
Parlare della solitudine senza descriverla. È quanto riesce a fare, con i suoi lavori, il pittore Alberto Sughi, “costruendo riflessioni ancor più profonde e sensibili sull’evoluzione del tessuto sociale, sul senso del vivere nell’Italia dell’ultimo dopoguerra, quella che anche un ex partigiano come lui aveva contribuito a consegnare alla storia” (R. Lattuada, Il Mattino, Napoli, 1 Aprile 2012, p. 25).
Classe 1928, romagnolo d’origine, si formò da autodidatta in anni duri per la storia italiana, compresa quella artistica: gli anni della ricostruzione di un’identità post-bellica, affidata al recupero della “tradizione” – esemplificata dalla pittura seicentesca e da Caravaggio, oltre che dai primitivi italiani e i grandi del Rinascimento – per costruire un linguaggio “moderno”.
Che cosa, poi, volesse davvero significare il termine “moderno” per la generazione di artisti attivi nel secondo dopoguerra, è difficile da precisare in poche righe. Certamente si tradusse in un confronto con ciò che accadeva al di fuori dei confini italiani.
Erano gli anni dell’Action Painting di Jackson Pollock, del realismo di Edward Hopper e di Lucian Freud, come dell’esistenzialismo di Francis Bacon, al quale, a torto o ragione, e probabilmente forzando un po’ la mano, Sughi fu spesso avvicinato. Erano gli anni del dibattito tra Astrattisti e Realisti, gli anni in cui ‘fare arte’ coincise spesso con una militanza politica.
Non è un pittore facile da capire, Sughi, per via dei suoi “risvolti di contenuto”, come li ha definiti Calvesi. Non può essere considerato un “pittore-filosofo”, benché la critica abbia rintracciato spesso nei suoi lavori un parallelismo con il pensiero di Sartre.
Certamente fu un artista colto e civilmente impegnato, capace di avvertire le contraddizioni del suo tempo e di una società che, con il boom economico degli anni Sessanta, stava mutando velocemente mettendo in crisi i suoi valori fondamentali.
Il “disagio esistenziale” che racconta è proprio questo, lo stesso che si avverte guardando una commedia umana di Mario Monicelli, popolata da cialtroni e malviventi pigri e opportunisti, dominati però da un’incertezza esistenziale di fondo.
La critica per lungo tempo ha individuato nel “racconto della solitudine” la principale tematica affrontata dal pittore, resa evidente nei suoi dipinti popolati da figure “alienate”, incapaci di qualsiasi dialogo tra loro. Ritratti di donne e uomini dallo sguardo perso, colti in contesti di quotidianità. Sughi, tuttavia, lasciava all’osservatore quella libertà di lettura che è fondamentale affinché nasca un’empatia tra oggetto e fruitore. “L’immagine non è un racconto letterario, ma un modo di conoscere una situazione”, affermò in un’intervista rilasciata in occasione della mostra “Le Stanze del Tempo” (2011). “Credo che la pittura abbia sempre una metafora che va oltre il giudizio critico”, precisò in quell’occasione.
Presente in gran parte della sua produzione ed estremamente attuale è, in ogni caso, la narrazione di una società che oggi potremmo definire “liquida” – per dirla con Zygmunt Bauman, che pure a Sartre aveva guardato –, fondata cioè sulla permanenza del cambiamento e sulla certezza dell’incertezza, cui l’essere umano risponde con l’individualismo e l’isolamento, come si vede in molti dei suoi lavori, incentrati su “quel che viviamo in questo mondo, dove le cose passano e non c’è più tempo nemmeno di commentare, di riflettere su quello che abbiamo visto” (A. Sughi). Tale tematica si combina, nelle opere di Sughi, con la sua innata capacità di cogliere gli aspetti più reconditi e profondi del reale, attraverso l’adesione a un linguaggio figurativo a tratti espressionista, in cui s’avverte forte l’eco della tradizione pittorica italiana. Perché lo scopo principale, per il pittore, fu sempre quello di comprendere le dinamiche dell’esistenza: “non guardare il segno esterno delle cose, ma capire il significato profondo che è dentro di loro” (A. Sughi).
A cura di S. Di Giovanni
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