di Anna Lisa Ghirardi
Conservatrice e curatrice della Civica Raccolta del Disegno di Salò
Estratto dal catalogo della mostra “La passeggiata della linea. 100 protagonisti del disegno contemporaneo“
Partendo da una suggestione di Paul Klee, che interpreta il disegno come l’arte di condurre una linea a fare una passeggiata, abbiamo immaginato una sorta di itinerario del punto, il quale genera una linea e progressivamente il disegno, in una visione insolita che include la concezione del disegno come movimento. All’origine il gesto.
La genesi di un disegno è dettata da plurime motivazioni: dall’intenzione di assecondare l’impulso al segno alla disposizione lenta di un progetto o alla creazione di una composizione che sta tra istinto e riflessione. Precisiamo che la dicitura di disegno contemporaneo va intesa in senso ampio. La collezione della Civica Raccolta include per lo più opere su carta, di diversa natura e provenienza, che spaziano da lavori percorsi da segni grafici, tracciati con materiali plurimi, quali grafite, pastelli, matite, ma anche acquerelli, chine, inchiostri, talvolta con interventi pittorici materici, che le avvicinano alla pittura, talaltra con tecniche miste e collage, anche nell’ambito della sperimentazione, sino all’assenza del segno, fagocitato per certi versi nel materiale, basti pensare alle opere in carta di Lino Gerosa (1948), Giorgio Tentolini (1978), Massimo Levati (1977), datate rispettivamente 1985, 2013 e 2022. Non stupisce che, nel panorama dell’arte contemporanea, le categorie rigide sul disegno non trovino riscontro.
In mostra presentiamo oltre cento opere di centodue artisti. La scelta non è certo stata facile. L’occasione è importante, dispiace che non la si possa festeggiare con l’intero patrimonio, ma sarebbe veramente impossibile: la Raccolta detiene ad oggi un corpus di più di 800 lavori. Importante è sottolineare il valore di una collezione civica come patrimonio collettivo da fruire, conservare, studiare ed incrementare.
Per questa occasione abbiamo creato un iter che percorre le sale del museo toccando vari linguaggi stilistici, plurime epoche (dal primo decennio del Novecento all’oggi), vicende storiche, molteplici esistenze.
Lo spettatore, accompagnato dall’insolita comparsa dei personaggi scultorei di Roberto Ciroli, è chiamato a stabilire un dialogo. L’opera d’arte visiva può essere intesa come una sorta di scrittura che attende un lettore. Il lettore più curioso proseguirà la propria passeggiata autonomamente, portando con sé suggestioni e rileggendo le carte oltre l’uscita del museo. La collocazione nelle sale delle opere non segue una scansione cronologica, ma una distribuzione più libera, per lasciare spazio a collegamenti ed associazioni. Sono esposti disegni figurativi -prevalentemente corpi umani e paesaggi-, diversificati per tecniche e stili, oltre a opere aniconiche, astratte, informali e concettuali. Nel percorso si inseriscono disegni preparatori legati alla progettazione scultorea, installativa e architettonica, come gli Studi per architetture cacogoniometriche del 1978 di Gianni Colombo (1937- 1993), la carta di Eduard Habicher (1956) del 1984 e il progetto per l’installazione Senza fine del 1997 di Clara Bonfiglio (1959). Sono presentati inoltre disegni che, nella ricerca artistica degli autori, si affiancano alla produzione scultorea, trasferendo le forme plastiche nella bidimensionalità. È il caso dell’opera di Regina (1884-1974), presumibilmente degli anni Cinquanta, anni in cui aderì al MAC, Movimento Arte Concreta, ma anche la bella carta di Fausto Melotti (1901-1986), senza data, o di quelle altrettanto rappresentative di Alik Cavaliere (1926-1998), del 1960, di Carlo Lorenzetti (1934), del 1963, di Piero Consagra (1920-2005), del 1977, e di Alberto Viani (1906-1989), del 1978. Degli anni Ottanta, rispettivamente 1981, 1982, 1983, sono il Trittico di Valentina Berardinone (1929), la quale attraverso la tecnica del frottage, in una sorta di furto di tracce, fa un lavoro sui simulacri, di lucreziana memoria, l’opera La mia casa di Paolo Icaro (1936), legata alle ricerche di forma, corpo e spazio, e quella, senza titolo, di Pietro Coletta (1948), che ben rappresenta la costruzione di una “scultura virtuale” e la determinazione di uno nuovo spazio. Il disegno di Grazia Varisco (1937) è senza titolo e data, ma è in linea con le sue ricerche dei primi anni Novanta, quali il ciclo Disarticolazioni, in cui lo spazio prende una forma inattesa.
