
“Tutto ciò che amo, penso e provo mi spinge verso una filosofia particolare dell’immanente, secondo la quale la surrealtà sarebbe contenuta nella stessa realtà e non le sarebbe né superiore né esterna.”
André Breton
“Il mistero non è una tra le possibilità del reale.
Il mistero è ciò che è necessario perché esista un reale.”
Renè Magritte
Nel lavoro di Dirk e Mark Löbbert s’intrecciano e convivono varie eredità del Novecento, con la consapevolezza contemporanea che l’arte debba uscire dai luoghi istituzionali e vivere assieme alle persone ogni giorno. La prima è essenzialmente un concetto di bellezza come sorpresa, diversità, paciere dell’eccezionale, dell’inconsueto. Probabilmente le origini di tutto questo sono sempre da riferirsi da riferirsi all’estetismo ottocentesco, ma soprattutto ai “Canti di Maldoror” del Conte Lautréamont, al secolo Isidore Ducasse. La famosa frase del sesto canto, “bello come l’incontro casuale di una macchina per cucire e un ombrello su di un tavolo anatomico” è stata adottata da Breton, Man Ray, Max Ernst come esempio definizione di bellezza per i surrealisti e come esempio di spostamento di senso (dislocation). Ma il concetto è ripreso più volte in varie versioni anche in chiave decisamente più “razionale” e certamente meno inconscia. Per esempio allo stesso ordine d’idee appartiene l’effetto di alienazione di cui parla Bertold Brecht attorno agli anni ‘30 e ‘40, ed è figlio di una filosofia dell’arte in cui uno spiazzamento, uno scarto rispetto alla normalità è l’unico modo di far riflettere il pubblico attorno ad un concetto. Si tratta di comunicare qualcosa al di là della sfera puramente emotiva che resta fondamentale per stabilire il contatto con l’artista e l’opera. L’opera d’arte, visiva, teatrale, letteraria, deve contenere degli elementi che indirizzano lo spettatore verso una riflessione. Questa viene indotta dal piacere estetico, da qualcosa che cattura l’attenzione in modo positivo.
Ma anche lo straniamento dei formalisti russi appartiene alla stessa lettura critica dell’opera d’arte come produzione di qualcosa di nuovo e di bello, anche se questa parola fa sempre un pò paura usarla, e principale causa dell’effetto estetico. Ma di questa eredità, brevemente ricordata, i Löbbert riprendono concettualmente un tipo di costruzione artistica, legata al linguaggio, che è il calambour o gioco di parole. Il calambour si fonda su di un contesto che viene appositamente costruito o trovato già formato, nel quale due o più parole compaiono simultaneamente in due significati diversi. In questo modo una sola frase esprime nello stesso tempo, due concetti diversi, l’uno più o meno banale ed evidente, l’altro più intelligente e nuovo o più in generale pregevole per qualche determinato motivo. Quello che accade in questa tecnica espressiva è che un elemento dapprima del tutto privo di rilievo e importanza, viene ad acquistare in un contesto particolare, un valore determinante. Ciò viene reso possibile dalla polisemicità delle cose, e dalla loro asimmetria.
Quello che da una parte è poco significante, apre la strada e prepara in certe condizioni, a qualcosa di più complesso e davvero importante.
Un lampione stradale è solo un sistema d’illuminazione urbano. Si discute spesso nelle opere di arredo urbano perché la forma e la grandezza dei lampioni possono modificare la percezione delle strade e delle città. I Löbbert in una zona pedonale realizzano un’installazione con un gruppo di lampioni uno diverso dall’altro. Si può fare illuminazione in molti modi, questo è estremamente ironico e in un certo senso rende inutile la scelta: se è difficile sceglierne uno, tanto vale sceglierli tutti. Questo lavoro è anche un suggerimento a tutti gli amministratori delle città, una strada per non sbagliare mai: è sufficiente non scegliere. Invece dal punto di vista estetico la scelta è radicale, ma parte dal dato banale di una forma comune d’illuminazione.
Una fila ordinata di panchine è fin troppo prevedibile, ma gli artisti sanno creare il calambour spostandone una sotto il più vicino lampione stradale. L’effetto non è quello di un intervento esterno, ma è quasi come se la panchina si fosse spostata da sola per andare un pò vicino alla luce, dove certamente si sta meglio che al buio. Ma potrebbe anche essere che qualche cittadino, magari dotato di una forza fisica non comune, avesse deciso di mettersi a leggere un libro o di baciare la fidanzata sotto il lampione: per questo l’ha spostata. Noi non sappiamo cosa è avvenuto. La macchina visiva, leggera e ironica, dei Löbbert crea uno spostamento di senso, un piccolo paradosso che ci fa guardare in modo diverso, piacevole, una realtà che è talmente quotidiana che diventa giorno per giorno invisibile.
