Gender Fluid

La connivenza apparente tra opere d’arte e prodotti di consumo al tempo del capitalismo estetico

di Giancarlo Pagliasso.

Nel libro di Elisa Caldarola Filosofia dell’arte contemporanea. Installazioni, siti, oggetti(2020), si legge che il filosofo canadese L.M. Lopes (2014), armonizzando la teoria istituzionale dell’arte di Dickie con quella dei contenuti incorporati ‘extra-estetica’ di Danto (2013), a proposito della differenza tra media artistici e non, dice che « i primi sono al centro di pratiche in cui apprezziamo degli oggetti in quanto trattati come media» (Caldarola 2020: 46). Cioè, un oggetto artistico, inteso in senso mediale, veicola contenuti e «rende salienti certe proprietà» (Ibid.), a prescindere dal fatto che esso possa servire ad altri scopi o utilità. Sostanzialmente, è l’apprezzamento elitario di una comunità ristretta classista, ancora ‘kantianamente’ disinteressata alla significatività utilizzabile degli oggetti e attenta invece alla loro pura valenza estetica, a determinarne l’artisticità. L’esempio addotto delle tazze da tè Bizen-yaki e industriale è paradigmatico.

Tazza Bizen

La tazza Bizen, prodotto di eccellenza della ceramica giapponese (presumibilmente modellata in pochi esemplari e con materiali di grande qualità), rientrerebbe nella pratica di apprezzamento della comunità de-i/lle conosci-tori/trici di quella tradizione di altissimo artigianato, in grado di produrre manufatti capaci di rivelare proprietà estetiche, quali delicatezza e semplicità, totalmente indipendenti dal loro utilizzo e, per questo, passibili di riconoscimento artistico. La tazza industriale, invece, dovrebbe avere un bacino d’utenza molto più allargato quantitativamente e, soprattutto, non ‘coltivato’ ad apprezzarne la specificità mediale, ma solo quella di utilizzabile.

Brillo Box di Warhol

Questa dicotomia va approfondita come una ‘secolarizzazione’ di quella, più sottile, proposta da Danto circa la riflessività dell’arte come momento auto coscienziale dello spirito assoluto rispetto alle manifestazioni di quello oggettivo. Il ragionamento di Danto, che a sua volta urbanizza Hegel, è a supporto della celebre distinzione come opere d’arte delle scatole Brillo Box di Warhol rispetto a quelle commerciali disegnate da James Harvey. Le ‘proprietà’ estetiche della grafica di Harvey (di cui in generale Danto non tiene conto per connotare l’artisticità, in quanto le riferisce all’estetica come riflessione sulla bellezza, per lui fuori corso da Duchamp in poi), cioè la piacevolezza dei disegni e dei colori, sono pertinenti agli stilemi espressivi della cultura popolare (spirito oggettivo) e quindi funzionali «a disporre favorevolmente i consumatori verso il prodotto», ma non istanziano riflessioni su quella cultura, rimandando invece alle pagliette contenute nelle scatole e abilitate, in sostanza, solo a «far brillare l’alluminio[…]della quotidianità domestica». Al contrario, i contenitori warholiani sono ‘arte’ perché prescindono dalle componenti ‘estetiche’ dell’immaginario della cultura popolare, ma lo tematizzano come meta-discorso cosciente (spirito assoluto). Non parlano ‘alla’ gente ma ‘della’ gente (Danto 2013: 104-108).

Tornando a Lopes, la specificità artistica della tazza Bizen sta nel veicolare contenuti la cui salienza estetica sollecita l’apprezzamento di «una comunità di conoscitori», che pratica quest’ultimo indipendentemente dal fatto che possa apprezzarne anche le valenze e le finalità d’uso. La comunità dei conoscitori (consuma-tori/trici) della tazza industriale, invece, anche se potenzialmente in grado di riconoscerle valenze estetiche, ‘appiattisce’ il suo giudizio solo sull’apprezzamento finalistico e ‘interessato’ dell’oggetto, disconoscendogli la medialità artistica non strumentale. In certo qual modo, come scrive Alessandro Bertinetto analizzando alcune considerazioni di Dieter Mersch (su cui torneremo), il/la consuma-tore/trice massificato/a non riconoscerebbe nell’oggetto « l’aura[…]caratterizzata dalla differenza tra la singolarità dell’estetico e la marea indifferenziata delle cose comuni» (Bertinetto 2017 :193).

Ma è poi vero che attualmente, cioè nella nostra tarda postmodernità, questo sia ancora l’atteggiamento fenomenologico che discrimina ‘ontologicamente’ gli oggetti artistici dai prodotti di consumo, le opere d’arte dalle merci?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo riandare alla questione dell’immaginario della cultura popolare degli anni ’60 negli USA, che – per Danto – Warhol e i Pop-artisti assunsero non per le sue qualità estetiche, ma in quanto indicatore della sensibilità generale: ciò che interessava loro era la formalizzazione dell’espressività di quella cultura in relazione al consumo di massa. Quindi, stando sempre a Danto, il contenuto immaginario (il logo) delle scatole Brillo Box è quello che venne ‘incarnato’ da Warhol nei suoi contenitori per trasformarli in opere d’arte. La gradienza sociale di questo risultato è inscrivile all’interno della trasformazione delle merci, nell’assetto espansivo del capitalismo statunitense (e occidentale) di quegli anni, e, in particolare, concerne l’aspetto simbolico con cui veniva incentivato il loro acquisto. Nello specifico, questo già prefigurava la sussunzione dei prodotti a quella che, di lì a poco, Baudrillard chiamerà la pervasività dei segni, ovvero la necessità della loro rappresentazione adeguata, ben compresa da Warhol e compagni, sotto il registro formale astratto con cui venivano socialmente mediati da sigle, marche e slogan.

Vi è che l’appeal visivo dei prodotti di consumo di massa, perfezionato progressivamente dalla pubblicità americana già a partire dagli anni ’20 [sulle differenze di marketing tra USA e Europa, significative sono le pagine di Victoria De Grazia (2020)], certificava il passaggio definitivo dalla soddisfazione dei bisogni a quello dei desideri, rendendo sempre più evidente il carattere ofelimo delle merci. L’ofelimità, introdotta da Pareto (1896-97) per circoscrivere la presunzione di convenienza rispetto ad un bene economico da parte del/la consuma-tore/trice, mette in second’ordine il valore d’uso della merce per accentuarne invece quello di scambio. Quest’ultimo si specifica, ideologicamente, come immaginale, secondo Debord (1992), in quanto supporto spettacolare dell’apparenza del Capitalismo consumistico e, con il progredire della redditività finanziaria a scapito di quella produttiva sul finire del secolo scorso, come segnico quale indice dello status symbol (Baudrillard) o della ‘distinzione’ (Bourdieu 1979) dell’acquirente. Attraverso il segno, incardinato nel logo e nel marchio o durante la presentazione proposizionale dello slogan pubblicitario, i prodotti di massa (soprattutto quelli di abbigliamento e arredamento) veicolano il messaggio dell’annullamento delle differenze interclassiste (non solo di censo, ma anche culturali e di gusto) mediante la pratica dell’acquisto.

Superconsumers di Universal Everything

Un ulteriore riaggiornamento della significanza simbolica, con relativo aumento di ‘portanza’ estetica, delle merci si verifica allorché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo (a trazione americana) implementa le tecnologie digitali non solo alle transazioni finanziarie ma anche alla sfera produttiva. L’astrazione immateriale di questa razionalità algoritmica ‘diretta allo scopo’ (per dirla con Weber), capace di trarre profitto anche dall’utilizzo dei dati lasciati in rete dagli utenti del Web (Zuboff 2019), ingenera il medesimo effetto sulla fenomenicità del valore segno dei prodotti, il cui valore di scambio non copre più la significatività sottesa alla loro funzione sociale ‘ideologica’ di identificazione. L’effetto di ‘realtà’ delle merci, cioè il loro risultare significanti per l’immaginario ‘desiderante’ del/la consuma-tore/trice, deve essere richiamato, sottolineato, posto con enfasi in luce, messo in scena: in buona sostanza, il loro valore di scambio segnico deve trasformarsi in un nuovo valore (d’uso) ‘scenico’ 1, secondo la formula proposta da Gernot Böhme delle «Steigerung und Inszenierung des Lebens» (2016:101) sotto l’egida della globalizzazione economica nel nuovo millennio.