Appartengono alla Collezione anche alcuni studi di costumi teatrali di Domenico Gnoli (1933-1970): si tratta di otto disegni ad inchiostro, realizzati nel 1952 circa, probabilmente nel camerino del regista Carlo Lodovici nel momento in cui venne proposto all’artista di collaborare nella messa in scena dell’opera Il borghese gentiluomo di Molière; progetto per il quale successivamente non ottenne il ruolo di costumista, ma vi partecipò nella veste di attore.
Ad accogliere il visitatore nelle sale del MuSa ci sono alcuni volti: dal presunto ritratto dell’industriale farmaceutico Zambeletti, opera del 1930 di Angelo Landi (1879-1944), di gusto ancora legato per certi versi al naturalismo di fine Ottocento, ma anche in sintonia con la saldezza delle forme del Ritorno all’Ordine, conferita invero dalla levità del pastello, all’immediatezza e freschezza del giovane viso in grafite di Filippo De Pisis (1896-1956), a quello tracciato da una sottile linea a inchiostro di Pino Pascali (1935-1968), giocoso e caricaturale, memore delle sue esperienze di spot pubblicitari e Caroselli, sino al sintetico e vibrante volto, realizzato nel 1985 da Ernesto Treccani (1920-2009), artista che fu tra i fondatori del gruppo Corrente4. Tra i volti tracciati emerge anche la tensione psicofisica, propria dell’opera di Piero Manai (1951-1988), e il dramma esistenziale, insanabile in Anton Zoran Mušic (1909-2005), il quale ha trasformato l’orrore della prigionia nei campi di concentramento in eterna tragedia universale, tanto che ne sono ancora testimoni le opere eseguite molti anni dopo l’eccidio, come Sterminio del 19955; in entrambi i disegni è la profondità del nero carboncino ad esprimere l’intensità del sentire. La tragedia è soggetto anche dell’opera Tartaruga di Graham Sutherland (1903-1980), uno dei più significativi pittori inglesi del Novecento.
Se l’idea del corpo umano come frammento è evidente in plurime opere esposte, il volto di Corrado Cagli (1910-1976), datato 1962, contiene invece nella sintesi l’intero corpo maschile, esso infatti è contemporaneamente essenza e percorso, tanto che il disegno a china è una vera e propria passeggiata della linea. Nella dimensione dell’esplorazione del corpo si muovono molte opere, tra eros e dramma. Il corpo femminile, sovente fusione di seduzione e malinconia, è soggetto delle opere di Luigi Broggini (1908-1983), di cui sorprende la forza espansiva del colore rosso dell’opera del 1932, del disegno del 1940 di Orfeo Tamburi (1910-1994), della Prostituta del 1951 di Remo Pasetto (1925-2019), del Nudo femminile di Ennio Morlotti (1910-1992) e di quello di Giacomo Manzù (1908-1991), senza data, nonché nel Nudo sdraiato di Renato Guttuso (1911-1987), artista che si è misurato molteplici volte su tale tema, giungendo, come vediamo nel disegno del 1960, alla capacità di cogliere il corpo con il tratto minimo di una linea sottile. Il corpo, del resto, è spesso pretesto per inseguire la linea, tracciare segni e forme. Non è forse un caso che il retro dell’opera di Pasetto riveli pennellate libere informali.
A tal proposito, anche Morlotti, aderendo prima a Corrente poi al Fronte Nuovo delle Arti e al Gruppo degli Otto, e pur restando nell’ambito della figurazione, legata al concetto di fusione panica con la natura, giunse negli anni Cinquanta all’incontro con l’arte informale; aspetto che appare evidente nell’esplosione cromatica e nella forza segnica di Nudo femminile. Egli stesso affermò: “potrei essere definito informale se si tiene conto della coincidenza che esso stabilì in pittura con il valore dell’istinto. (…) Volevo involgermi nella natura, più che mettermi a guardarla e a dipingerla dal di fuori (…). Affondavo nella materia per raggiungere una chiarezza di linguaggio”. Nell’idea di un percorso fisico e mentale che ognuno di noi può fare, sulla suggestione dell’arte informale qui scaturita, possiamo cercare tra le sale altri protagonisti della pittura degli anni Cinquanta e Sessanta, tesa tra astrazione, linguaggio informale, nonché arte concettuale.
Prima di giungervi, riceviamo altri stimoli visivi, procedendo attraverso un tempo fluido.
