“Parlare di sé mi è sembrato sempre un compito difficile: il rischio è di far prevalere, sull’aspetto autobiografico – critico, una certa componente sentimentale.
(Dunque non parlerò della mia infanzia e adolescenza, ardue entrambe – sono nato a San Cesarie di Lecce il 24 giugno 1910 – specie in rapporto a quegli anni ’10 e ’20, prima guerra mondiale, avvento del fascismo… ).
La scelta degli studi, sia pure primari, fu obbligata: si doveva scegliere la via più breve per contribuire presto al sostentamento della famiglia.
Studi, naturalmente, con finalità artigianali: la scuola Artistico – Industriale.
(Più tardi vidi che scelta più giusta mio padre, pur non pensando a far di me un’artista, non avrebbe potuto fare).
Quella scuola – mi fa piacere dirlo – mi fornì strumenti tecnici e manuali, fondamentali per l’avvio della mia attività artistica.
Naturalmente ciò non bastava a far di me uno scultore moderno: mi occorreva un supporto, sia storico – culturale che tecnologico, poiché dovevo operare in una società sempre più colta, e che su tali elementi di progresso basa le sue risorse.
(Ho sempre considerato la scuola centro di produzione, oltre che di diffusione della cultura e di formazione del” cittadino.
Credo, quindi, di aver fatto la scelta più importante della mia vita quando vi entrai come insegnante.
Per questo dovetti, con molti anni di ritardo, completare i miei studi, superare da privatista gli esami che poi mi consentirono di iniziare la mia vita nella scuola: essa dura da quasi quarant’anni con accresciute responsabilità).
L’attività didattica non ha mai creato difficoltà a quella di scultore; l’ha sempre arricchita, semmai, di spiritualità, di idee vive e sincere; e queste due mie anime, l’una accanto all’altra, sono state sempre convergenti nelle finalità e – credo – anche nei risultati.
La mia sortita ufficiale come scultore risale al 1947: allestii una personale a Venezia, presso la Galleria del Cavallino con un certo ritardo dovuto alle vicende della seconda guerra mondiale e a quel rallentamento che, spesso, la provincia infligge ai giovani.
Quella mostra documentò esiti di ricerche ancora rivolte verso la precisazione di uno stile e lo sforzo di trasfigurare il vero.
Più tardi, ma sempre negli anni ’40, col riconoscimento del “Gran Premio Forte dei Marmi” ex aequo e con la personale alla “Galleria del Secolo” di Roma (1949) giunsi a chiarire meglio la mia visione e i miei fini, libero ormai sempre più di certi sentimentalismi figurativi, volto ad esprimermi attraverso i significati della forma, in una sempre maggiore aderenza alla materia.
(Infatti: nel mio lavoro sono sempre stato sorretto dalla consapevolezza che l’arte non può estrinsecarsi appieno senza la conoscenza profonda delle qualità morfologiche ed estetiche dei materiali e senza l’utilizzazione, al massimo, dei mezzi tecnici e delle tecnologie più avanzate).
Quegli anni finalmente liberi nel mondo delle arti erano pieni di fermenti e tutti noi — specie chi risiedeva in provincia — avevamo gran sete di conoscere e vedere quanto per oltre un ventennio non ci era stato consentito.
Fu così che, in molti, varcammo le Alpi: Parigi era il sogno, la mecca.
Infatti, dopo un lungo soggiorno in quella capitale, Ossip Zadkine presentò una mia mostra a Parigi così: “.. .Ses pierres et ses bois parlent la langue pure des formes… “
Questo problema e questa visione della scultura, e in modo particolare il rapporto figura-forma-materia, fu ancora approfondito attraverso il contatto che ebbi con Henri Moore nel corso d’un mio soggiorno a Londra nel 1952.
Gli anni ’50, col predominio dell’Informale, non passarono senza lasciare segni determinanti nella vita di tutti gli artisti – compreso me.
Ero tuttavia tormentato dalla convinzione che l’insistenza su quella strada mi avrebbe condotto sicuramente ad una sorta di manierismo intellettuale: reagii, dunque, visualizzando un’intuizione cui detti la definizione concettuale e l’identificazione formale di ” Biforma “.
Le ” Biforme ” erano costituite da tre elementi.
Uno statico, bloccato, determinato dal marmo o dalla pietra o dal legno ecc.; uno dinamico, sia nella forma che nella materia (ferro, bronzo, cristallo); l’altro, infine, realizzato con l’ausilio dei raggi del sole.
Una volta collocata l’opera in uno spazio naturale, a seconda dell’inclinazione dei raggi del sole, della loro intensità luminosa, si ottenevano visioni diverse, determinate dalle diverse forme che assumevano, nel loro incontro-scontro, le luci, le ombre, i riflessi, gli elementi statici e quelli dinamici.
(Le ” Biforme ” perciò non volevano assolutamente proporre un dialogo o un innesto, o una sorta di equilibrio tra gli elementi che le componevano; ma piuttosto urti, scontri violenti dai quali scaturiva un’esigenza che esteriormente poteva apparire informale, ma tendeva invece ad integrare una poetica diversa).

All’inizio degli anni ’60, i concetti della ” violenza ” e dell'” urto “, fino a quel momento visualizzati nella compresenza di più elementi, andarono evolvendosi nel senso di uno sviluppo di mezzi e di forme: in pratica tentai la via di una materia unica.