In questa fase, per Bôhme, si assiste «alla presa in carico della vita da parte del Capitale» dal momento che «l’espansione del sostentamento materiale della popolazione», almeno in buona parte del pianeta, «può considerarsi sostanzialmente completata» (Bôhme 2016:15). Al di là del bisogno, la prerogativa dello sviluppo viene dimensionata in quanto produzione di ‘supporti’ per il soddisfacimento dei desideri, sussunti però all’immaginario consumistico di un loro incremento potenziale infinito, portando a compimento la linea tendenziale già manifesta nel secolo precedente. Prevalendo la logica «dell’integrazione e generalizzazione dell’ordine dello stile, della seduzione e dell’emozione nei beni di consumo», Lipovetsky e Serroy (2013: 47) chiamano questo passaggio produttivo «capitalismo artistico». Va da sé che tale contingenza presupponga prodotti indeterminati, rispetto al valore (la cui forma-merce estetica generale consente pure l’equivalenza tra una portata gourmet e un’opera d’arte, tra un capo ‘griffato’ e un oggetto di design), per obliterare possibili indicazioni di differenze di classe, a suffragio del messaggio che il loro possesso attesti invece uno stile di vita appagante, in cui l’esistenza viene intensificata e arricchita dai parametri riflessivi «della vista e dell’esser visti, dell’udito e dell’esser uditi, e della mobilità aumentata sia fisica che virtuale» (Bôhme ibid.). Quest’accessibilità immaginaria viene estesa anche alla merceologia di lusso (non soggetta alla consumabilità ‘obsolescente di quella di massa), così che, come fanno notare Boltanski ed Esquerre, anche se «l’economia dell’arricchimento si rivolge prima di tutto ai ricchi e ai super ricchi, una delle sue specificità è quella di rivolgersi anche agli altri come fossero ricchi, o comunque più ricchi di quanto siano in realtà» (2017:66). Gli stilemi retorici a monte di questa narrazione, che in termini generali appare come metaforica (i prodotti non sono valorizzati come utilizzabili ma come altro da sé), in realtà, alimentando la cattiva infinità dell’esaudimento consumistico sempre incompleto, sono appuntati su registri ripetitivi, iperbolici, antifrastici, pleonastici o ellittici.

Tale tipo di retorica caratterizza, all’interno dell’attuale contesto «di produzione di valori estetici» (Bôhme 2016:16), anche «un lavoro sistematico di stilizzazione dei beni e dei luoghi commerciali, di integrazione generalizzata dell’arte, del look e della sensibilità affettiva nell’universo consumistico» (Lipovetsky – Serroy 2013:21). Questo significa che il registro comunicativo strutturale di questa produzione ‘riverbera’ con quello espressivo sovrastrutturale, cioè la sintassi del discorso immaginale che accompagna la presentazione delle merci – dovendo «intensificare a livello profondo e superficiale la vita attraverso la sua messa in evidenza scenica (Bôhme ibid.) – non si discosta più da quello delle opere d’arte o delle pratiche che riguardano il gusto e il sentimento di benessere psico-fisico (dall’architettura alla pratica gastronomica, dall’arredo dello spazio urbano e privato alla cosmetica, dalla moda all’erotica relazionale dei siti d’incontro ecc.). Questo fenomeno ha il suo correlato pratico nel concetto di “lavoro estetico”: «Con esso s’intende la totalità di quelle attività che hanno lo scopo di dare un aspetto particolare alle cose, agli uomini, alle città e ai paesaggi, conferendo loro una radianza, munendoli di un’atmosfera o producendola insieme» (Bôhme 2016:26)2.

La suggerita indeterminazione di classe, cui i prodotti alludono, azzera anche immaginariamente la scala differenziale, in merito al giudicare con competenza e pertinenza (estetiche), tra fasce di consuma-tori/trici o, almeno, non la fa emergere in superficie, dal momento che copre ideologicamente tutte le diseguaglianze Così, la sottostante volontà narcisistica d’apparenza, formalizzata nelle merci, rispetto alla presunzione indotta che il loro possesso ne qualifichi l’apprezzamento come espressione individuale di gusto, è quanto ha mosso, al di là della reale inaccessibilità economica, gli abitanti delle periferie a prendere d’assalto, a Torino, le vetrine dei negozi con i capi esposti dell’haute couture, durante le manifestazioni di protesta per le misure restrittive anti-Covid. Ciò che veniva agognato negli indumenti ‘alla moda’ non era certo il valore d’uso, ma la coloritura assiologica estetico-culturale, subliminale alla loro promessa di essere veicoli di identità socio-civile: quella che anche Baudrillard chiamava «l’identità pubblicitaria della fissazione immediata» (1987: 26). Ancor più di quanto non avesse già sottolineato Simmel circa la questione sociale, durante la fase ‘liberal-moderna’ capitalistica, come «problema di ordine estetico» (2020 : 23), l’attuale « nuovo “ethos” dell’individualismo consumistico» (Fraser- Jaeggi 2018: 134) è corroborato dalla profilatura ‘artistica’ della produzione delle merci quale aspetto saliente della riproduzione sociale stessa.

Volendo parafrasare l’interazione dialettica simmeliana tra cornice e opera d’arte (Simmel 2020:302-303), la vetrina espositiva (amplificata dagli schermi televisivi e dai supporti digitali) è stata infranta dai dimostranti per carpire il “per sé” (l’unità “spirituale”) dei prodotti di abbigliamento e non la reale ‘vestibilità’ “per loro” (in quanto consuma-tori/trici). I casseurs nostrani hanno, cioè, scartato il significato utilitario degli abiti, per considerarli, secondo il dettato ‘strutturale’ dell’analisi di Barthes, in quanto «oggetti presi di mira dalla significazione» (2006: 48), riconducibili a «vestemi» che supportano quest’ultima «per un mercato fondato interamente sull’esaltazione di un’incessante neologia» (Ibid. 62). La novità del cambiamento continuo è alla base del desiderio di consumo di visibilità, incapsulato nelle merci quale miraggio di uno stile di vita agiato e appagante, che viene esperito come il loro ‘valore di messa in scena (Inszenierungswert) (Bôhme 2016: 74), all’interno del contesto diegetico di cui i prodotti, con il/la consuma-tore/trice, costituiscono lo sfondo.

Per compendiare in sintesi, la forma merce dell’indumento glamour (ma, più in generale, dell’oggetto-di consumo-abito), incentrata sul supplemento di valore ‘scenico’, che quasi azzera l’interesse utilitaristico nei suoi confronti da parte del/la consuma-tore/trice [acclarando invece «la priorità accordata alla bellezza e alla piacevolezza…come movente stesso dell’azione economica» (Iannilli 2017: 119)], non diverge affatto dalla configurazione mediale, osservata in precedenza, che sottende al riconoscimento-apprezzamento delle opere d’arte. Il vestito, infatti, anche nell’ambito della produzione massificata ‘economica’, che punta a suggerire (al pari delle griffes internazionali) il taglio di design creativo (anche se attualizzato con tessuti e materiali meno ricercati), veicola come contenuto (d’apparenza) la suggestione esperienziale di un’esistenza quotidiana elegante, dinamica, aggiornata e contraddistinta dall’agio e dalla prominenza stilistica (nel rapporto tra scelte e gusto). Per questo, esso mostra così, sinesteticamente, abbondanza di proprietà estetiche quali la bellezza dei dettagli sartoriali (dalla rifinitura delle asole a scomparsa ai risvolti modulabili), della qualità e coloritura delle stoffe e della coerenza strutturale delle parti (sia in merito alla loro proporzionalità ‘geometrica’ tradizionale che a quella innovativa eventualmente ‘disarmonica’) 3.

