di Sergio Marinelli.

Francesco Erizzo (18.2.1566-3.1.1646), figlio di Benedetto e Marina Contarini, fu eletto doge di Venezia nel 1631, alla fine della grande peste, con esito plebiscitario, al primo scrutinio, 40 voti su 41, a conferma di una popolarità, e di un gradimento, decisamente rari e indiscussi, e che poi non vennero meno. La sua figura restò un simbolo riconosciuto della concordia sociale e dello Stato. La famiglia, di antica origine istriana, entrata già dai tempi della Serrata nella stretta cerchia del potere veneto, si affermò sulla scena politica tuttavia solo con Francesco. Aveva iniziato nel 1590 un cursus honorum tradizionale per i funzionari veneti, che comprendeva i passaggi rituali, da Salò a Palmanova.
Il periodo del dogado fu tra i più fortunati e felici a Venezia, con la ripresa di tutte le attività economiche, artistiche e ludiche, dove forse il gran merito di Francesco fu di non ostacolare, ma di lasciar scorrere il tempo favorevole, il kairòs in cui la città si trovava piacevolmente immersa. Del resto il ruolo dogale non era più di per se decisivo ma solo rappresentativo del buon andamento dell’insieme delle attività economiche e politiche. La sua restò comunque una delle ultime età auree della Serenissima.
Fin quasi alla fine. Il 7 dicembre 1645, allo scoppio della guerra contro i Turchi, realisticamente già persa in partenza, ormai quasi ottantenne, fu nominato, quasi fosse un portafortuna, a capo delle armate venete, ma neppure un mese dopo, il 3 gennaio1646, moriva, s’intuisce schiacciato dal peso e dalla responsabilità della carica, accettata ancora con un senso del dovere assoluto, che arrivava alla sua fine.
In questa storia politica superiore s’inserisce anche quella esistenziale di Bernardo Strozzi, genovese (1581c.-1644), tra i massimi pittori del suo secolo. Bernardo era frate cappuccino, come altri contemporanei (Paolo Piazza, Fra Semplice, Fra Massimo), favoriti dall’ordine, che aveva fatto della pittura uno degli strumenti più efficaci della predicazione. Ma presto la gloria della pittura e i risultati della predicazione non collimarono più nell’attività dell’artista, che si mise in urto col suo ordine, forse per ragioni di prestigio e di soldi, finì agli arresti domiciliari, per raggiungere alla fine, nel 1633, con una rocambolesca fuga, Venezia, la nemica antica e tradizionale della sua patria, liberandosi finalmente sia dei cappuccini sia dei genovesi. Iniziò da qui la sua stagione artistica più felice, anche per i contenuti delle immagini, e soprattutto per i colori, dove tornavano le tonalità calde e splendenti che gli antichi maestri, visti a Genova, Rubens e van Dyck, avevano già a loro volta conosciuto a Venezia. E così la sua stagione artistica, ed esistenziale, più felice coincise pienamente col dogado di Francesco Erizzo.
Certamente le opere del periodo iniziale di Strozzi, caratterizzate da un chiaroscuro teso e severo, sono ugualmente e diversamente valide da quelle successive. L’immagine che tuttavia resta di lui, come artista, è quella libera, laica e trionfale del momento veneziano. Il pubblico ignora ormai totalmente i meschini nomignoli spregiativi di “cappuccino” o di “prete genovese”. L’artista conservò tuttavia volutamente il termine di “presbyter” nelle scritte dedicatorie, anche in quelle di Boschini, anche se a noi oggi sembra quasi contraddittorio con la sua nuova pittura: olim sacerdos, semper sacerdos
Ne ha sofferto di più la figura dello stesso Strozzi, trattata sempre, almeno di fatto, in modo parziale, riduttivo, scollegato e schizofrenico, dai liguri che vedono come un’appendice scontata, quasi di decadenza, il periodo veneziano, dai veneti che semplicemente ignorano quello genovese. Riconsiderata invece nella sua coerente unità e continuità, la figura di Bernardo Strozzi appare invece semplicemente grandiosa.
A Venezia la pittura di Bernardo assume una dimensione grandiosa anche nella ritrattistica, come appare nella figura dell’autorità suprema dello Stato, il doge Francesco Erizzo. Veramente ciò che sorprende nel ritratto è la profonda umanità. Diversamente dall’aria luciferina di Giovanni Grimani, futuro Procuratore di San Marco, da quella furba e sfuggente del cardinale Federico Corner, dai tratti intellettualmente affilati, come nei volti del Greco, di Claudio Monteverdi.