Risultato: un’immagine nuova che definii ” Piastra “.
Le ” Piastre ” erano oggetti di forma geometrica che si realizzavano mediante la stratificazione di fogli di bronzo sovrapposti e compressi, condensando lo spazio prospettico nello spessore apparentemente bidimensionale.
(Gli squarci e le lacerazioni improvvise delle superfici, determinate da un gesto violento e da una spinta interna, dettata dalla necessità di scoprire, attraverso la luce dello squarcio, nuovi ideali per un avvenire migliore scatenavano lo spazio compresso per dare all’oggetto quella vitalità che il suo concretizzarsi conquistava).
Queste ricerche riscossero consensi critici e lusinghieri riconoscimenti ufficiali (nel 1962 il Gran Premio di Scultura ex aequo alla Biennale di Venezia; l’anno seguente l’aggiudicazione del Concorso Nazionale per il Monumento alla Resistenza Italiana a Cuneo); tuttavia, la mia insoddisfazione mi portava a meditare.
L’operazione tradizionale attraverso la quale pervenivo a dar forma alle mie idee ed i materiali che usavo per vivificarle m’imponevano limiti nell’immaginazione; anche perché – ed è stato sempre mio costante pensiero – un artista moderno non può non essere in perfetta sintonia col proprio tempo; deve vivere la propria condizione umana nella cultura, nelle ansie, nelle gioie e nei drammi che la società stessa che lo circonda genera.
Ne può l’artista, che vive in un contesto tecnologicamente avanzato, fingere di ignorare appunto tali avanzamenti, ma di essi deve servirsi per poter esprimere in modo nuovo ed efficace i propri messaggi: che ovviamente, non vanno più rivolti a un’elite, ma devono essere destinati al maggior numero possibile di fruitori.
I processi industriali più progrediti, infatti, ci consentono una produzione seriale dell’oggetto senza compromettere i valori qualitativi: in effetti, tutti gli esemplari, dal primo all’ultimo della serie, sono simili al prototipo.
È così che il mio metodo di lavoro da artigianale (crescita e realizzarsi dell’opera col solo intervento manuale dell’artista) diventa progettuale, e vede il momento creativo nella fase di progettazione, tenendo conto delle possibilità tecnologiche e dei mezzi e strumenti tecnici per la realizzazione degli oggetti che danno corpo alle immagini.
Una serie di “Oggetti Plexiglas” (così vennero definiti) testimonia i primi risultati.
Continuando la ricerca ancora nel senso della “oggettivazione”, e perfezionando ulteriormente il nuovo metodo progettuale che sempre più s’identifica con quella del designer (pur sempre distinguendo le finalità: funzionalità dell’oggetto da una parte, progettazione oggettuale dall’altra) si allarga in me l’interesse per un intervento più completo.
Allargo, cioè, la mia azione nel settore didattico: nel 1965 organizzo e dirigo a Roma il ” Corso Superiore di Disegno Industriale e Comunicazioni Visive “, che nel 1973 diventa “Istituto Superiore di Disegno Industriale”: vale a dire un Istituto per la formazione dei designers, tuttora in pieno sviluppo a Roma.
La scelta di un prodotto industriale semilavorato dall’industria (acciaio inox) per la progettazione degli “Elementi Modulati” mi consente di raggiungere un maggiore equilibrio tra immagini intuitive e rigore razionale della forma.
In altri termini, credo di essere riuscito a controllare l’impeto soggettivo a vantaggio d’una maggiore chiarificazione oggettiva delle forme.
Questa esperienza è stata fondamentale per \ ì mio recente lavoro, caratterizzato infatti dalla rielaborazione di una costante formale – la “Piastra-Immagine” – attraverso il processo progettuale, utilizzando però materiali antichi e a me sentimentalmente familiari: legno, pietra, marmo, bronzo.
Questi materiali, sottoposti a nuovi procedimenti tecnici, liberano tutta la carica di immensi valori morfologici, estetici e umani latenti, componenti fondamentali della vita dell’oggetto, che ritorna, così, alla natura.
(E mentre la “Piastra” si era caratterizzata per lo squarcio violento e improvviso che ne determinava tutti i significati, gli attuali oggetti si propongono per intenzionalità e letture diverse: superfici distese e meditate, maggiore significato e rigore nella composizione, continuità di linee che portano alla profondità, accresciuta tensione formale, liberazione e nello stesso tempo imprigionamento dello spazio, conquista infine della dimensione umana mediante il recupero dei valori tattili emergenti dallo sfiorare, accarezzare l’oggetto plastico).
Un’altra costante, presente nel mio lavoro più recente, è messa in evidenza dall’attenzione al “piccolo formato” – che, si badi, non ha mai rappresentato un momento preliminare, modellistico, del procedimento tecnico per la realizzazione di opere di grande dimensione.
Al contrario: ha sempre svolto nell’ambito della mia ricerca un preciso ed autonomo ruolo; un’ipotesi di lavoro, diversa, come necessità di verificare la coerenza di fondo e la tensione plastica dell’immagine”.
Aldo Calò
Roma, marzo 1977
tratto dal Catalogo: “Sculture di Aldo Calò”
Edizioni Galleria del Naviglio – Milano
Direttore Renato Cardazzo
Catalogo stampato in occasione della 680a Mostra del Naviglio
10 – 30 giugno 1977