Dal momento che alle merci pertiene il carattere generalmente metaforico (cui abbiamo alluso prima), i ‘capi’ della moda condividono ‘connivenze ontologiche’ anche con le opere d’arte di area concettuale. Per cogliere le similarità tra le due classi di ‘prodotti, risulta interessante rifarsi alla tesi di Elisa Caldarola secondo cui le opere di arte concettuale non sono semplicemente idee ma ‘oggetti’ «per portare al centro dell’attenzione dello spettatore idee, potenzialità di certi materiali, processi ed esperienze di partecipazione» (2020: 136) 4. Inoltre, il loro profilo mediale presuppone che questi ‘oggetti’, le loro istanziazioni materiali e gli eventi, in quanto risorse, debbano essere manipolati con una tecnica specifica di riduzione «al minimo dei loro aspetti sensibili rilevanti a veicolare idee» (Id. 138-39), ma anche che possano essere ‘appropriati’ da configurazioni mediali funzionanti in altre forme d’arte.

Caldarola individua come “risorsa” ciò che David Davies (2007) chiama «veicolo», cioè quello che dopo la manipolazione costituisce il cardine per le pratiche di apprezzamento dell’opera come ascrivibile ad una certa forma d’arte. L’individuazione della risorsa (o del veicolo) diviene importante nell’analisi di molte opere dell’arte contemporanea (la cui koinè propongo di classificare come post-neo-concettuale).

In base alla difficoltà di cogliere propriamente il veicolo, Caldarola suggerisce di differenziare le opere a partire dal loro minore o maggiore distacco dagli stilemi della tradizione, risultando perciò “accessibili” o “inaccessibili” all’osserva-tore/trice tradizionale (Caldarola 2020: 142-43). Per quanto attiene invece al veicolare idee, Ella focalizza la sua attenzione sul concetto di esemplificazione (riprendendolo da Goodman e Elgin) e sulla strategia ludico-finzionale del prop oriented make-believe (teorizzato da Walton).

Following Piece di Vito Acconci

L’esemplificazione, così come viene rimodulata da Elgin (per evidenziare similarità di simbolizzazione tra arte e scienza) sulla base delle considerazioni di Goodman in quanto «simbolo che esemplifica qualcosa» (1978: 79), è una relazione referenziale mediante cui qualcosa (campione, esempio, esemplare) fa riferimento alle sue proprietà, mostrandole. Più propriamente, «riferisce per mezzo della sua (rap)presentazione su quelle proprietà», prestandosi perciò ad essere un’opportunità intellettuale (Elgin2018: 29-30), che in sede scientifica funziona efficacemente come strumento euristico 5,in grado di approntare caratteri ‘nuovi’ alla conoscenza dei fenomeni, mentre in ambito artistico (in particolare, teatro, danza e performance) consente di sottolineare, evidenziandole all’attenzione del pubblico, caratteristiche fenomeniche dell’esperienza quotidiana normalmente sottostimate 6. A monte di questi parametri, Caldarola sostiene che l’esemplificazione è uno strumento interpretativo utile per avvicinarsi alla comprensione di opere concettuali sia accessibili che inaccessibili. Tra queste ultime, esamina Following Piece di Vito Acconci, una performance del 1969, in cui l’artista seguì a loro insaputa delle persone, documentando il tutto con foto e appunti scritti. Prima della loro formalizzazione ‘espositiva’, con montaggio delle fotografie, appunti e mappe dei percorsi su supporti incorniciati (in archivio, attualmente al MOMA di New York), le azioni di Acconci, durante il loro accadere, non ‘rappresentavano’ o ‘esprimevano’ nulla, se non esemplificare [stando a Caldarola, con suffragio di Goodman (1978: 77)] «le particolari proprietà […] enunciate negli appunti che accompagnano le foto» (Caldarola 2018: 149). ‘Queste non avevano altro intento, palesato dalla performance, che quello di « condurre il pubblico a formarsi certe idee sul comportamento umano» (Ibid.).

Wall Drawing #370 di Sol LeWitt

Anche rispetto alla messa in risalto del messaggio eidetico nelle opere concettuali non criptiche, come Wall Drawing # 370 di Sol LeWitt, l’esemplificazione può essere sfruttata al fine di determinare con precisione quali proprietà indubitabilmente l’autore voglia far risaltare nel suo lavoro.

L’esame della dicitura completa del ‘murale’ lewittiano Wall Drawing #370: Ten Geometric Figures (including right triangle, cross, X, diamond) with three-inch parallel bands of lines in two directions consente a Caldarola di arguire che l’artista – sostenitore convinto che l’essenza dell’opera d’arte sia la sua idea ‘creativa’ piuttosto che l’esistenza materiale (con la sua esecuzione, per lo più affidata ad altri, tramite istruzioni) – abbia voluto esemplificare solo la proprietà istanziata dalla sua realizzazione sulla base delle indicazioni contenute nel titolo. «Canalizzando la nostra attenzione su questa proprietà» (Caldarola 2018: 146), l’artista pone in second’ordine le proprietà estetiche che pure emergono ad opera eseguita (in quanto murale dipinto con scansione ritmica di figure geometriche, contrasti cromatici, effetti optical intensi ecc.), per evidenziare, in astratto, «l’idea espressa dal titolo» (ibid.). In pratica, l’apprezzamento della proprietà concettuale dell’opera prevale sull’eventuale interesse verso le sue proprietà estetiche.

Nell’ottica della significatività dei prodotti di vestiario, l’abito, rispetto all’esemplificare, che in sostanza è un procedimento tautologico a bassa impedenza significante, presenta se stesso come soggetto e oggetto del ‘mettere in scena’, cioè ‘ritiene’ tra le sue proprietà (estrinseche) quella di essere ‘esposto’ (come le opere d’arte tradizionali) 7 ed esporre, manifestandole come suoi elementi costituenti, quelle (intrinseche) relative alla propria composizione (come la trama del tessuto e l’architettura del taglio che ne disegna la forma). Riguardo al primo aspetto, in quanto ‘costume’, che il/la consuma-tore/trice indossa a suffragio del ruolo ‘immaginario’ che questo gli/le dovrebbe conferire sul palcoscenico del ‘teatro’ sociale, funziona come medium alla performance di identificazione (per il compra-tore/trice) con la sfera valoriale di cui è pure veicolo. Il secondo punto, di attinenza estetica, può anche essere marginalizzato (Elgin 2018: 29), ma contribuisce, in chiave metonimica 8, come ‘rinforzo’ sineddottico alla plausibilità «della potenza dell’idea espressa» (Caldarola 2020: 150) dal messaggio pubblicitario (il suo imprinting d’esistenza attuale), cioè quello di essere viatico ad accrescere la vita (e la sua visibilità) secondo i parametri dell’agio e del gusto, suggerendone in più l’atmosfera (Böhme 2016).