Recentemente è entrata nella Collezione una carta di un artista non noto al largo pubblico, ma dalla vita estremamente intrigante: si tratta di Giandante X (1899 – 1984). L’opera non è datata, e nonostante la si possa collocare in un periodo più tardo, le parole a lui dedicate da Mario Sironi nel 1928, riferite invero al lavoro scultoreo, l’accompagnano perfettamente: “(…) nella sua plastica abbiamo ritrovato il suo gusto decorativo a larghe masse e vaste semplicità di piani. È un decorativismo ieratico e arcaizzante di gusto guerriero e contemplativo”. L’approfondimento del suo lavoro richiederebbe più spazio, inseguendo le tracce di una vita rocambolesca.
Nell’ambito della crisi del movimento realista italiano va collocata la produzione degli anni Cinquanta di Franco Francese (1920-1996), in cui il simbolo bestiale è metafora dei turbamenti interiori e la nudità riporta ad una dimensione primordiale e primitiva, come è ben evidente nell’opera presentata del 1958.
La Civica Raccolta conserva ben tre carte di Osvaldo Licini (1894-1958): un paesaggio degli anni Venti, legato ai suoi soggiorni parigini, e due disegni con il tema dell’angelo ribelle cacciato dal paradiso, soggetto presente nella pittura liciniana dal 1941 al 1956. L’angelo ribelle è per l’artista la rappresentazione di uno stato interiore, della volontà dell’uomo di non accettare i propri limiti, figura in bilico tra inferno e paradiso.
Di pochi anni dopo, del 1961, è l’opera di Tancredi Parmeggiani (1927-1964), appartenente al ciclo dei Matti, un percorso di figurazione allucinata, frutto della schizofrenia da cui fu affetto e che lo portò al suicidio. Degli anni Sessanta, precisamente 1962, è anche l’opera di Bepi Romagnoni (1930-1964): Undici studi di nudo, le cui immagini frammentarie, scomposte in disarticolate pose, smarriscono la carica erotica a favore del tormento. Di qualche anno prima, del 1955, è un suo paesaggio urbano in cui la stesura a pennello della china esprime lo stato d’animo sofferto. Romagnoni è stato infatti uno dei protagonisti del Realismo Esistenziale, gruppo formatosi dagli ex alunni di Aldo Carpi presso l’Accademia di Belle Arti di Brera\, tra cui Guerreschi, Banchieri, Vaglieri, Ceretti, e al quale si avvicinò anche Ferroni. In Collezione è conservata una piccola carta, senza data, di Aldo Carpi (1886-1973): Isola, (in occasione della mostra si è rivelato un disegno preparatorio sul retro dell’opera), alcune opere di Mino Ceretti (1933), di cui si espone un pastello del 1962, un paesaggio a china di Gianfranco Ferroni (1927-2001) del 1966 e un disegno di Tino Vaglieri (1929-2000) del 1959, nel quale l’artista sta già tracciando i primi passi verso l’informale.
Testimone del medesimo periodo, con una poetica lontana dal gruppo suddetto, è anche il décollage di Mimmo Rotella (1918-2006), realizzato nel 1960. L’artista, a partire dagli anni Cinquanta, ha iniziato a creare opere strappando manifesti pubblicitari, vero e proprio prelievo di un oggetto pop.
Tornando al tema del nudo, compare anche tra le macchie di colore stese sulla carta, datata 1974, di Natale Addamiano (1943), appartenente al ciclo Diario notturno, una sorta di diario esistenziale, realizzato nei suoi primi anni milanesi; anni in cui frequenta, tra i tanti artisti, altri due altri protagonisti di questa esposizione: Enrico Della Torre e Attilio Forgioli. Enrico Della Torre (1931-2022) presenzia in Collezione con una piccola carta del 1961: Tralicci, un paesaggio urbano metafora della difficile condizione umana. L’opera di Attilio Forgioli (1933) non potrebbe mancare nel quarantennale della Civica Raccolta del Disegno di Salò: egli, salodiano di nascita e milanese di adozione, infatti le ha dato vita nel 1983, con l’allora Assessore alla Cultura Pino Mongiello e il critico Flaminio Gualdoni, e da quel momento è membro del Comitato direttivo. In mostra è esposta una grande carta intelata del 1977, raffigurante un paio di Jeans, oggetto cult, rappresentato al centro della composizione e tracciato con la matita e il pastello in forme non ben definite, cifra stilistica riconoscibile del suo linguaggio, quasi a rappresentare la precarietà e la solitudine dell’esistenza. Sempre legata al tema del corpo è la grande carta, datata 1983, di Maurizio Bottarelli (1943); il nudo è soggetto ricorrente nelle sue opere, come le teste e i paesaggi, pretesti per esplorare la necessità della pittura.