E ancora. Negli uffici e negli spazi pubblici, la moquette al pavimento delimitata degli spazi, stabilisce delle gerarchie, individua dei percorsi. Uscendo da una serie di ascensori una moquette circolare crea un’area particolare quanto delimitata. Incredibilmente prosegue e si completa dentro gli stessi ascensori, il cerchio si chiude sempre e viene lasciata al visitatore la decisione di dove porsi. In questo caso il nonsenso è proprio quello per cui lo spettatore cerca di capire il motivo di questa differenza, cerca delle ragioni che giustifichino questa stranezza o anomalia.
Si comprende che una ragione ci deve essere, ma quale sia è tutto, certamente fuori della normalità delle cose. Cosa contiene la moquette e cosa vuole escludere? A queste domande fondamentali della vita si spera sempre di non rispondere. Ma l’arte è tale perché sa porre problemi generali anche a partire da ciò che di più semplice esiste. Scopriamo che tutto il territorio artificiale creato dall’uomo è pieno di queste domande, di queste esclusioni e di luoghi che vengono definiti in modo non esplicito, ma per convenzione sociale o per abitudine.
Un grande tappeto rosso da importanza all’ambiente, fa capire che ci si trova in un luogo importante o che stiamo andando in un luogo privilegiato, forse di prestigio. E se scopriamo che non è così oppure se osserviamo che questo tappeto non conduce a nulla? E se vediamo che è inserito in un contesto industriale in cui non dovrebbe significare nulla? Ancora una volta l’oggetto, che è anche un segnale sociale, tolto dal contesto, alienato per usare una vecchia terminologia, diventa diverso, attende un nuovo senso oppure viene individuato proprio attraverso questo totale spiazzamento.
L’ironia aiuta l’intelligenza, la macchina estetica costringe a riflettere, a pensare ai simboli, alla gerarchia che esiste anche nei luoghi, a come adoperiamo dei significati complessi spesso senza che ce ne accorgiamo.
Il lavoro di Mark e Dirk Löbbert riesce a produrre un effetto estetico trovando e rappresentando una combinazione di elementi della realtà che permetta di raggiungere un ottimo risultato partendo da un minimo dei dati. In un vecchio e dimenticato scritto del 1962, il semiologo russo A.K. Zolkovskij ha scritto: “L’opera d’arte viene costruita con frammenti di realtà come un complesso amplificatore a più fasi agisce entro la coscienza del lettore. Il suo svolgimento procede a piccoli passi determinati arbitrariamente dall’artista, ma ognuno dei quali, una volta che il lettore si appresti ad accettarlo per vero, acquista un’importanza assai maggiore e incondizionata per effetto dell’amplificazione.” Alla base di questo meccanismo vi è, guada caso, il gioco degli scacchi e l’effetto a forcella, mossa in cui il risultato è quello di mettere in pericolo due pezzi dell’avversario. Sull’importanza degli scacchi per l’arte contemporanea non diremo nulla perché tutti sanno che sono anche alla base della filosofia artistica di Marcel Duchamp, oltre ad avergli procurato delle grandi soddisfazioni morali e, qualche volta, economiche.
È importante acquisire sorpresa sul nostro interlocutore, bloccarlo attraverso lo stupore, il pubblico nel caso dell’arte o l’avversario nel gioco degli scacchi. Si tratta di amplificare, cioè di produrre grande energia immettendone una piccola quantità. Questo è il segreto, ma non è certo facile. In questo i Löbbert sono dei geniali inventori e dei professionisti che hanno portato questo procedimento nella Public art in modo sempre sottile e pieno di understatement.
L’intervento alla Technischen Universität di Monaco di Baviera è un classico di questa poetica. Un moderno portico che sostiene parte dell’edificio viene prolungato nel nulla. Le nuove colonne non sostengono un architettura, creano attesa di qualcosa che non c’è e generano una mancanza. Non danno conferme all’architettura generale, ne riprendono un simbolo per metterlo in evidenza togliendogli qualsiasi funzionalità pratica, generando in questo modo una funzione estetica. Questo accade proprio amplificando il segno, in modo semplice, non forzato. Tipico di questo modo di procedere è proprio il suggerire al pubblico uno sviluppo naturale. È come se arte e artificio creassero l’idea che vi è un movimento naturale, spontaneo nelle cose. Quello che è accaduto dà l’impressione che sia uno svolgersi normale, quasi autonomo o “spontaneo”. Una finestra in una galleria d’arte è un’ opera nuova o un elemento, forse curioso, voluto da un architetto distratto? E le luci di un parcheggio che illuminano i muri e poco altro cosa sono? L’opera di un elettricista folle o le lampade si riproducono da sole, come si credeva facessero certi animali per generazione spontanea?