Venendo al ruolo del prop oriented make-believe, Caldarola ne circoscrive l’utilità ermeneutica solo per le opere concettuali inaccessibili. Ella rielabora le indicazioni di Kendall Walton (1990: 5) sullo specifico del make-believe (far finta) in contesti rappresentazionali. Un prop (puntello, sostegno) in un gioco di make-believe è «un generatore di verità di finzione (fictional), una cosa che, in virtù della sua natura o esistenza, rende appropriate alla finzione le proposizioni» (Walton 1990: 37). Acclarato un contesto ludico, dice Walton, in cui si fa finta che il prop sia un fortino fatto con la neve, allora quello diventa una costruzione fortificata a tutti gli effetti all’interno del gioco. Accade però che in alcuni giochi, come quelli con gli aeroplanini di carta, affermare che :«L’aeroplano vola» consenta alla proposizione di essere ‘vera’ contemporaneamente sul piano della finzione e su quello della realtà. Il prop di carta, che sta per il velivolo reale, vola realmente e le sue evoluzioni, in cui esplicita anche proprietà materiali specifiche, possono renderlo talvolta oggetto d’interesse al di là della funzione di sostegno svolta nel gioco (Id. 1993: 39). Quando questo avviene, quando cioè l’interesse si rivolge verso la realtà del prop e non verso il contenuto (la ‘realtà’ di finzione) che esso rende possibile, Walton suggerisce di specificare l’orientamento del far finta nei suoi confronti come prop oriented make-believe (Ibid. 40).

Fountain di Duchamp

Tale eventualità è ciò che interessa a Caldarola per fornire ausilio interpretativo alla sua disamina di una delle opere concettuali più criptiche per antonomasia, il ready made di Marcel Duchamp Fountain (1917). Individuato il principio generatore in cui l’orinatoio, in quanto prop del far finta che, al suo apparire, sia immaginato (dallo/a spetta-tore/trice) come una fontana, consente infatti di inquadrare la scelta di Duchamp, di ‘trasfigurare’ 9 immaginativamente un sanitario (per la minzione maschile) in un costrutto ‘scultoreo’ idrico a ‘vocazione’ artistica, come mirata a veicolare l’idea, critica ed ironica nei confronti della specificità retinica ed estetica dell’arte rappresentativa 10, che tutto può essere arte (Caldarola 2020: 158-59).

L’origine del mondo di Courbet

Rispetto ai capi di abbigliamento, il gioco di make-believe pubblicitario della moda è sempre orientato al prop, al singolo indumento da scegliere, facendo cadere l’attenzione del/la consuma-tore/trice sulla verificabilità reale delle sue proprietà. Queste costituiscono la prova ‘tangibile’, come riscontro qualitativo, estetico ed esperienziale, da salvaguardare nel confronto con la situazione esistenziale immaginaria che il prodotto dovrebbe essere in grado di veicolare ‘narrativamente’ (e antropologicamente), in quanto strumento «di determinazione dell’identità in virtù del suo articolarsi nelle forme della messa in scena del sé» (Matteucci 2017: 33). La cosa risulta ancora più pregnante con le merci accessorie o complementari, per modulare i processi identificativi della ‘vestibilità’ con quelli dell’empatia relazionale, quali sono i profumi 11. Dal momento che le essenze profumate sono ‘aderenti’ al corpo, ma percepibili olfattivamente e non visivamente, i principi generatori dei giochi promozionali definiscono i props in base alle categorie ‘femminile’, ‘maschile’ e ‘unisex’. Su queste basi vengono pensati la conformazione del contenitore, il nome e lo scenario immaginativo, calettato sui qualia pregiudiziali (il genere) della sostanza olfattiva ‘sessualizzata’, cui dovrebbero convenire/riconoscersi le/i consuma-trici-tori.

Così, le boccette di fragranza pour Femme, hanno involucri tondeggianti, allisciati e allusivi alla morfologia femminile (o sono sue sineddochi, come Good Girl di Carolina Herrera, a forma di scarpa con tacco altissimo, o Scandal di Jean Paul Gaultier, col tappo antropomorfico a mezzo busto e gambe piegate in posa burlesque). Le ambientazioni ‘scenografiche’, a livello d’immagine fotografica e video, con cui ogni brand propone i propri profumi e il loro testimonial identificativo, suggeriscono idee di sensualità, seduzione, eleganza e fascino, prospettando mondi, situazioni e atmosfere a loro consone. Nel trailer di Roman Gavras, per ‘incarnare’ J’adore Absolu (creazione di François Demachy, profumiere di Dior), Charlize Theron, uscendo dalla vasca colma d’oro di un hamman, che ricorda il quadro Il bagno turco di Ingres, indossa un abito di Maria Grazia Chiuri, stilista della maison, «ricamato con paillettes cucite con vero filo d’oro» , e incede verso lo spettatore con passo «da dea conquistatrice, metafora della donna indipendente, sulle note dell’ipnotica musica firmata Kanye West, dal titolo Flashing Lights» 12. La scena si chiude orientando l’immagine verso il prop del filmato (il flacone della fragranza), su cui deve dirigere l’interesse dell’acquirente perché le proprietà reali del suo contenuto («le note floreali e fruttate del gelsomino di Grasse…avvolto da note mielate e delicati accenti di arancio e rosa») possano sostanziare la ‘realtà’ di ‘finzione’, simboleggiata dalla trama del film. Inoltre, questo appeal è richiamato dalla conformazione della boccetta, con il collo allungato che ricorda la silhouette a otto del primo contenitore per profumi Dior del 1949, rinforzando nell’acquirente l’attenzione verso il prodotto in merito all’affidabilità del brand identificativo quale depositario di valori qualitativi tradizionali.

In questo senso, l’interesse verso il prop viene puntellato in seconda battuta dalla marca in quanto garante ‘storico’ per gli scenari, le atmosfere e stili di vita che quello prospetta. Medesima architettura significante (fermo restando il diverso plesso assiologico di riferimento) hanno i giochi di finzione promozionali dei prodotti dell’estetica ‘olfattiva’ maschile (e unisex, che neanche tanto larvatamente guardano come target alla comunità LGBT ).

Spostiamo lo sguardo ora verso una categoria di ‘merci’ il cui valore ‘aptico’ è maggiore rispetto a quello ottico: i prodotti gastronomici [in particolare, per una certa idea di artisticità ‘concettuale’, i piatti della ristorazione d’eccellenza sia all’interno della cucina tradizionale che innovativa, e non quelli quotidiani della cosiddetta «prospettiva dell’abitare» (Perullo 2013: 13)]. La loro omologia (inerente soprattutto ai meccanismi ‘formali’ di esecuzione) con le opere d’arte di carattere musicale viene suggerita da Alessandro Bertinetto in conformità al fatto che gli uni e le altre sono pratiche rese effettuali dall’improvvisazione.

Per il filosofo torinese, «le proprietà ontologiche dell’IMPROVVISAZIONE in quanto simultaneità d’invenzione e realizzazione sono le seguenti:

  1. Irreversibilità. Il processo creativo non può essere corretto dopo la sua fine. Dal momento che ogni correzione è parte del processo stesso.
  2. Situazionalità. L’IMPROVVISAZIONE è un processo effimero: le sue condizioni spazio-temporali sono parti essenziali del suo essere, e svanisce quando avviene.
  3. Singolarità. Logicamente, in base a (2), non possono esserci due IMPROVVISAZIONI identiche» (Bertinetto 2020a :274).

Queste proprietà hanno modo di manifestarsi, durante «l’applicazione di norme richiesta dall’adattamentocreativoalla situazione concreta specifica» (Bertinetto 2020:111), nelle performances musicali e gastronomiche. La similarità tra le due pratiche è plausibile dal confronto tra i loro componenti: per l’opera musicale [1) spartito,2)‘ingredienti’ quali note, scale, intervalli, arpeggi, pause ecc., 3) esecuzione effettiva], per quella gastronomica [1) ricetta, 2)ingredienti quali materie prime e insaporitori, 3) produzione e presentazione del piatto]. Questo permette anche di equiparare il/la composi-tore/trice musicale all’inven-tore/trice della ricetta e il/la musicista esecutivo/a al/la cuoco/a, inoltre essi sono tenuti a seguire più o meno liberamente le regole di esecuzione a partire dal fatto che venga riconosciuta loro, da parte delle reciproche comunità di frui-tori/trici ed esperti/e, la facoltà e la competenza per procedere.