In mostra sono presentati anche disegni di alcuni esponenti della Nuova figurazione italiana: Agostino Arrivabene (1967), Livio Scarpella (1969), Fulvio Di Piazza (1969) e Nicola Samorì (1977). Dei primi artisti abbiamo due studi: di Arrivabene, prezioso custode delle tecniche pittoriche della grande pittura, uno Studio per il secondo martirio di San Sebastiano del 2011, unica opera in mostra a soggetto religioso, di Scarpella un grande studio preparatorio a matita, realizzato nel 1995, del dipinto Nudo sulla sedia rossa, in cui è evidente il riferimento ai pittori del Novecento Italiano. Di Fulvio Di Piazza è conservata in Collezione una carta del 2010 con raffigurata un’immagine fitomorfica, tracciata con destrezza a pennarello. Di Samorì, conoscitore della grande arte del passato, si presenta un grande volto realizzato nel 2007. Tutti e quattro gli artisti testimoniano come la tradizione tecnica e la rappresentazione figurativa non si siano perse nell’epoca contemporanea, pur nelle varie declinazioni rappresentative, tese tra il plasticismo di Scarpella, affermato scultore, i procedimenti alchemici e simbolici di Arrivabene, le metamorfosi di Di Piazza e la ricerca decostruttiva dell’immagine di Samorì.
In mostra il tema del paesaggio permette di accogliere in una grande sala alcune opere che tracciano invero, ancora una volta, percorsi tangenti e divergenti in un ampio percorso cronologico (ben cento anni). Partiamo dall’evocativo paesaggio di Licini, tracciato con un tratto corsivo a grafite nel 1922 con l’intenzione di immortalare un angolo della Ville lumière, attraversiamo scorci paesaggistici naturalistici colti in immagini veloci, sorta di appunti, da Aldo Carpi (1886-1973), senza tralasciare in questo viaggio la comparsa di simboli della modernità, come l’emblematica locomotiva dipinta da Mario Sironi (1885-1961) nel 1930 o i Tralicci, del 1961, innalzati da Enrico Della Torre, giungendo ai paesaggio urbani degli anni Cinquanta di Sironi e di Romagnoni. Il paesaggio, in particolare quello marino, è stato protagonista nella pittura di Piero Guccione (1935-2018). Si ha un suo disegno a matita, realizzato su un foglio di un grande block notes a Parigi nel 1976, anno in cui l’artista espose nella capitale francese per la prima volta alla Galerie Claude Bernard. Il riferimento allo specchio, palesato nel titolo, Specchio e mimosa, rimanda all’idea dei riflessi che egli aveva già colto nel ciclo Città riflesse, nato nel 1968, in cui raffigurava pitture di paesaggio riflesse su carrozzerie d’auto. I paesaggi ci permettono di trasferirci virtualmente in altri luoghi: da Parigi ci spostiamo ad Olimpia, grazie al prelievo di un reperto fittile inserito nell’opera, realizzata nel 1978, dalla pittrice e scultrice Nedda Guidi (1927-2005), e intraprendiamo inoltre un viaggio evocativo in Oriente nella carta Chiara luna. Le spose, le vedove dell’Oriente, del 1991, di Piero Pizzi Cannella (1955). Con l’opera di Mario Schifano (1934-1998), i cui paesaggi sono pure sintesi cromatiche, memori della sua esperienza informale e debitori dei tagli fotografici Polaroid, possiamo aprire piccoli spiragli verso l’orizzonte. Si proietta invece una prospettiva a volo d’uccello per l’osservatore che percorre Ombre fugaci di Giulia Napoleone (1936), carta realizzata nel 1991, conducendolo dal generale al dettaglio, tanto che ci si avvicina all’opera attratti dal minuto segno a china. Sempre dall’alto si osserva il Paesaggio montuoso, realizzato nel 2009 da Tullio Pericoli (1936); il paesaggio è un soggetto al quale l’artista si è dedicato molteplici volte nel corso del tempo, con particolare attenzione ai luoghi della sua terra, tra dimensione naturalistica e astratta, da intendersi quest’ultima come percezione interiore dello spazio. Il paesaggio diviene ampio spazio di respiro nelle irlandesi scogliere di cenere di Andrea Mariconti (1978), opera del 2007. Nell’ambito della fabula ci conducono i disegni fluidi, lirici e delicati di Pirro Cuniberti (1923-2016). Il suo è un racconto accennato da sintetiche parole, quali sorta di titoli accompagnati da visioni di figure che fanno entrare con libertà lo spettatore nella narrazione. La biografia di Cuniberti si intreccia con quella di Concetto Pozzati (1935-2017), i cui Impossibili paesaggi, ciclo nato già nel 1979, sono dedicati a Osvaldo Licini. Pozzati affermava: “È un paesaggio “impossibile”, perché oggi è considerato anacronistico usare il mezzo pittorico. La cosiddetta avanguardia non ha voluto affrontare la sfida con il pennello…in questo caso il paesaggio non è dipinto, ma la pittura stessa si fa paesaggio. Si può dipingere un paesaggio solo sentendolo e non vedendolo. (…)”.
