di Mariateresa Zagone.
Perché una donna dev’essere una buona madre? E perché dev’essere bella e formosa o semplicemente proporzionata? Qual è ancora il motivo per il quale non può essere decadente o depravata? Fra le maggiori artiste italiane “militanti” che indagano l’identità femminile cercando di svincolarla dal condizionamento dell’immaginario maschile e che avviano una riflessione a partire dal proprio corpo c’è di sicuro Silvia Argiolas per la quale l’arte è campo di sperimentazione e di invenzione e, come tale, potenzialmente sovversiva. Parlare infatti di ciò che la donna vede e sente di sè e delle altre aiuta a porsi delle domande e spinge in direzione di un profondo cambiamento. Le protagoniste delle opere dell’artista sarda, comprese quelle in mostra presso la galleria romana Richter Fine Art, sono donne gioiosamente insane, libere di mostrarsi eticamente ed esteticamente, sensuali, imperfette e ferite.
[Mariateresa Zagone]: sembra che le tematiche sociali siano centrali nella tua pittura in cui il corpo femminile espressionisticamente deformato si accende di colori acidi su sfondi fluorescenti e che, tramite una narrazione sincopata, ha il coraggio di mostrarsi. Le tue sono donne “sbagliate”, imperfette, deboli o che oltrepassano il senso del grottesco e del pudico. Quali sono gli argomenti che più ti stanno a cuore dell’oggi e del nostro mondo occidentale tanto da permeare i soggetti delle tue opere?
[Silvia Argiolas]: la mia famiglia è fortemente cattolica. Inconsciamente sono andata sempre nella direzione opposta. Di conseguenza il senso di colpa (o la sua assenza totale) occupa una posizione fondamentale nelle mie opere: la relativa libertà, il fregarsene del giudizio e dare al corpo l’importanza relativa come mezzo del proprio godimento. Probabilmente anche la scelta di non essere madre non è stata per me un atto egoistico ma semplicemente una condizione naturale. Ecco, diciamo che mi stanno a cuore tutti quei diritti e quella libertà che la donna ha sulla carta ma che più o meno velatamente vengono negati nella prassi o fortemente condizionati dall’educazione, dalla dimensione sociale e collettiva.
Per la tua seconda personale romana presso la galleria Richter Fine Art, hai scelto il titolo di una poesia di Whitman: Song of Myself. A cosa è dovuto e qual è il tuo rapporto con la poesia in generale?
Ho sempre amato la poesia e Whitman in questo caso è stato un pretesto per sottolineare tutto quello che mi fa stare bene. Come ho scritto in altre interviste, da bambina volevo fare la poetessa e anche, logicamente, disegnare ma con il tempo l’amore per la poesia (come lettrice) è rimasto e credo che per rispetto di essa non ho più scritto.
Personalmente sento la Sardegna, al pari o forse più della mia Sicilia, come terra archetipica e radicale; isola, non solo geografica, nel mare magnum della cultura globalizzata. Qual è il rapporto con la tua terra?
La Sardegna è una terra bellissima con un bagaglio storico e culturale immenso che vive tutt’ora in numerose forme d’arte. Personalmente però mi è sempre stata un po’ stretta perché, proprio in quanto isola, non si presta allo scambio e si creano delle dinamiche di chiusura che non fanno parte del mio modo di pensare e di essere. Nonostante questo amo la mia isola, nel bene e nel male, come si può amare una madre.
Qual è, al contrario, il tuo rapporto con Milano, città nella quale hai scelto di vivere?
Milano è amore puro. La vita mi ha portato qua e ormai, in questi 15 anni che ci vivo, ho messo le mie radici e credo di poterla definire casa. Probabilmente mi piace perché è una terra di persone e comunità eterogenee che ben convivono tra loro; è anche un punto di partenza per viaggiare, cosa che amo tantissimo fare. Le persone poi badano alla propria vita, senza entrare forzatamente in quella degli altri. Una città dinamica che è diventata un pochino mia, posso dirlo. E qui si torna alla tematica della forte pressione esercitata da una comunità sull’individuo, soprattutto se donna.
La tua opera sembra muoversi nella dialettica Eros/Thanatos, ovvero rispettivamente la pulsione di vita e la pulsione di morte. Che rapporto hai con questi elementi?
Penso che siano il riassunto della vita stessa, l’ uno non esiste senza l’altro. In certi periodi della mia vita la pulsione di morte dentro di me è stata presente in maniera totalizzante; credo però che per sentire la vita (e non parlo di vivere- che equivale quasi al lasciarsi vivere passivamente- ma del desiderio di vita, di quello che ti prende dentro, di quella volontà descritta magistralmente da Nietzsche) sia necessario addentrarsi lungo le strade più complesse e profonde dell’esistenza.
Trovo il tuo linguaggio quasi barocco per la presenza sensuale del colore, per le campiture larghe e piene, gustose ed erotiche e trovo, al contempo, una personalissima rivisitazione dei linguaggi espressionisti soprattutto di area germanica e soprattutto femminili (in cui riferimento a Nietzsche è stato palese e perfino teorizzato). Le etichette, però, le definizioni non confortate dal filtro della storia, sono spesso sommarie. Pensi ci sia qualcosa di vero in tale mia lettura della tua opera?
“Gustose” ed “erotiche” mi piace molto, per il resto lascio ad ognuno la propria percezione del mio operato. Sicuramente non è un lavoro di gusto Italiano.
Quali fra gli artisti contemporanei consideri in qualche modo i tuoi maestri e quali, fra gli storicizzati?
I mie unici maestri sono stati Lalla Lussu e Gaetano Brindu, entrambi miei professori al liceo artistico di Cagliari. Apprezzo tantissimi artisti, soprattutto quelli che fanno arte e non vogliono essere inscatolati dentro un sistema macchinoso che obbliga a ripetere all’infinito se stessi. Tra gli storicizzati Gastone Novelli, Vettor Pisani, Marisa Merz, Enzo Cucchi e tanti altri.
L’eros è una delle forze insopprimibili e vitali del vivente e probabilmente, per questo, mistificato, compresso, vietato, commercializzato, indirizzato, controllato dal Potere (politico, economico, religioso) lungo l’intera storia umana. Che rapporto hai con l’eros, col tuo corpo e, in genere, col corpo femminile?
Il mio rapporto con l’eros è simile al rapporto col mio lavoro: lo ritengo essenzialmente un mezzo. Ogni tanto non riesco a viverci bene dentro ma credo che non sia essenziale non avendo velleità televisive.