
Nel ventesimo secolo le avanguardie artistiche hanno avuto la sorte di diventare esperienze culturali e fatti sociali destinati ad agire come coscienza critica del tempo storico.
In esse hanno trovato espressione autentica aspetti essenziali del sentire dell’epoca, cosi come il sentimento delle sue crisi e delle sue catastrofi.
Questa espressione ha spesso assunto la forma di una rivolta, non solo sociale e politica, ma anche psicologica, tesa a combattere quel “disagio della civiltà” diagnosticato il quale Freud stesso poteva concludere che “la felicità non esiste che al prezzo di una rivolta”.
In questo senso, paradossalmente e spesso anche consapevolmente, le avanguardie hanno rappresentato la continuazione con altri mezzi dell’esperienza del sacro, del turbamento e della commozione di fronte al mondo ridiventato un enigma, dei tentativi di risolvere questo enigma attraverso la rappresentazione, della furia iconoclasta che ogni volta di nuovo di questa rappresentazione scopre la limitatezza e l’inadeguatezza.
Di contro a queste esperienze si è sempre levata, seducente e minacciosa, la tecnica, quel “processo di chiarificazione della natura, della storia, del mondo” (così la definì Martin Heidegger), coincidente sempre più con l'”organizzazione” totale (talvolta politicamente totalitaria) e spesso oscuramente apocalittica nella sua volontà di potenza tesa solo a “volere per il volere”.
Trascinata da una razionalità puramente strumentale, l’evoluzione tecnologico-scientifica ha spesso, con lo stesso bagliore scaturente dalle sue innovazioni, paradossalmente oscurato la possibilità di un’intelligenza e di una comprensione autentica delle cose.
In riferimento a queste problematiche, un non-detto che spesso si presenta anche come una sottaciuta evidenza, è questo: le arti hanno spesso finito per assumere un puro e semplice ruolo di compensazione consolatoria nei confronti della tecnica e del suo potere sulla vita corrente, smarrendo quel compimento nelle forme dell’etica che è intrinseco all’esperienza estetica vera.
Tutto ciò fa del ventesimo secolo il luogo nel quale le arti hanno visto sia il frantumarsi di certezze millenarie che l’aprirsi insidioso di sentieri che non portano da nessuna parte.
Al suo svanire, se ordiniamo storicisticamente la vicenda delle avanguardie, rischiamo di non scorgere che periodizzazioni e catalogazioni le quali articolano arbitrariamente le concrete esperienze estetiche senza spiegarle.
È come se la rassicurante chiusura delle vicende artistiche novecentesche in una rappresentazione storicisticamente compiuta, togliesse il rischio di affrontare il problema della crisi della rappresentazione che nell’ultimo secolo si riapre a ogni passo.
Al contrario, solo interrogandosi sulla natura di questa crisi e sulle sue forme, possiamo sperare di ritrovare la forza dell’opera d’arte come mondo dotato di senso e abbandonare a! loro destino le rovine che sono soltanto la parvenza naturale della nostalgia.
Cosi come scrisse Alfred Jarry: “solo rovinando le rovine si può ricominciare”.
(dalle note di copertina)
Yoko Ono Seconda Esposizione di Arte Sperimentale, Liegi, 1951. Fluxus nel Veneto, 1995.
Tra gli altri: B.Patterson, H.Martin, E.Harvey, F.Conz, R.Melchiori.Mantova, 1998.
Da sinistra: G.E.Simonetti, L.Bonotto, L.Tola, A.Oberto, C.GualcoFondazione dell’Istituto Patafiso Milanese, Milano, 3 marzo 1963.
R.Queneau, E.Baj, V.DagninoGenova, 1988.
Da sinistra: L.Bonotto, A.Kaprow, M.Corinaldi.Bassano del Grappa, 1995.
Da sinistra: D.Higgins, B.Patterson, A.Knowles.
Bassano 2000
In questo periodo in cui si sta approssimando il cambio del secolo e si sta aprendo un nuovo millennio si sente da più parti e in ambiti diversi il bisogno di fare una verifica delle esperienze trascorse e di tentare di immaginare quelle future.
E allora perché non farlo anche per quanto riguarda le passate stagioni dell’arte? Perché non lasciarci tentare da questa “moda” dei bilanci e fare il punto sulla situazione, magari restringendo il campo agli ultimi cinquant’anni? Con questo intento si è pensato di realizzare una mostra, o meglio ancora un insieme di eventi e di azioni diverse, in grado di documentare le attività di gruppi, movimenti e artisti che hanno operato in questi anni e che si svolgerà a Bassano del Grappa dal 17 giugno al 13 agosto del 2000.
Nella sua articolazione l’esposizione potrà in qualche maniera rappresentare l’evoluzione delle espressioni dell’arte dagli anni Cinquanta alla fine di questo secolo, come manifestazioni della cultura e della società che le hanno prodotte.
Ora non esistono più confini tra la pittura, la scultura, la fotografia in quanto l’arte ha ormai ceduto alle tecnologie, si è omologata al mondo dei media, ha accettato di essere “contaminata”, vive nella e della “mescolanza”, operando continui sconfinamenti nella letteratura, nei fumetti, nella moda, nella musica, nei video-clip, nel digitale.