Bertinetto fornisce poi una dettagliata disamina delle evenienze negative o meno, rispetto ai risultati, a seconda di come le regole vengano interpretate. La correttezza delle istruzioni (in merito alle intenzioni dell’au-tore/trice o alle convenzioni culturali in atto quando i testi prescrittivi furono composti) non sempre funziona per il successo dell’opera: spesso una variazione (come negli accordi, per l’esecuzione dell’inno americano, suonato con la chitarra elettrica da Jimi Hendrix, nel 1969, a Woodstock) o una deroga (non utilizzare un ingrediente previsto da una ricetta, aggiungerne altri o manipolare la loro identità fisica come fanno Ferran Adriá e Massimo Bottura) contribuiscono alla riuscita, ‘aggiornamento’ o alla ‘creazione’ di un’opera e di un piatto del tutto nuovi.

Sempre per dirimere la questione dell’autenticità e correttezza in merito agli ‘artefatti’ delle due pratiche, Bertinetto prende in esame il punto di vista di Julian Dodd (2007) sulle opere musicali, incentrato sulla teoria del Type/Token ( che istituisce una relazione tra i due termini simile a quella tra genere e specie) e del Sonicism (che individua l’identità di due opere musicali a partire dallo loro identità sonora). In breve, l’ipotesi di Dodd concepisce l’opera musicale (la sua scrittura, lo spartito) come un type (un modello, un’entità sonora ideale) che si manifesta autenticamente quando viene istanziata nei suoi tokens (le esecuzioni effettive) 13 in maniera filologicamente corretta (rispetto strumentale e sonoro delle clausole del type). L’osservanza ‘purista’ della posizione di Dodd dà adito però a diverse conseguenze contraddittorie, che sono compendiate in tre domande (attinenti anche per estensione alla pratica gastronomica):

  1. «È possibile stabilire l’identità di un’opera musicale/ricetta (cioè cosa un’opera e una ricetta sono) indipendentemente dalla loro realizzazione attraverso le esecuzioni e i piatti?
  2. È impossibile, o illegittimo, che le esecuzioni e i piatti trasformino l’identità delle opere musicali o culinarie?
  3. L’esperienza, e il piacere, degli ascoltatori e dei buongustai/assaggiatori sono irrilevanti o superflui quando concorrono a manifestare (il contenuto del)l’opera musicale o culinaria tramite l’esecuzione/piatto?» (Bertinetto 2020: 122),

le cui risposte sono tutte negative. In merito al primo punto, se gli spartiti (e le ricette) non fossero eseguiti sarebbero solo “costrutti culturali14, impossibilitati a manifestare le identità che li formano e li (tras)formano. La possibilità che la trasformazione avvenga attraverso le esecuzioni può essere plausibile, considerando anche il type come un particolare « quasi-astratto esteso nel tempo e trasformato dai suoi tokens allo stesso modo in cui un’azione nel verificarsi può modificare il proprio piano attuativo» (Ibid. 123). Inoltre, la relatività spazio temporale dell’esecuzione è la sola che consenta di valutare la propria autenticità referenziale allo spartito ( o alla ricetta) dal momento che avviene dentro contesti culturali cangianti, che sono legati a loro volta a ideali estetici e culturali differenti e in via di cambiamento. Le situazioni esecutive particolari (temporalmente molto posteriori rispetto allo spartito, ma anche alla ricetta) comportano implementazioni specifiche al loro contesto (relative agli strumenti/materie prime, alla sensibilità acustica e ai gusti mutati). Seguendo Gadamer (1960), l’opera è soggetta alla propria Wirkungsgeschichte, cioè è ‘trasformata’ effettualmente in relazione alle condizioni culturali e ambientali in cui si esplica.

In sostanza, l’identità delle opere musicali (e delle ricette) viene ‘negoziata’ all’interno delle pratiche esecutive e non può essere valutata in base a criteri normativi esterni a quelle. In questo modo, la retroattività, rispetto all’interpretazione più corretta dell’opera, non è temporale ma strutturalmente ricorsiva lungo l’asse delle applicazioni sempre differenti delle regole, che a loro volta vengono trasformate da tale dinamica. Le opere in musica, in quanto artefatti culturali, come le ricette (che devono adattarsi alle circostanze del pasto, alle preferenze culinarie de-i/lle commensali, alla disponibilità degli ingredienti e alla creatività del/la cuoco/a), sono coinvolte nelle pratiche che concorrono a regolare (Bertinetto 2020: 128-29). Il paradigma delle trasformazioni esecutive s’appunta quindi sull’improvvisazione che in musica, come a teatro o nella danza, non riguarda le intenzioni degli esecu-tori/trici, ma «emerge retroattivamente grazie alle risposte che attiva» (Ibid.130). Similmente, in cucina, la ‘normatività’ ricettaria deve essere modulata in pratica dalle doti improvvisative del/la cuoco/a – nel variare ad esempio la quantità delle spezie – per accentuare o meno la sapidità di un piatto rispetto ad un altro. Più in generale, l’improvvisazione, come sottolineato da Beth Preston (2013), costituisce il cardine dell’azione efficiente nella creazione dei prodotti della cultura materiale umana, i quali non nascono dalla pianificazione. ‘centralmente controllata’ delle strategie e delle intenzioni (come nel modello aristotelico dell’agire),ma sorgono interagendo con quella (deregolandola, talvolta) nella contingenza concreta delle loro realizzazioni. Le pratiche umane «non funzionano solo in base ad una conoscenza teorica strutturata indipendentemente dalla sua attuazione reale, ma sono molto più simili al modello artigianale di un Know-how situato» (Bertinetto 2020: 132-33). Infine, l’improvvisazione con uno spartito o una ricetta può essere paragonata ad una loro interpretazione, cui il/la musicista o il/la cuoco/a danno espressione.

L’improvvisazione destruttura la rigidità normativa dei costrutti culturali, trasformando e mutando le regole nel corso della loro applicazione all’interno delle pratiche musicali e gastronomiche. L’analogia tra le dinamiche esecutive delle opere d’arte musicali (spartiti) e delle ricette gastronomiche in performances e piatti, suggerita da Bertinetto, sembra allargare il campo dell’artisticità della cucina, al di là dell’esercizio professionale (e social-consumistico) della ristorazione d’eccellenza e non, pure verso la dimensione quotidiana della pratica culinaria all’interno delle coordinate. nutrizionali e ‘dietetiche’, relative agli specifici delle ricettistiche nazionali, regionali e locali. Ovviamente, i prodotti ‘gastronomici’ della quotidianità fuoriescono dall’ambito della forma merce consumistica poiché il lavoro ’qualitativo’, occorrente per renderli edibili (ed esaltarne le proprietà), rimane confinato al loro valore d’uso (Marx 1962: 110-11) e non subisce l’equivalenza monetaria astratta dello scambio (a meno che, in ‘famiglia’, i pasti siano confezionati da soggetti esterni, preposti professionalmente alla bisogna). Questo interesse verso la possibilità ‘artistica’ della cucina, nella sua prassi ordinaria e ‘casalinga’, è sostenuto da Perullo (2013), a complemento della riarticolazione del gusto, al di fuori dei parametri emotivi e concettuali che caratterizzano ormai l’offerta gastronomica di ricerca o d’avanguardia 15 incentrata sulla figura demiurgica dello chef stellato.