Altro fil rouge, che collega più opere, è il legame tra immagine e parola. Ciò è evidente nell’opera di molti artisti, tra cui quella di Giorgio Bertelli (1957), artista ed editore. Nell’opera esposta, realizzata nel 1995 su carta da lettera e appartenente alla serie Piccola suite per Malcolm Lowry, è evidente come la scrittura -trascrizione della rilettura di Attilio Lolini dello scrittore britannico- dialoghi con l’immagine in una sorta di danza visiva. Il bagliore corre nel paesaggio quanto sulle parole, mosse dal vento, dal suono, avvolgendole ne “l’urlo del mare e del buio”.
È giunta in Collezione, per mano di Giorgio Bertelli, anche la carta, che trasuda la tragedia, di Marco Jaccond (1957), datata nel 1999 e realizzata per il libro L’amore al primo binocolo, in cui “Gli assedi bruciano biblioteche e gli assediati bruciano libri per scaldarsi. Però salvano un foglio per scriverci un verso e da lì ripartono le lingue, le lettere e la posta senza affrancatura che fa arrivare una poesia di Mostar tra le mani di sconosciuti all’estero (…)”.
Tra le ultime opere entrate nella Raccolta, dal 2020 al 2022, troviamo alcune carte in cui il riferimento alla natura è ambiguo: nella carta Altre nature del 1994 di Antonella Gandini (1958) le forme assumono definizione attraverso la cancellazione della matita stesa su carta lucida, in una visione surreale che nella metamorfosi cela la sua poetica, nell’opera di Marco Mirzan (1947), del 2020, carte pressate e dipinte danno vita a Geometrie della vita / Forme della natura, nell’opera di Antonio Mottolese (1945), del 2021, l’inchiostro di china crea forme impreviste e astratte, evocanti rarefatte immagini naturali.
Restando nell’ambito del sottile confine tra figurazione e astrazione, andiamo a ritroso nel tempo con l’opera Riflessi sull’acqua di Romolo Romani (1884-1916), realizzata nel 1908. La data è emblematica, perché da lì a poco si sarebbe affermato il Futurismo, movimento a cui l’artista si era avvicinato, tanto che il suo nome compare nel primo Manifesto dei Pittori futuristi, letto al Politeama Chiarella di Torino l’8 marzo 1910. Nonostante l’artista, per motivi non noti, si allontani quasi subito dal gruppo, tanto che la sua firma non compare nel manifesto pubblicato successivamente, la poetica di alcune sue opere ne è collegata. Ciò è evidente ad esempio nell’indagine dei rapporti tra musica e disegno, suggestionati anche dalle teorie scientifiche sulla propagazione delle onde nei liquidi e nell’aria.
L’artista, inoltre, è considerato uno dei precursori dell’astrazione pittorica, in cui non è sempre evidente quanto il laccio con il dato reale sia tagliato, segnando un germe di sviluppo dell’astrazione italiana ben molto prima degli anni in cui ebbe effettivamente sviluppo. A tal proposito, nel nostro percorso visivo non mancano nemmeno alcuni importanti nomi dell’astrattismo italiano. Si presenta una natura morta del 1940 di Atanasio Soldati (1896-1953), in cui figurazione e geometrie astratte si incontrano. Nel 1932 Carlo Carrà, in una recensione di una mostra di Soldati alla Galleria del Milione, scriveva: “un primitivismo immaginoso (…) dove la realtà – case, monti, cieli ed acque – si presenta in impostazioni astratte, ma non arbitrarie”. Di Renato Birolli (1905-1959), definito da Lionello Venturi astratto – concreto, si possiede una piccola ma rappresentativa carta sul cui retro è riportato uno stralcio di testo di Richard Hughes. Di Fausto Melotti (1901-1986), protagonista dell’astrazione italiana, si ha un disegno emblematico, immediatamente collegabile alla sua ricerca scultorea.
