visionaria d’entità barbarica, i rami attorti e le nodosità dei tronchi apparentano cedesti alberi ad attori di forte tempra drammatica, mentre la densità del contorno ha la cupezza procellosa di certi fondali teatrali.
Vorrei concludere con due nature morte di segno differente.
La prima con forti accenti cubisti, che esprimono la revisione e l’interpretazione di Guttuso dell’ultima fase del cubismo, con l’obbiettivo della restituzione di una massa, di una corporeità agli oggetti.
I colori sono severi, antiedonistici, le forme sbalzate con energia, il risultato monumentale, pur nella domesticità del tema delle frutta e delle compostiere.
La seconda è una gigantesca natura morta, per eseguire la quale ci son volute ben otto lastre e che rappresenta il vissuto dell’artista, quel magma vulcanico sull’orlo della disgregazione totale, della trasformazione in caos irrecuperabile, eppure tenuto ben al di qua del caos con mano inflessibile, con un disegno incisivo che non si arrende mai all’enumerazione fine a se stessa e che sta alla base di quel realismo appassionato e lucido che ha reso Guttuso celebre e rispettato presso diverse generazioni di pubblico.
Mi rendo conto di aver tralasciato molte opere e non perché siano minori in questo contesto: avrebbero richiesto un’analisi lunga e minuziosa.
Forse, nel silenzio di un commento importuno, la loro, bellezza risalterà di più agli occhi di uno spettatore lasciato in pace.
Enzo Bilardello
Tratto da “Guttuso“
Testo: Enzo Bilardello
Note tecniche: Antonio Mercadante con la collaborazione di Davide Rossi
Fotografia: Studio Fotografico CFI – Valmadrera (CO)
Fotolito: Clichè Arte – Lecco
Stampa: Grafiche Stefanoni – Lecco
Edizione Galleria Bevilacqua Arte, 35121 Padova – via Trieste 20/1
Maestri Incisori Srl, 20121 Milano – p.za Cavour 1, 1983