Di contro ad una cucina che talvolta, come nel caso di Adrià o Redzepi, tiene in second’ordine l’estesico dei componenti per privilegiare il loro impatto estetico, formalistico nella composizione del piatto, in cui il quoziente aptico-assimilativo e gustativo della portata appare secondario rispetto ad un giudizio desensibilizzato, Perullo ricorda che l’atto del mangiare è pur sempre esercizio di introiezione interessata all’interno di contesti conviviali identitari. Questi si compattano intorno ad una nozione ‘basica’ ed ‘abitativa’(Ingold 2000) del gusto, per cui il ‘cucinare’ domestico (quello della familiarità del noto, della tradizione e della memoria, collettive e singole) «è un esempio di rielaborazione creativa del quotidiano» (Perullo 2013: 106). In quanto pratica confortevole e rassicurante, l’espressione ‘dal basso’, non mercatistica, della gastronomia ‘familiare’ non è opposta alla cucina ’alta’ della novità e originalità ideative, legate al prodotto, ma si pone in sinergia di confronto con questa in merito alla rivitalizzazione dell’offerta culinaria a partire dalla ‘tracciatura’ ambientale e sociale in cui tradizionalmente si radica. La «relazione interessata con il cibo, che ha la sua origine nel gesto materno del nutrire dando benessere» (Ibid. 109) è il fulcro pivotale sui cui il paradigma di genere, la mascolinità ‘creatrice e distaccata dell’artista chef, deve ruotare per comprendere meglio il valore estetico e artistico del ruolo ancora marginale della donna come artefice domestica. In questo orientarsi (di abilità, saperi e culture), e attraverso lo scorporarsi dell’individualità singola, unica dell’autore, a favore di un operare maggiormente allargato consiste «il quid  della cucina come arte, che non risiede nel piatto in sé come unicum  irrelato, quanto in catene di processi –dalla coltivazione all’approvvigionamento fino all’elaborazione e alla fruizione del cibo» (Ibid. 130).

Ristorante Don Alfonso 1890

Rispetto a questo scenario (al quadro della cucina ‘abitativa’), dove il risultato dell’esecuzione è indirizzato alla socialità del conforto ‘affettivo’, il nostro interesse è quello di puntualizzare l’artisticità ’improvvisativa’ (e non solo) del prodotto gastronomico all’interno di quei contesti ristorativi che abbinano la professionalità della ricerca, caratterizzata dal menù in chiave creativa, con l’offerta di servizio modulata sui timbri dell’accoglienza amicale e della convivialità ospite. Riprendendo anche quanto sottolineato da Perullo, circa la ristorazione del nuovo che si apre al noto (sia nella gestione famigliare che nella cura e selezione in proprio dell’approvvigionamento delle materie prime ortofrutticole, piuttosto che nell’avanguardismo ai fornelli), nel voler discutere esemplarmente, in seguito ad una verifica esperienziale diretta, la proposta culinaria ‘aggiornata’ di un piatto del ristorante Don Alfonso 1890, ‘swingata’ tra tradizione e innovazione, occorre approfondire in primis il ruolo delle componenti ‘atmosferiche’ che fanno del resort di Sant’Agata sui Due Golfi un approdo estetico sicuro per soddisfare qualsiasi richiesta gourmande.

Come accennato in precedenza, l’elemento atmosferico (in quanto fattore qualificante del lavoro estetico per ottimizzare ‘scenograficamente’ l’economia capitalistica del valore ‘scenico’ nell’orizzonte del consumo contemporaneo) viene prospettato da Böhme anche quale puntello di un approccio ecologico che abbia «a che fare col rapporto tra le qualità dell’ambiente e il modo di sentirsi dell’uomo» (Böhme 2016a: 40). Le atmosfere condividono lo spazio che relaziona reciprocamente il termine oggettivo (naturale/locale) con quello soggettivo (percettivo/simbolico).

Il filosofo tedesco riprende, armonicamente, il concetto di aura di Benjamin, l’intersoggettività ‘olfattiva’ e ‘gustativa’ di Tellenbach, l’erotica cosmogonica di Klages e la filosofia ‘corporale’ di Schmitz, allargando l’esperienza estetica oltre le sfere del giudizio e della comunicazione (che circoscrivono da sempre la produzione e la ricezione ‘artistiche’) per rivendicare medesima dignità ontologica alla sensibilità corporea e alla qualità ‘sentimentale’ spazio-temporale. La produzione di atmosfere facilita, così, l’analisi delle proprietà degli oggetti, degli ambienti e degli stessi esseri umani a partire dal loro grado di radianza, cognitivamente come presenze “fuori di sé” piuttosto che come determinazioni differenzianti.

Veniamo alla ricetta ed alla sua rielaborazione creativa (da parte dello chef Ernesto Iaccarino), così da valutarne la rispondenza analogica rispetto ai parametri funzionali per definire gli oggetti artistici (concettuali e tradizionali, precedentemente intesi in senso ampio) quali possono essere il veicolare idee, incarnandole in costrutti mediali, l’esemplificare e l’improvvisare.

Si tratta della pasta (spaghetti) all’aglio, olio e peperoncino. La versione base di questo piatto campano, d’origine plurisecolare, prevede l’utilizzo di spaghetti, olio extravergine, peperoncino, aglio, prezzemolo e sale. Se stiamo alla carta 2020 di Don Alfonso 1890, la descrizione della portata, come primo, si articola in questo modo: «Spaghetti aglio, olio e peperoncino con palamita in carpione, battuto di pan grattato, pinoli, prezzemolo e cipolla con emulsione di tonno». Viene classificata come ‘creazione 2013’, rientra nel menù Degustazione a 180 euro e singolarmente costa 36 euro. Le coordinate di senso, alla base della sua realizzazione, sono sintetizzate dal suo creatore così:

«Questo piatto esprime l’idea della nostra cucina che si ispira alla dieta mediterranea: carboidrati, pesce azzurro, erbe e olio extravergine di oliva. Esprime un’idea di cucina che oltre a catturare il palato, si preoccupa di cucinare sano e oggi dopo tutto quello che è successo deve diventare un must per ogni chef».

In accordo con la citazione da Eduardo De Filippo, in calce alla lista cartacea delle vivande, che rimanda al rispetto e conoscenza della tradizione, scevri però da adattamenti conservativi statici verso di essa ma votati anzi dinamicamente alla sua innovazione, le indicazioni operative di Ernesto Iaccarino s’incentrano sulla precisazione qualitativa e appagante del gusto, all’interno di coordinate culturali storico-ambientali specifiche, non come esperienza fine a se stessa, esteticamente risolta solo sul piano giudiziale extra-dietetico, ma, in linea con quanto già detto sull’abitabilità della cucina, orientata anche al «benessere quotidiano dei commensali» (Perullo 2013: 114). Il piatto, dunque, esplicita la propria significatività (come costrutto artistico), anche se fa riferimento all’interesse del valore d’uso ‘commestibilmente’ appropriato’ (che per Perullo ha valore gastronomico comunque artistico), in quanto precisa la salienza delle sue proprietà (il risultato della performance in cui gli ingredienti sono scelti, cucinati e presentati) per esemplificare i contenuti ideativi dichiarati, ‘sinesteticamente’ assimilabili in modo aptico 16.

La referenza alla dieta mediterranea presuppone però uno sguardo diverso, contemporaneo, rispetto alla realtà storicamente situata in cui la ricetta prese forma. Alla contestualità normativa di necessità ‘povera’, che ne circoscrisse gli elementi di base, l’interpretazione, quantitativamente più ‘faconda’, di Iaccarino aggiunge il carattere della qualità gustativa/nutritiva, modulandolo in base alla riconsiderazione del regime alimentare orientato da una prospettiva culturale salutista e attenta alle risorse del territorio. Gli elementi di novità improvvisativa del piatto sono la risultante di un avvicinamento progressivo a questi parametri, con effetti sensibili, materiali ed emotivi, tanto che gli aggiustamenti e gli equilibri compositivi – come la recente sostituzione dello sgombro con la palamita – intervengono al termine di un iter prassistico quotidiano, articolato sul lungo periodo, e calettato sempre in sintonia con la rispondenza papillare del pubblico. Inoltre, l’offerta si corrobora, riguardo all’autenticità del suo dimensionarsi creativo, in quanto memoria ‘istruita’ che disegna il proprio profilarsi eveniente all’interno di un contesto atmosferico d’accoglienza perfezionato nel tempo e ‘affezionato’ dallo spazio.