Di Lucio Fontana (1899- 1968) si possiede uno Studio per pietre del 1956, appartenente al ciclo delle Pietre (1952-56) e legato alla serie dei Concetti spaziali. Egli chiamava pietre i frammenti di pasta di vetro che apponeva sulla tela delle opere percorse da costellazioni di buchi, creando un’ulteriore dimensione spaziale e nuove vie di immaginazione. Si ha anche un disegno del 1963 di Arturo Bonfanti (1905-1978), il quale fin dal 1947 ha aderito all’astrazione geometrica. Sono inoltre esposte due carte, del 1962 e del 1971, di Piero Dorazio (1927-2005), due disegni degli anni Settanta di Antonio Sanfilippo (1923-1980), una carta di Pietro Consagra (1920-2005), del 1977, e un disegno più tardo, del 1984, di Carla Accardi (1924-2014). Datata 1975 è la carta di Armando Tomasi (1940-2015), proprio in quegli anni l’artista aveva iniziato a collaborare con Arte Struktura, realtà nata a Milano nei primi anni Settanta attorno alla figura di Anna Canali, ed era entrato in contatto con le tendenze astratto geometriche. Del 1979 è il disegno di Vittorio Matino (1943-1922), il quale, da una iniziale pittura espressionista a tema sociale, passa, a partire dagli anni Settanta, all’astrattismo. Nell’ambito della ricerca non oggettuale troviamo anche l’opera di Mario Nigro (1917-1992), di lui abbiamo una carta del 1982 rappresentativa della sue ricerche sulla linea, iniziate nella seconda metà degli anni Settanta. Una linea colorata attraversa la superficie, contrapponendosi alla monocromia del fondo; la linea è un’espressione ritmica e cromatica che egli definì “metafisica del colore”. L’essenzialità dell’arte è posta da Nigro in relazione a quella della vita e dell’amore. Tra i protagonisti dell’arte non figurativa italiana troviamo anche Mario Raciti (1934), considerato un simbolista astratto e definito anche lirico astrattista. Conserviamo una sua carta del 1993, realizzata su carta da pacco, in cui lo spazio pittorico, percorso da segni e libere macchie, è un luogo dove indagare il profondo, l’interiorità.
In mostra non mancano opere testimoni del linguaggio informale: un disegno di Emilio Scanavino (1922-1986), datato 1959, medesima data del lavoro presentato di Franco Meneguzzo (1924-2008), una carta di Afro 912-1976) del 1966, una di Gino Meloni (1905-1989), e un’altra di Pompilio Mandelli (1912-2006), datata 1951, inoltre non passa certo inosservata la bella carta di Emilio Vedova (1919-2006), del 1961. Di Vasco Bendini (1922-2015), che negli anni Cinquanta era stato un esponente rappresentativo della stagione informale bolognese, la Civica Raccolta possiede più opere, le quali oscillano dalla figurazione alla suggestione di immagini evanescenti. In mostra si presenta invero una carta del 1993, appartenente alla serie I miei luoghi, paesaggi interiori in cui la macchie di colore generano la figurazione naturalistica.
Significativa è anche la presenza di una carta di Giuseppe Capogrossi (1900- 1972), datata 1954, emblematica del suo personale e rigoroso astrattismo, caratterizzato da un ideogramma iterato in infinite soluzioni.
La forza della materia e del segno sono inoltre al centro della ricerca di due artisti di generazioni diverse, entrambi legati anche al linguaggio scultoreo: Giuseppe Spagnulo (1936-2016) e Nunzio (1954), il primo è presente con una carta del 1983, il secondo con una rappresentativa opera del 1991.
Il lavoro di Arcangelo (1956) unisce la ricerca materica e coloristica di matrice espressionistica ad una visione lirica, fortemente ancorata alle origini. Si presenta un disegno del 1990 dal titolo dai lobi, come scritto nella parte alta del foglio. Fa parte di un ciclo dedicato all’etnia africana, realizzato dopo un viaggio in Mali, esperienza che determina un’evoluzione nel suo stile, attraverso il potenziamento del binomio materia-colore.