Ma anche l’intervento in un borgo di tipiche case a graticcio è rilevante. E se al posto dell’intreccio di linee ortogonali (perfettamente tradizionali) si usasse come modello dei cerchi tipo target? Anche in questo caso uno spostamento di senso si verifica con un intervento minimale anche se con dimensioni reali. Del resto il lavoro di Mark e Dirk Löbbert è importante proprio perchè incide nella realtà, i loro interventi creano un’autentica e profonda Public Art comunicando con un pubblico sempre diverso e vastissimo, anche in considerazione del fatto che queste installazioni ambientali restano per sempre dei luoghi in cui sono state realizzate. Riescono a comunicare con spostamenti minimi di senso: un prato tagliato o meno, le stanze di una palestra dipinte di un colore diverso da quello a cui tutti sono abituati, oppure dimenticare ad arte degli oggetti o appenderli in luoghi completamente disabitati, come possono essere delle case che sono state abbattute e che devono essere ricostruite.
Ma riescono anche a creare delle situazioni, come in una ex miniera, in cui le vecchie e non più usate macchine per scavare, diventano dei giochi da lunapark, preservando la memoria storica ma togliendole ogni angoscia legate alle sofferenze, al lavoro, ai pericoli passati dai lavoratori. La loro Public art ha veramente un’ utilità sociale che stabilisce un rapporti con i cittadini del luogo. Dai calambours ambientali con finti palloni sospesi in modi assurdi, a invenzioni pieni di ironia con degli abstract di rivestimenti di palazzi, che si ritrovano appoggiati al suolo, quasi fossero caduti da pochi minuti, gli artisti di Colonia hanno creato in quasi 20 anni di attività una serie di lavori che testimoniano quanto la loro arte riesca a comunicare con degli interventi minimali, ma assolutamente precisi. Minimo intervento, massimo risultato.
La stessa inversione di un elemento tradizionalmente decorativo come la croce rossa di un ospedale, diventa l’occasione per un altro cambiamento di senso. La croce viene inserita nella costruzione, diventa non una banale scritta al neon appoggiata sulla facciata dell’ospedale, ma un pilastro che sostiene l’edificio, una sua parte strutturale. E questa è anche la metafora dell’arte che non è un accessorio del mondo, ma una sua parte fondamentale da cui non si può prescindere per comprendere la realtà. La croce rossa aumenta il suo significato, inserita nel corpo dell’edificio, diventa parte integrante di tutto il progetto costruttivo.
Così invece di realizzare una fontana hanno costruito una doccia al centro di una piccola piazza molto frequentata. L’acqua da inutile diventa utile, l’arte non è decoro, accessorio ma parte di una felicità e di un senso comune. Si tratta spesso di far ri/conoscere dei luoghi comuni, di far vedere con occhi nuovi ciò che crediamo di sapere a memoria. Un marciapiede qualsiasi può diventare un orto, in una strada di grande traffico si può costruire un luogo di meditazione, di astrazione temporanea dalla realtà, o di incontro con l’arte. Il loro sguardo modifica quello che vede. Un ponte di una grande strada, una colonna che sembra un camino, un armadio sospeso come se fosse un pensile da cucina o i progetti di modificare lo status di un’abitazione simulandone la vicinanza con una roulotte regolarmente dotata di un tetto, quindi abbastanza inutile. Ma può essere anche un progetto, come quello di usare lo stesso marchio della Kraft per porci vicino nello stesso stile il termine Kunst. Il potere economico e industriale con uno spostamento di significato diventa qualcosa di completamente diverso: è questo il potere, la forza dell’arte, di riuscire ad amplificare un elemento comune e farlo diventare qualcosa di diverso, ma ancora qualcosa di estremamente reale.
In fondo Mark e Dirk Löbbert disseminano di poesia lo spazio urbano, disseminano di giochi visivi e di parole gli ambienti, le strutture su cui possono intervenire. Lo spiazzamento c’è sempre, il senso deraglia come un treno senza freni, ma il piacere del messaggio estetico rimane sempre. E in questo caso parliamo di estetica nel vero senso, come percezione della realtà, non certo di un’idea di bellezza fine a se stessa. Il mistero, l’enigma anche nel quotidiano, sono ancora gli elementi di una maniera di accompagnare il pubblico verso un ripensamento su quanto gli capita di vedere e vivere tutti i giorni. Ma è molto importante la leggerezza di questi interventi, la capacità degli artisti di inserirsi nel reale per sdrammatizzarlo o per renderlo problematico in modo riflessivo e intelligente. In questa minimalità si concentra l’attenzione e la ricerca di un’arte che guarda dentro le cose e sa trovarne le motivazioni, rende manifesto ciò che è sottinteso, non esplicito.
Il mondo ha bisogno di domande per continuare a stupire.
Valerio Dehò
tratto dal Catalogo della mostra “Maik und Dirk Löbbert. Dentro fuori“
A cura di: Valerio Dehò
Inaugurazione: Giovedì, 17 luglio 2008 ore 20:00
Periodo: 18 luglio – 21 settembre 2008
Kunst Merano arte – edificio Cassa di Risparmio – Merano
kunstmeranoarte.org
Ufficio Stampa: Studio Pesci