Del doge colpisce subito il fasto dell’abito, che era ormai un costume storico, della tradizione del passato, con stoffe e colori preziosi di rosso, bianco dell’ermellino, giallo oro. Accostati, per contrapposizione, ai tratti sereni e distaccati del volto, non idealizzati nella stanchezza della sua vecchiaia, ne esce come l’effetto psicologico di un Babbo Natale dello Stato, una figura sicuramente paterna e affidabile. Perché ormai l’immagine del doge a Venezia doveva apparire come una maschera, salvo la copertura del volto, specialmente a uno straniero non aduso alla tradizione. La sorpresa della scoperta della qualità pittorica è già nelle parole di Giuseppe Fiocco, nel 1922: “Il ritratto…dovette essere un trionfo ed è certo anche per noi uno dei più mirabili dipinti del tempo; degno di un Vélazquez per la severità dell’espressione e per la sapienza del tocco fluente e costruttivo.”
C’era a Venezia una pratica della ritrattistica dogale, dai Bellini a Catena, a Tiziano, a Veronese, ai Tintoretto, a Leandro Bassano, a Palma il Giovane. Strozzi, che non aveva mai dipinto i dogi di Genova, come farà poi il Mulinaretto, s’inserisce ora come primo degli stranieri, come un profugo politico che ringrazia con l’immagine dipinta il suo accogliente benefattore, forse subito dopo l’asilo veneziano del 1633. Davvero il doge doveva apparire ai suoi occhi il salvatore, come nel dipinto s’intuisce, se non anche si vede.
Significativamente, a curare la pratica dell’asilo politico fu Fra Fulgenzio Micanzio, un vecchio segretario di Paolo Sarpi, che si riallacciava apertamente alla tradizione autonomistica del clero veneto.
La figura del doge non si confronta con quelle più intense del passato, come l’ostinato e collerico Agostino Barbarigo, di Giovanni Bellini, o l’emaciato e straziato Francesco Venier, di Tiziano. ‘E soprattutto un riconoscimento di profonda e sincera riconoscenza, e di distacco aristocratico.
Del dipinto si conosce una bellissima incisione di Marco Boschini, grande sostenitore di Strozzi nella Carta del Navegar pittoresco, del 1660, dove la figura del pittore, che viene fatto parlare, pare davvero ancora viva. Ma latraduzione in bianco e nero carica l’immagine, privata dei suoi felici colori, come in negativo, di drammaticità e malinconia.
Il ritratto di Vienna arriva al museo nel 1824, con l’attribuzione a Pietro della Vecchia. La provenienza è, secondo Fiocco, dal Palazzo Ducale di Venezia ma è molto improbabile, in quanto non si conservavano nel palazzo i ritratti dei dogi dopo la loro fine. Forse finì, all’epoca degli austriaci, nel depositorio del palazzo, per esser poi portato a Vienna come preda di guerra, ma non fu rivendicato dagli italiani tra le restituzioni del 1919. Forse per la presenza della replica veneziana. Per i suoi sgargianti colori doveva esser particolarmente apprezzato al tempo dei quadri storici della nuova età romantica, all’inizio dell’800.
Del dipinto esiste una variante, meno intensa, proveniente dalla villa degli Erizzo a Bassano, oggi conservata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Altre copie o varianti sono apparse, anche recentemente, sul mercato antiquariale, a testimoniare il prestigio del prototipo. Un ritratto di Francesco Erizzo, più vecchio, pure attribuito a Strozzi al Museo di Phoenix, non è autografo.
In uno spirito diverso il doge commissionò ancora in vita, nel 1634, il proprio monumento funebre a San Martino di Castello, vicino al palazzo di famiglia, a Matteo Scaramuzza, con la sua statua in posa eloquente, in trono, a grandezza naturale, scolpita dallo specialista trentino Mattia Carneri. Anche qui l’oro del mosaico e quello del disegno delle vesti erano ormai il colore del paradiso barocco.
Di sua volontà il doge lasciò invece il suo cuore alla basilica dello Stato, San Marco, dove ancora si trova sotto una lastra pavimentale marmorea, che reca le immagini icastiche del corno dogale e del riccio, a testimoniare il suo patetico attaccamento, eterno e assoluto, a Venezia.
Sergio Marinelli
Un capolavoro per Treviso
Dal Kunsthistorisches:
IL RITRATTO DEL DOGE FRANCESCO ERIZZO
di Bernardo Strozzi
Civico Museo di Santa Caterina
Treviso