Ripercorriamo narrativamente 17 l’esperienza della sua fruizione in quanto performance situata. L’ingresso del relais della famiglia di Alfonso e Livia Iaccarino ( un vero e proprio borgo che ospita hotel, ristorante, giardino, il blocco per i corsi di cucina, boutique e cantina) apre su un vialetto alberato: alla sinistra l’elegante silhouette con ampie vetrate dello spazio ristorativo, ricavato da un edificio del XIX sec., sulla destra l’ambiente-accoglienza e punto vendita dei prodotti dell’orto biologico dell’azienda famigliare “Le Peracciole” (ubicata a Punta Campanella). Si viene indirizzati, prima di adire al ristorante, nell’accogliente salotto-lounge della boutique per acclimatarsi allo spirito della proposta gastronomica mediante la consultazione dei menù e la ‘ricognizione’ distratta di conserve, miele, olio extravergine di oliva, liquore di limoni, prodotti dalla casa, e diverse qualità di pasta di semola di grano duro di piccoli produttori di fiducia, che campeggiano con libri e cataloghi in ordinate ed eleganti teche. Sulla soglia della salle à manger, la signora Livia, che fa gli onori di casa, trasmette l’empatica sensazione di farvi partecipare ad un convivio amicale. La sistemazione ai tavoli compete invece al figlio Mario, impareggiabile maitre de maison, che sovrintende con discrezione e garbo alla professionalità dei sommeliers e addetti al servizio. L’ambiente principale, una sala quadrangolare con una ventina di coperti, pareti a toni pastello bianco rosa e pavimento a losanghe di eburnea ceramica smaltata, si apre sulla cucina a vista e su un piccolo vano con vetrinette riempite di statuine di Capodimonte.

Accomodati intorno ad una tavola circolare, che guarda direttamente la stanza delle sculture, ci siamo attenuti alla scelta di alcuni piatti che l’agile carta delle portate, ripensata dallo chef Ernesto in accordo col padre Alfonso, riconduce – aprendosi, come già ricordato, con una citazione di Eduardo de Filippo – ad una rivisitazione della dieta mediterranea accorta e proficua. In particolare, dopo una doppia sapida amuse-bouche (su cui spiccava la morbida fragranza di un calamaretto farcito di burrosa provola su una vellutata di verdure), gli spaghetti aglio, olio e peperoncino (con tocchetti di sgombro ripassato in carpione con vino e aceto bianchi, olio. aglio e sale) 18, costruiti per appagare subito l’occhio in conico slancio, hanno amalgamato con fermezza il croccante pastoso del pangrattato e i pinoli con l’aperto amarognolo dei componenti amidacei della pasta. Inoltre, in bocca, le diverse sfumature di acido, dal persistere gentile della colatura di alici nella salsa tonnata con l’alalunga, olio, aceto balsamico e mostarda, all’intrusivo agro-dolce della cipolla caramellata fino alla quieta basicità dello sgombro, contribuiscono ad esaltare l’assimilazione papillare, preceduta già dalla ‘risonanza’ dei sapori nell’olfatto retronasale, della materia alimentare. Di fronte a questo piatto, che il sommelier Maurizio Cerio ci ha consigliato di accompagnare con un bicchiere di Fiano di un piccolo produttore locale, viene naturale condividere quello che Hubertus Tellenbach scrive rispetto al ruolo formatore del gusto sin dalla sua primigenia ‘espressione’ aptica: «Ciò che allora è offerto alla lingua è un pezzo di cultura» 19.

Infine, occorre aggiungere che gli echi della cucina povera di mare, suggeriti dall’utilizzo dello sgombro e dell’alalunga, sono rinvigoriti qui da un richiamo ‘simbolico’ alla tradizione locale di terra, ‘rappresentata’ dal battuto di pangrattato, prezzemolo e cipolla con la salsa di prezzemolo, olio extravergine, sale, tapioca (variante ‘extradiegetica’ innovativa ai tuberi sorrentini) e acqua frizzante.

La singolarità della performance della ricetta, in cui «tutti gli altri elementi corollari al piatto[…] contribuiscono se non determinano la riuscita di un pasto» (Mastrovito 2018: 61), di conserva con la sua presentazione ‘appetibile’ per la nostra esperienza gustativa, esemplifica anche i caratteri della dieta mediterranea con la ‘messa in scena’ dell’impiattamento. circostanziata all’ambiente di consumo e alla ritualità sociale che ruota intorno a quello. Arte del concreto (la pasta è espressione performativa del mangiare mediterraneo), il piatto di Ernesto Iaccarino ne diviene la risultante sinergica rispetto a quanto afferma Kirshenblatt-Gimblett:

«Primo, performare (to perform) è fare, eseguire […] in altre parole, tutto ciò che regola la produzione, presentazione e disposizione del cibo. Performare, in questo senso, è fare e servire cibo. Concerne anche materiali, attrezzi, tecniche, procedure e azioni.

Secondo, performare è comportarsi. […] Significa comportarsi appropriatamente in relazione al cibo a qualunque punto della sua produzione, consumo, o disposizione, ciascuno dei quali può essere soggetto a precisi protocolli o tabù.

Terzo, performare è mostrare. Quando il fare e il comportarsi sono messi in atto, quando sono mostrati, e i partecipanti sono invitati a esercitare discernimento, valutazione e apprezzamento, gli eventi commestibili assumono un carattere teatrale, o meglio, spettacolare» (1999: 1-2).

In questo quadro, il piatto (inteso come esperienza del pasto) non suggerisce solo idee o propositi espressivi delle stesse, ma ne modella l’ordito con un’orchestrazione a più voci ( o meglio, a più mani), precisata nel tempo e nello spazio dal ristoratore (in merito all’identità del suo ‘sapere’ culinario), in cui commensali e ospiti fungono attivamente da specchio. Anche per loro si tratta di agire, comportarsi e mostrare, rispondendo in senso valutativo alle sollecitazioni ‘consumabili’ di gusto loro proposte, che la salienza di fondo delle proprietà edibili, oltre arricchire il piacere ‘interessato’ estesico, restituisce ai sensi minori ‘aptici’ la dignità estetica a lungo sottaciuta.