Tornando al legame tra parola e immagine non possiamo tralasciare l’opera di Emilio Tadini (1927-2002), scrittore e pittore. In lui c’è la consapevolezza dell’importanza della continuità, in una cooperazione tra memoria e invenzione. Umberto Eco scrisse che la sua pittura è citazionista ed egli è capace di dipingere pittura e dipingere letteratura. Letteratura e figurazione si fondono anche nell’opera di Giosetta Fioroni (1932), di cui la Civica possiede due carte degli anni Novanta (nel 1993 partecipa per la terza volta alla Biennale di Venezia). L’intellettualismo dell’artista lascia spazio anche al linguaggio della leggerezza e del mondo dell’infanzia, mettendoci in rapporto con le cose che ci circondano e introducendoci, in un modo quasi fiabesco, al senso dell’esistenza. Il tema del linguaggio è presente anche nella poetica di Alighiero Boetti (1940-1994), uno dei più importanti esponenti prima dell’Arte Povera e successivamente dell’Arte Concettuale. In mostra sono esposte entrambe le opere in Collezione: una grande carta intelata, del 1987, realizzata con scritte che vanno in direzioni diverse e con pantere stampigliate (alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta creature del mondo animale popolano alcune sue carte in combinazioni infinite) e una carta, non datata, ascrivibile alla serie Mano aperta pugno chiuso e riconducibile alla fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. L’opera in Raccolta di GAC, Guglielmo Achille Cavellini (1914-1990), va inserita nella vasta produzione di progetti di francobolli, nata nella seconda metà degli anni Sessanta e nel clima di mitizzazione dell’artista, come evidenzia la data riportata: 1914-2014, sigla che accompagna dal 1971 gran parte delle sue opere. La silhouette dell’Italia, ripetuta nel suo repertorio iconografico, è un simbolo ambivalente: da un lato emblema della nazione, dall’altro aspirazione all’internazionalità. Del resto GAC esterna amore e ostilità per la sua terra, spesso ristretta e poco riconoscente verso il suo ruolo artistico.
Nell’opera di Claudio Parmiggiani (1943) una scritta nera con lettere trasferibili No reproduction (Nessuna riproduzione) è l’unico elemento grafico su una carta bianca. La frase ribadisce l’atteggiamento iconoclastico che sottende tutta la sua opera. Anche l’assenza, componente centrale della sua poetica, si fa presenza. Egli scrive: “Nel bianco qualcosa dal nulla”, “Il bianco il colore e la voce del silenzio”, “(…) Il silenzio è per me materiale per l’opera, una materia. Il silenzio è una forma di eloquenza. Un’opera non vive in silenzio ma ha dentro il suo silenzio”. È esposta anche una carta emblematica della serie Alfabeto della mente di Dadamaino (1930-2004), del 1981. L’origine del ciclo, che prevede la ripetizione modulare di un solo segno a inchiostro, è ricordata dall’artista e messa in relazione al genocidio del villaggio palestinese di Tall El Zaatar nel 1976. Ella afferma: “Le lettere mute che gridano tutte le storie possibili/ L’unica condizione/ è quella di ripetere un segno/ fino a riempire tutto lo spazio che mi sono proposta di utilizzare…”. L’Alfabeto della mente, di cui inventa sedici lettere, diventa il linguaggio con cui esprime il pensiero quotidiano che non si trasforma in scrittura, perché arrestato ancor prima di diventare parola. L’artista è capace di riempire lo spazio della superficie cartacea per ore ed ore, senza interrompersi, tracciando a mano con penna a stilo ogni carta con una lettera diversa, lasciando che il segno trascriva ogni imprecisione del tracciato e le variazioni della quantità di inchiostro che fluisce.
Nell’ambito delle ricerche legate all’analisi degli elementi costitutivi e delle procedure dei linguaggi visivi, in particolare del mezzo pittorico, presenzia anche l’artista Antonio Scaccabarozzi (1936-2008). Nella sua Prevalenza del 1976 il segno è costituito dal punto, esplorato attraverso vari linguaggi e prospettive. Il segno-punto, isolato nel campo, è materia prima, elementare. La sua forma, la sua dimensione e il suo colore sono in relazione a quelle degli altri punti. Uno schema definisce la loro disposizione, lo spazio-distanza, le grandezze, i colori e la ripetizione è sovvertita dalla differenza. La relazione tra i punti genera una tensione e ogni spettatore avverte un diverso effetto di prevalenza. Il movimento genera una percezione mutevole, tanto che chi osserva è istintivamente propenso ad avvicinarsi e allontanarsi dall’opera, in un dialogo che crea variazioni. Addentrandoci nell’ambito dell’indagine del fare pittorico, nei meccanismi interni all’atto del dipingere e nella relazione tra gli elementi fondanti: superficie, supporto, colore, segno, incontriamo alcuni esponenti della Pittura analitica, tra cui Claudio Olivieri (1934- 2019), Claudio Verna (1937) e Gianfranco Zappettini (1939). Di quest’ultimo si presenta una carta del 1974, data significativa in quanto la definizione di Pittura analitica venne data, dal critico tedesco Klaus Honnef, proprio in quell’anno. Negli anni Settanta aveva esposto nelle mostre di Pittura analitica anche Valentino Vago (1931-2018), pur sentendosi un pittore indipendente. Di lui si presenta una carta del 1983 in cui è evidente la sua ricerca incentrata a cancellare il mondo visibile per arrivare all’Invisibile, alla pura luce. Tangenti all’arte cinetica e alla pittura analitica sono la ricerche compiute, a partire dagli anni Sessanta, da Jorrit Tornquist (1938), uno dei massimi esperti del colore. I suoi studi scientifici sono incentrati sul colore, sugli accostamenti e sulla capacità della luce di modificare la superficie e sugli effetti psicologici che ne scaturiscono. Nell’opera Composition, realizzata nel 1993, manifesta è anche l’eredità dell’arte astratta-geometrica, sempre riletta in chiave personale, tanto che la matericità della superficie, realizzata in cartapesta, potenzia gli effetti luce e ombra.
