Chiacchierando col teorico dell’Arte debole, Giancarlo Pagliasso, mi sono fatto un’idea del movimento.
Proprio perché si fondava su una critica, Pagliasso rivendica: “Siamo stati l’ultima avanguardia! Ma nessuno ci ricorda più“.
Forse quel periodo dell’arte italiana, ci è ancora troppo vicino per consentire una storicizzazione compiuta, che chiami in causa la storia.
Contrariamente a ciò, oggi, quest’ultima è talmente contemporanea da estinguersi compiendosi; come dice Pagliasso: “Se non vieni storicizzato sul nascere, oggi non esisti“.
L’Arte debole fu un movimento artistico comparso a metà anni ottanta, e che si sciolse negli anni novanta.
Il nucleo fondatore deriva da il Gruppo di Ricerca Materialistica (G.R.M.; composto da Giancarlo Pagliasso, Renato Ghiazza e Silvana Saini), che operava nell’ambito della performance.
A questo si aggiunsero i pittori, Renato Alpegiani e Luigi Antinucci; e tre designer: Santachiara e gli scomparsi Ester e Scacchetti.
Come suggerisce il nome stesso, l’Arte debole rimanda al “Pensiero debole” di Gianni Vattimo (di cui Pagliasso è stato allievo).
La prassi teoretica vattimiana, pur importante come punto d’appoggio per sostanziare la ricerca già intrapresa dal G. R. M., non è il solo riferimento culturale dell’Arte debole, tanto che lo stesso nome del gruppo venne scelto prendendo in prestito una definizione del critico Flavio Caroli.
La poetica debolista (descritta da Pagliasso nella raccolta di saggi “Déjà Chimera”) è tuttavia legata all’ipotesi vattimiana dell’indebolimento dell’Essere in epoca postmoderna e del venir meno dei suoi caratteri metafisici ‘forti‘, sostanziali e assiologici, che declina in chiave artistica come rappresentazione residuale (ornamentale, superficiale e ‘fantastica‘) del reale e dei suoi oggetti.
La comprensibilità dell’Essere cioè viene ostesa esteticamente attraverso i suoi metaforici “resti“.
Proprio per questo, l’Arte debole, riscopre il kitsch, la plastica funeraria e da giardino, l’oggettistica del gusto massificato, con opere dal carattere ossimorico: povero e decorativamente gradevole.
Infatti in una replica d’annata, Pagliasso asserì che l’Arte debole cercasse di descrivere la superficie dell’esistente come un ornamento sporco (non conciliato formalmente), nel tentativo di renderne il kunstwollen specifico: l’accusa a cui rispondeva imputava, al movimento, una superficialità intenzionale.
Pagliasso ebbe così modo di definire ulteriormente la propria visione della postmodernità, per l’Arte debole stessa il reale era inconciliato: l’uomo occidentale, allora, stava votandosi alla promessa di progresso personale posta dal liberismo con le sue conseguenze socio-economiche anticomunitarie.
L’Arte debole intendeva lamentare debolmente questa precognizione: senza alcuna arroganza comunicativa, ma anzi con insistenza sommessa.
Per questa debolezza (che è l’unica vera forza desiderabile) è toccata loro una sorte ancor più periferica dello stesso Pensiero debole, giacché, pur criticato, Vattimo ha sviluppato la propria riflessione in termini teologici e politici, fino a indebolire Marx (nella speranza, sotto auspicio divino, d’una rivoluzione socialista, capace di instaurare una società che ponga la carità e l’intersoggettività al primo posto); altresì l’Arte debole trovò ben presto fine, sentendosi addossare la colpa d’una presunta morte dell’arte (di hegeliana memoria), la quale (se è) ha le proprie cause in ciò che questo movimento artistico indicava come un pericolo.
Effettivamente oggi l’arte cerca per sé la via d’una nuova legittimità, nella presunzione di allontanare la propria riduzione a semplice forma merce culturale.
In tutto ciò, evidentemente, non c’è spazio per i rivoluzionari cortesi: che questa consapevolezza sia la nostra storicizzazione, allora.
Paolo Pera