Giancarlo Pagliasso

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Note

  1. Tale aspetto viene visualizzato, in termini paradossali, nel video ‘pubblicitario’ Superconsumers del gruppo Universal Everything, proiettato su una parete esterna del grande magazzino Hyunday di Seoul, in cui l’identificazione ‘scenica’ è osmotica con i prodotti dal momento che i/le consuma-tori/trici, deambulando tra i vari reparti-vendita, “metabolizzano i loro desideri di acquisto umanizzandoli e portandoli in vita come una sfilata di personaggi diversificata e animata” (Bianco 2021).
  2. Cr., su questo punto, anche, Griffero 2020: 46.
  3. Le medesime coordinate di senso si ritrovano anche nell’abbigliamento intimo (in particolare, quello femminile quotidiano non sexy), che pur avendo grande valore significativo in ambito interpersonale, non possiede l’ampiezza della visibilità sociale dei capi di vestiario ‘pubblici. Infatti, dallo slip all’assorbente, la narrazione pubblicitaria ne esalta la funzione estetica, propedeutica ad assecondare una vita sessuale appagante senza limiti d’età, relegando ai margini quella di contenimento ai fluidi fisiologici. Questi ultimi sono divenuti indirettamente ‘proprietà’ estetiche, a conferma che la funzione-valore d’uso dei prodotti è ormai insignificante, nelle candele al profumo di vagina lanciate con successo dal brand dell’attrice Gwynetrh Paltrow.
  4. Caldarola qui sembra riprendere le formulazioni di Wesley D, Cray, circa le opere concettuali, come “artefatti intrisi di idee” comprendenti “not only physical objects, events, activities, or other things created or modified by agents, but also natural and otherwise unmodified objects merely indicated or selected by agents” (Cray 2014: 235, 239).
  5. Elgin cita l’esperimento mentale di Galileo (delle due pietre legate insieme di peso diverso), per insistere sulla contraddizione logica nella teoria aristotelica della caduta dei gravi, come esemplificazione della sua erroneità e della non necessità, per confutarla, di addivenire con un esperimento reale ad una dimostrazione pratica (2018: 33)..
  6. Il lavoro del Judson Dance Theatre, il collettivo che coreografa il movimento quotidiano, viene indicato da Elgin tra gli esempi di pratica artistica che induce lo spettatore a riflettere sui gesti banali eseguiti in scena per esemplificare salienze e specificità prima non notate in loro (2018: 35)..
  7. A cominciare dall’antesignano Yves Saint-Laurent negli anni ‘60 con la geometrie sartoriali ispirate a Mondrian e Malevic, questo diventa ancor più evidente allorché l’indumento ‘riproduce’ iconicamente particolari di lavori di artisti, ‘pensati’ per essere indossati, come nelle collezioni di Gucci, Balenciaga e, recentemente, di Dior, con la collaborazione ‘tematica’ (ispirata alla street art) di Kenny Scharf per le sfilate pre-autunnali 2021 della maison francese e, per quelle maschili invernali 2021-22 (incentrate sul rapporto tra umani e natura), di Peter Doig. Vedremo come nei prodotti dell’alta gastronomia, quali la Action Pizza dello chef Enrico Crippa, che ‘allude’ al dripping di Pollock, questo aspetto sia ulteriormente declinato..
  8. Relativamente agli abiti che si presentano come ‘opere d’arte da indossare’ (vedi la collezione di Dior, con i ‘tessuti su cui sono ‘istanziati’ la tavolozza cromatica e i soggetti iconografici di Doig, o le proposte ‘bizantine’, legate ai mosaici di Monreale, di Dolce & Gabbana), l’esemplificazione agisce ad un doppio livello: uno letterale nel quale le loro proprietà intrinseche sono sussunte a quelle appropriate dell’opera dell’artista, l’altro metaforico, di rimando alla loro istanziazione metonimica, rispetto all’immaginario della narrazione identificativa che sarebbero in grado di produrre (laddove la ‘proprietà’ individuale di ‘diventare’ opera’ col possesso, uno dei gradienti di gusto di arricchimento della vita, promesso al consumatore assurto al ruolo di collezionista di sé, non può essere esemplificata altrimenti che come devoluzione della propria immagine tramite lo sguardo pubblico spersonalizzante).
  9. Se si esamina però il ready made ‘orinatoio’ al di fuori del nominalismo metaforico puro di Duchamp e lo si guarda come risultato di una performance improvvisativa-evenemenziale (che diviene così il prop ontologico allargato di orientamento). come fa Alessandro Bertinetto, la sua trasformazione in ‘artefatto’ artistico non implica tanto un mutamento di sostanza (Danto 1981) quanto di riconsiderazione assiologica, ma soprattutto “il rapporto di indiscernibilità tra arte e realtà“, che riesce ad attivare, “è proprio non solo dello specifico carattere artistico di entrambe le pratiche, ma anche, per definizione, conditio sine qua non della loro esistenza» (2018: 213).
  10. Questo assunto polemico-sarcastico è addirittura rinforzato quando il prop ‘fisico’ (l’orinatoio) diviene supporto metaforico ulteriore come nell’interpretazione di Waldemar Januszczak che, partendo dalla nota diaristica duchampiana del 1914: “Non si ha che: per femmina il pisciatoio e se ne vive” (Duchamp 1975: 28), avanza l’ipotesi che il ready made e il suo ‘titolo’ alludano all’organo sessuale femminile. L’obiettivo di Duchamp, secondo la ricostruzione di Januszczak, era quello di far riflettere, attraverso il rimando metonimico vaginale, sulla rozzezza realistica del capolavoro di Courbet L’origine del mondo, che, “facendo troppo affidamento su ciò che si poteva vedere, aveva privato l’arte del suo simbolismo e dei suoi significati concettuali” (2020). Per Duchamp, la pittura di Courbet era esempio massimo, da cui rifuggire, di arte retinica o, come ricorda Federico Vercellone, “spazio retinico di un desiderio insoddisfatto” (2021).
  11. Nel senso che i profumi “estendono l’attrazione e la seduzione originarie prodotte dagli odori cutanei” (Tellenbach 1968: 23), accrescendo “la potenza della relazione estesica con il mondo” (Le Breton 2006: 255).
  12. https://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:BJIQFmPnCpwJ:https://www.lvmh.it/notizie-documenti/notizie/charlize-theron-a-triumphant-muse-in-the-new-campaign-for-jadore-absolu-by-parfums-christian-dior/+&cd=18&hl=it&ct=clnk&gl=it. .
  13. Perullo assegna al Type musicale (inteso come spartito o testo scritto) un valore ontologico forte, la cui presenza fa sì che “l’opera musicale esiste prima della sua esecuzione, in quanto realizzata nel gesto ideale (e anche materiale,  provandola in propriodell’autore“, mentre la ricetta non avrebbe il medesimo statuto “perché è nel ductus dell’artefice che essa si produce“. La ricetta, per lui, non è altro che una proposta o un indizio dal momento che “È solo con la sua realizzazione in pratica che l’opera vive, e solo in quella” (Perullo 2013: 60). Questo invalida a suo parere l’analogia tra spartiti e ricette.
  14. Come affermato sopra, Perullo riserva questa posizione solo alle ricette.
  15. Questa cucina emozionale promuove un modello che possiamo senz’altro definire concettuale intendendo con ciò l’elaborazione di artefatti ed esperienze che non mirano necessariamente né primariamente al buono – e al relativo piacere, inteso come godimento sensibile – ma al nuovo e all’originale per stimolare emozioni e piaceri di qualità intellettuale e  culturale” (Perullo 2013: 82)
  16. In merito alla percezione qualitativa nell’apticalità, Perullo scrive:” Il gusto o il gustare – secondo l’estetica ecologica non c’è differenza tra il senso e l’esperienza[…] si esprimono secondo modularità che emergono nel corso della loro percezione e della loro nominazione[–]tutte queste differenti articolazioni della qualità conducono ad una sola considerazione sensata: essa non è un fatto ma un valore” (Perullo 2020: 110, 112).
  17. Senza voler però individuare “strutture semionarrative profonde determinate dall’assiologizzazione della commestibilità” (Mastrovito 2018: 17).
  18. La sostituzione dello sgombro con la palamita (forse per insaporire ulteriormente la composizione) è avvenuta nel 2020, dopo la nostra visita a Don Alfonso 1890, effettuata invece nel 2018
  19. In sintonia con Brillat-Savarin sulla ricaduta socio-culturale del gusto, Tellenbach afferma: “Una pietanza delicata costituisce l’espressione eminente di una cultura […] Gusto è sempre qualcosa che deve la sua formazione agli apprezzamenti valoriali specifici di unità sociali […] degustando partecipiamo al “gusto” degli altri esseri umani che appartengono al nostro mondo” (Tellenbach 1968:40-41).