Nuove sono le tecnologie, nuovi sono i materiali.
Qualche anno fa John Walker, noto critico musicale, ha pubblicato un saggio dal titolo “L’immagine pop”, in cui usava il termine “cross over” per significare “casi di contaminazione tra diverse arti, mezzi espressivi, generi, stili e sottoculture”.
Questa predisposizione dell’arte verso i fenomeni a essa prima estranei viene imputata soprattutto all’esperienza di rottura sviluppatasi negli ultimi cinquant’anni.
In effetti sappiamo che nella lettura del presente il passato viene sempre rimesso in gioco, ogni epoca deve fare i conti, volente o nolente, con quella che l’ha preceduta, per portarne avanti le scelte oppure per contestare e per mettere in discussione quei giudizi di valore già consolidati.
Le opere di molti artisti appaiono “contaminate” dall’immagine dei fumetti, del cinema, dei prodotti industriali, anche banali oggetti di consumo intesi come frammenti della realtà quotidiana o come prodotti imposti dalla pubblicità, elevati a essere temi della rappresentazione pittorica o plastica.
Ma, a sua volta, l’esperienza di certi movimenti artistici, la loro forza dissacratoria nei confronti del quotidiano, a volte il suo nichilismo non sarebbero stati concepiti se, fin dagli anni Cinquanta, non si fosse affermato quel tecnicismo identificato come “un processo chiarificatorio”.
Soprattutto in quel periodo si era riacceso di grande fervore il dibattito artistico tanto che in Europa, e in modo particolare in Italia, il bisogno di dimenticare l’autarchia culturale repressiva e mortificante accrebbe l’impulso e la speranza di grandi miglioramenti sia in campo politico che in campo sociale.
Questa ricerca di novità alimentò la nascita di numerose riviste, la formazione di gruppi di artisti e di movimenti di avanguardia che hanno portato alla manifestazione della crisi della rappresentazione.
Esprimere le proprie insoddisfazioni, testimoniare il malessere interiore, vissuto dalle nuove generazioni, manifestare la delusione e la sfiducia nella ragione e quindi la ricerca di un nuovo impulso vitale vuoi dire spingere la ricerca artistica verso la produzione di un’arte che inglobi altri fenomeni propri della moda e dell’industria.
Un nuovo linguaggio visivo, frutto dell’assimilazione di altri linguaggi? L’isolamento dell’oggetto quotidiano, spesso imposto per mezzo della pubblicità e della produzione, la sua decontestualizzazione e la successiva serializzazione non ha fatto che trasformarlo quasi in un idolo, un totem, un feticcio spersonalizzando quel mondo dominato dalle cose e dal profitto, un mondo del consumismo, in cui gli artisti si sentono in dovere di lanciare il loro grido d’allarme.
Queste strategie di rappresentazione possono rispondere al desiderio di fare tabula rasa, di giungere a un linguaggio essenziale per riportare l’arte al proprio contesto.
Quello che caratterizza questi ultimi anni è stato quindi l’aver provato “tutto e il contrario di tutto”, per cui si rende oltremodo difficile operare una panoramica di questo vasto orizzonte di linguaggi, di forme e di materiali.
Ora i mutamenti sono stati molto più ampi del passato e lo sviluppo dei diversi mezzi di espressione come i mass-media, i computer, le immagini tridimensionali, gli ologrammi, gli effetti cromatici, l’uso del laser, hanno dato spazio a chi ancora qualche anno fa parlava della morte dell’arte.
Certamente mentre una volta, lo “spirito del tempo” resisteva più a lungo oggi il suo raggio d’azione si diversifica e cambia più velocemente e sarà difficile in futuro definire chiaramente ciò che ha caratterizzato di sé quest’ultima metà del secolo che sta per finire.
L’impronta forse sarà data proprio dal “Cross over”, l’arte ha perso la sua sacralità e deve accettare il rischio di nuove soluzioni.
Nel futuro saranno i siti Internet che proporranno migliaia di immagini diffuse in modo sempre più capillare e fruibile dal pubblico? Si parlerà di medialismo dell’arte e di una fruibilità diffusa in un continuo alternarsi e confondersi di cinema, musica e tecnologie? L’unica cosa certa è che non ci saranno più limiti tra ciò che è arte e ciò che non lo è, tra i diversi linguaggi trasmessi con qualsiasi mezzo e strumento perché i confini sono già stati abbattuti e configurati.
Quello che il terzo millennio ci riserverà all’interno di questa babelica confusione di linguaggi sarà forse il silenzio?
Mario Guderzo
Tratto dal catalogo: “Sentieri Interrotti – Bassano 2000. Crisi della rappresentazione e iconoclastia nelle arti – Dagli anni Cinquanta alla fine del secolo”
A cura di Luigi Bonotto, Mario Guderzo, Roberto Melchiori, Tiziano Santi, Gianni Emilio Simonetti.
Testi di Enrico Baj, Mirella Bandini, Vittore Baroni, Martina Corgnati, Valerio Dehò, Gino di Maggio, Lorand Hegyi, Paolo Marinotti, Enrico Mascelloni, Ermanno Migliorini, Sandro Ricaldone, Carlo Romano, Luther Blissett, SPUR.
Edizioni Derive Approdi, Roma, 1999