di Ennio Bianco.
In una cena fra amici artisti e curatori, una di quelle cene in cui peraltro nascono le migliori idee creative, c’è sempre il momento in cui, discutendo di opere viste in qualche galleria o fiera, ci si avvita nella discussione fatta di “questa però non è arte!” oppure “ah, quella è vera arte!”. Alla fine ecco farsi spazio la domanda: “Ma l’arte cos’è?”. A quel punto la migliore strategia è cambiare discorso, perché le definizioni di cosa sia l’arte sarebbero tante quante i commensali, probabilmente molte di più se consideriamo che ognuno di loro potrebbe citare frasi pronunciate da altri artisti o critici.
Bruce Nauman: «Il punto in cui il linguaggio comincia a non funzionare più come utile strumento di comunicazione è anche quello in cui intervengono la poesia e l’arte».
Andy Warhol: «Non penso nulla sul fare arte, semplicemente la faccio. Lascio a ciascuno decidere se è buona o cattiva, se la ama o la odia. Mentre loro stanno decidendo, ne faccio dell’altra.»
Il nodo gordiano è che non c’è una definizione univocamente accettata. Possono essercene molte, ma nessuna funziona completamente. Possiamo dire però che l’arte contemporanea rispecchia la cultura contemporanea e la società.
Ora, la cultura planetaria è stata profondamente modificata nel corso degli ultimi 40 anni con l’emergere prepotente del software, dell’elettronica delle tecniche di audio-visualizzazione digitale, dell’automazione robotica e dell’intelligenza artificiale. Queste tecniche digitali sono compenetrate sempre più negli strumenti che aiutano a vedere, ad ascoltare, a lavorare, studiare e pensare, viaggiare, comunicare, acquistare, visitare luoghi di cultura, ecc. e sono diventate largamente pervasive negli ambienti in cui sono utilizzate tanto che di fatto costituiscono una grande parte della soggettività, oltre che della nostra vita in rete.
In altre parole siamo entrati nell’Era Digitale e dal momento che tutti i campi del sapere, senza eccezione, e tutti gli aspetti dell’organizzazione sociale, sono sempre stati reinventati in conseguenza degli sviluppi dei sistemi tecnici che costituiscono la cultura, ecco farsi strada con sempre maggiore forza l’Arte Digitale.
La definizione di Arte Digitale è molto ampia se consideriamo che con essa si comprende qualsiasi lavoro che utilizza il computer, quindi uno strumento che elabora informazioni codificate, come una risorsa fondamentale del processo creativo.
Quando uno spettatore si trova di fronte ad un’opera di Arte Digitale, non si trova ai margini del pensiero e della cultura contemporanea solo perché altre opere di pittura o scultura vengo battute all’asta a cifre iperboliche, ma si trova in quell’area di frontiera intellettuale dove Scienza, Tecnologia e Arte dialogano in modo serrato, confrontandosi non solo sull’abbondanza di tecnologie emergenti messe a disposizione degli artisti, ma anche su come intraprendere nuovi programmi di indagine, su come visualizzare risultati raggiunti suscitando lo stupore dello spettatore, ma soprattutto su come criticare le implicazioni sociali della ricerca, là dove si può prevedere un trauma tecnologico.
Soffermiamoci su quest’ultimo punto che ritengo particolarmente importante.
Marshall McLuhan, a questo proposito, scriveva nel suo famoso libro “Understanding Media” (1964): «L’artista è l’uomo che in qualunque campo, scientifico o umanistico, afferra le implicazioni delle proprie azioni e della scienza del suo tempo. E’ l’uomo della consapevolezza totale.» E, per quanto riguarda l’arte, eccolo fornire una definizione consequenziale: «…l’arte è una precisa conoscenza anticipata di come affrontare le conseguenze psichiche e sociali della prossima tecnologia…»
Per Mariano Sardon questa definizione di arte calza perfettamente, è esattamente questo il suo filone di ricerca. Le prime opere di Mariano Sardon che vidi ad Artissima, e che mi colpirono, furono dei video nei quali l’immagine di partenza, del tutto nera, veniva via via svelata da dei tratti ora lineari ora ondivaghi; una sorta di cancellature al contrario. Quando mi informai dal gallerista Francesco Pandian quale fosse lo strano algoritmo usato dall’artista mi rispose che Sardon aveva collaborato al progetto di ricerca Morfologie dello sguardo (Morfologías de las Miradas) con l’Universidad Nacional de Tres de Febrero e il Laboratorio di Neuroscienze Integrative dell’Università di Buenos Aires, e grazie a dispositivi di eye-tracking aveva registrato il movimento dello sguardo delle persone che avevano collaborato all’esperimento e in particolare aveva registrato i punti in cui il loro occhio si era soffermato con attenzione una volta mostrata loro una immagine.
Questo succedeva qualche anno fa, veniamo ora ai nostri giorni. Si parla molto di Metaverso, una realtà digitale che combina aspetti di social media, giochi online, realtà aumentata (AR), realtà virtuale (VR) e criptovalute, per consentire agli utenti di interagire virtualmente; un universo stratificato e integrato in cui realtà virtuale e realtà fisica verranno percepite come un’unica realtà. Dispositivi basilari per immergersi nel Metaverso sono gli Apple Glass, i Google Glass, Ocolus Quest 2, ecc., ebbene questi dispositivi, per poter offrire una corretta visione, devono avere una funzionalità eye-tracking.