Un discorso su luce ed ombra ci conduce anche alla Photo-Graffia di Vincenzo Agnetti, datata 1980 ed appartenente alla serie realizzata dal 1979 al 1981. Si tratta di carta fotografica esposta alla luce, trattata e graffiata al fine di ottenere un’immagine figurativa. Dal nero della pagina si estrae l’immagine, agendo attraverso il potere del disegno. La linea è quindi traccia di un percorso poetico che si contrappone al silenzio.
L’opera di Maurizio Donzelli (1958), una piccola carta del 1994, con raffigurati alcuni sgabelli fluttuanti su una superficie di macchie pittoriche, è rappresentativa del suo lavoro come instancabile disegnatore, che ha fatto del disegno un leitmotiv della sua ricca produzione, dalla carta ai video-disegni, passando attraverso le installazioni. Altro artista bresciano in mostra, nato tra l’altro nel medesimo anno, è Albano Morandi (1958). Di lui si presenta un lavoro del 1995, Presenza dell’assenza come teatro dell’evidenza, appartenete al ciclo Messa in evidenza, tassello fondamentale della ricerca dell’artista, in una poetica legata al suo amore per il teatro e in particolare per Beckett. Nell’opera esposta è evidente il confronto con l’arte analitica e concettuale, tanto che Morandi si concentra sull’analisi del linguaggio pittorico come luogo di ricerca. Ha lavorato infatti sull’indagine della superficie della carta di riso, evidenziando alcuni aspetti della texture segnica cartacea, traducendo parte dello sfondo in immagine e trasferendo la pittura fluida dell’acquerello allo sfondo. Il suo apporto alla Civica Raccolta non si limita alla presenza di alcune sue opere in Collezione, egli infatti, in qualità di funzionario, ha avuto un ruolo importante per l’istituzione, contribuendo all’attività culturale e all’arricchimento del patrimonio artistico della stessa (si rimanda al testo in catalogo di Pino Mongiello).
Come si evince, la storia della nostra Raccolta è stata creata da coloro che l’hanno fondata, dalle opere e gli artisti che la animano, dai benefattori che la sostengono, dagli specialisti che si sono dedicati e si dedicano e da tutti coloro, che a vario titolo, hanno fatto sì che si costruisse e consolidasse questo ricco patrimonio in divenire.
Attraverso l’excursus proposto in questa esposizione, che non possiede evidentemente né un punto di inizio né un traguardo, quanto piuttosto fili di collegamento che tessono una passeggiata aracnea, consapevoli della mancanza di tante altre significative presenze che attendono nei depositi future esposizioni, e confidando in una prossima pubblicazione generale della Collezione, speriamo di aver offerto al pubblico stimoli e spunti di riflessione, certi che il compito dell’arte non è di rivelare certezze, ma di stimolare quesiti.
Anna Lisa Ghirardi
Estratto dal catalogo della mostra “La passeggiata della linea. 100 protagonisti del disegno contemporaneo“
a cura di Anna Lisa Ghirardi, Lisa Cervigni e Federica Bolpagni
27 maggio 2023-7 gennaio 2024
MuSa Museo di Salò
Via Brunati, 9, 25087 Salò, Brescia
Tutte le immagini © Rispettivi Autori by SIAE, MuSa Museo di Salò
Immagine in evidenza: Pompilio Mandelli Paesaggio,1951, matita e tempera su carta (part.)