Proprio qualche settimana fa mi è capitato di leggere un articolo, datato ma sempre valido, “For XR, the Eyes are the Prize” a firma di Avi Bar-Zeev, uno dei massimi esperti internazionali di XR (XR conprende AR, MR e VR), nel quale l’autore metteva in guardia tutti noi: «Gli esseri umani si sono evoluti per leggere le emozioni e le intenzioni in gran parte attraverso i nostri occhi. La moderna tecnologia di eye-tracking può andare oltre, promettendo nuove meraviglie nell’interazione uomo-computer. Ma questa tecnologia aumenta anche il pericolo per la tua privacy, le libertà civili e il libero arbitrio. »
Inutile dire che ho pensato subito alle opere di Mariano Sardon di qualche anno fa; lavori che mi avevano stupito e affascinato e nello stesso tempo fatto riflettere, ma che oggi si rivelano delle intuizioni formidabili. Con grande anticipo Sardon aveva infatti capito le potenzialità e nello stesso tempo la problematicità di quel percorso di ricerca.
Ma veniamo all’oggi, alle opere che Mariano Sardon presenta alla Galleria Artericambi di Verona (8 maggio – 9 luglio 2022). In “Orbiting Objects” egli parte dai dati delle posizioni degli oggetti e detriti spaziali che orbitano attorno alla terra e, dopo averne considerato il continuo aumento, sembra suggerire agli astrofisici che oltre alle sfere che avvolgono il nostro pianeta (troposfera, stratosfera, mesosfera, termosfera, esosfera) andrebbe aggiunta una nuova sfera: la “oggettosfera”.
«La nostra società – egli afferma – ha bisogno di essere ripensata in molti aspetti diversi, principalmente i nostri atteggiamenti di consumo e il nostro rapporto con la Natura e il Cosmo. Noi, come umanità, abbiamo esteso il nostro consumo e inquinamento ovunque sul nostro pianeta, estendendoci non solo sulla superficie terrestre e nelle profondità dei mari, ma anche nel nostro spazio esterno come un continuum del nostro sistema di produzione associato al nostro sfruttamento e atteggiamento inquinante. »
Cosa si può aggiungere a questa denuncia, a queste le sue parole così precise?
Tuttavia Mariano Sardon aveva un problema: come visualizzare tutto questo? Come far percepire allo spettatore che l’oggettosfera non era poi solo nello spazio siderale, ma partiva dal proprio ambiente quotidiano, dall’allacciamento intricato che ormai abbiamo con i dispositivi tecnologici, con gli oggetti di consumo di massa che incorporano le nuove funzionalità dell’intelligenza artificiale. “Entagled” è una parola inglese che sta appunto per allacciato, aggrovigliato, impigliato, intrappolato, ecc. e che diversi artisti della AI Art utilizzano per presentare nuove opere in cui il naturale e l’artificiale sono ormai un tutt’uno, si muovono guidati dagli stessi algoritmi.
Nell’Arte Digitale quando si parla di algoritmi non si parla di fredde sequenze di istruzioni capaci di generare un’immagine o un flusso continuo di immagini, ma si parla degli strumenti basilari che l’artista digitale ha a sua disposizione, qualcosa di simile alla chimico-fisica dei colori dei grandi maestri rinascimentali o alle tavole prospettiche del Brunelleschi. L’Arte Algoritmica nasce già negli anni sessanta del secolo scorso con i primi artisti che affrontavano la cibernetica, ma non ha mai smesso di evolversi e di consentire la produzione di opere spettacolari, come è il caso dei “Wind Tunnels” di Mariano Sardon.
Chi di noi, cogliendo su un Soffione ( il “Tarassàco comune” della famiglia delle Astraracee) non vi ha soffiato tutta l’aria che aveva in corpo, giusto per guardare disperdersi la sua infruttescenza nel panorama?
Potendo, non dubito che avremmo deciso di soffiare anche su tutto il panorama circostante.
Ecco, quel soffio, quel vento, Mariano Sardon lo ha ricreato con un algoritmo ed ha deciso di applicarlo su ogni pixel delle immagini ricavate da dataset on line, per suggerirci una metafora che riguarda la nostra società, la nostra cultura. Una cultura che nell’Era Digitale è caratterizzata da una enorme disponibilità di grandi masse di dati collegati fra loro, ma che tuttavia annaspa a causa dei problemi della proprietà intellettuale, della privatizzazione della conoscenza, e soprattutto dell’accesso non mediato alle diverse opinioni.
«Siamo in un processo di trasformazione sociale in cui le categorie precedenti si stanno confondendo. Viviamo in un mondo in via di estinzione, in cui ogni concezione è messa in discussione e le cose che abbiamo conosciuto sono cadute. Se abbiamo vissuto in una modernità liquida, stiamo vivendo in una realtà gassosa », chiosa Sardon nel presentarci questo straordinario gruppo di opere, di grande fascino e bellezza.
Ennio Bianco
Immagine in evidenza: © Mariano Sardon – frame dal video “Orbiting Objects – Buenos Aires – latitude -34.6 and longitude -58.4.”, 2021
MARIANO SARDÓN – TUNNELS OF WIND
8 Maggio 2022 – 9 Luglio 2022
ARTERICAMBI GALLERY
Via Leida 6/A, 37135 Verona
335 1330087; artericambi.com