Sebastiane e gli altri. Storia dei corpi per un’origine del cinema queer

di Ginevra Amadio.

Tracciare una mappa del cinema queer significa anzitutto incrociare le direttrici del tempo e dello spazio, consapevoli che una perimetrazione del genere comporta la necessità di costeggiare le zone dell’immaginario, terreno di codificazione slabbrato, dai contorni mai univoci, mai pacificati. Tempo e spazio perché è possibile ipotizzare uno slittamento geografico a partire dagli anni Zero, quando la tematica (con i suoi rivoli di motivi, iconografie, simbologie) va diffondendosi, assumendo una struttura più “salda” nell’Europa occidentale dopo decenni di narrazione statunitense fotografata da B. Ruby Rich in New Queer Cinema. The Director’s Cut (1992).

Ma una produzione che, salvo eccezioni, continua a muoversi ai margini dell’industria tradizionale, impone un’indagine per linee comuni, una messa a fuoco delle tendenze che consenta di visualizzare riferimenti, richiami, insomma quel patrimonio di simboli che afferiscono, in vario modo, al campo dell’immaginario. Gli stessi nomi sotto cui si inscrivono le lezioni assorbite dai cineasti (Judith Butler, José Esteban Muñoz, Teresa de Lauretis etc.) rappresentano una costellazione teorica e filosofica attorno a cui il cinema queer è andato strutturandosi – e non sempre consapevolmente.

L’immaginario, del resto, è una zona dai margini ambigui, priva di qualsiasi grado zero, un campo elastico che si adatta e si modifica, permeabile alle suggestioni, ai rimandi che si stratificano e impediscono di scorgere un punto d’origine, un chiaro ed esplicito momento di “creazione”. In tale prospettiva, è opportuno e certo utile partire dalla centralità del corpo, campo di battaglia per eccellenza, strumento di lotta – pasolinianamente gettato in essa per esperire e opporsi al Potere – nonché espressione di un’identità in definizione, mai precostituita e slegata dalla dicotomia eterosessuale/omosessuale.

L’introduzione del termine queer come locuzione inclusiva comporta dunque una riflessione sul corpo resistente, una presenza fisica, organica, narrativa che si definisce e ri-plasma attraverso pratiche politiche, sociali, artistiche (pertanto anche cinematografiche) che abradono l’equivalenza tra sesso biologico, «performance sociale di genere e la sua soggettività sessuale» (A. F. Cascais, Corpi queer, film queer in Portogallo, in A. Inzerillo, a cura di, Atlante del cinema queer contemporaneo. Europa 2000-2020, Sesto San Giovanni, Meltemi, 2023).

In questa prospettiva, il corpo risemantizzato dal cinema queer corrisponde a quanto focalizzato da Gilles Deleuze e Félix Guattari: un “corpo senza organi”, esito ed esplicitazione di «una proprietà definita dalla sua stessa plasticità, trasferibilità ed espropriabilità». Materializzato dal cinema queer, questo “soggetto imprevisto” (ci si perdoni il calco femminista, pur non del tutto inappropriato) travalica i confini di un’identità – e conseguentemente di una narrazione – interpretata come relativamente costante o biologicamente fondata.

Derek Jarman alla Mostra del cinema di Venezia, 1991 (foto di Gorup de Besanez, Wikimedia Commons)

Ma l’immaginario – in cui tale concetto va collocandosi – conosce difficilmente un punto alfa, è una miniera profonda e articolata, attorno a cui i motivi si muovono in maniera spesso confusa, disarticolata. Tuttavia esiste un’opera che, pur non essendo origine o termine di tale “viaggio”, può considerarsi punto di coagulazione all’interno del complesso reticolo di immagini afferenti il corpo ri-soggettivato. Si tratta di Sebastiane (1974) del regista britannico Derek Jarman, un’intensa rilettura del mito di San Sebastiano, figura martire per eccellenza, icona variamente declinata in campi differenti, incarnazione di un cortocircuito emotivo e sensoriale che investe la normatività sociale a partire da una cristianità negletta, in stretta relazione con una sessualità fuori canone, ora inespressa ora negletta.

Le ascendenze pittoriche e i riferimenti cinematografici di Jarman non prescindono certo dalle grandi lezioni di Piero della Francesca o, sul fronte filmico, dall’avanguardia statunitense degli anni Sessanta, da Andy Warhol a Kenneth Anger, a loro volta influenzati da Rainer Werner Fassbinder e Pier Paolo Pasolini. La nudità insistita, tuttavia, dà voce e materia a una “militanza” iconografica, intesa nel senso espresso da Fabio Bo nel bel saggio sulla pellicola jarmiana, laddove per militante si intende «l’implicita partecipazione alla creatività gay di quegli anni» (Fabio Bo, Sebastiane, Martire militante, in L. Leconte, O. Mai, G. Minerba, a cura di, Derek Jarman, Torino, Edizione “L’Altra Comunicazione”, 1991)

Sebastiene (screenshot, fonte mubi.com)

Uno sguardo aggiornato consente ad ogni modo di fare un passo in più. Proiettato su un arco temporale più vasto, Sebastiane pare fissare infatti i modi di funzionamento del corpo esibito e resistente, superando i confini della categoria “gay” per iscriversi di diritto nel campo queer, rappresentando un punto di partenza per le successive declinazioni in materia. È lo stesso regista a legittimare questa lettura, allorché afferma che nei suoi film «i temi dell’identità e del piacere (soprattutto sessuale, ma non solo) sono forse i più ricorrenti ed espliciti».

“Caravaggio” di Derek Jarman

Nel solco di una postura narrativa che riapplicherà in Imagining October (1984) e in Caravaggio (1986), Jarman analizza, propone e visualizza l’inconografia introiettata dalla (sotto)cultura omosessuale dell’epoca e ne fa terreno d’indagine in cui cogliere suggestioni e sviluppi, sì da aprire la strada alla ripresa continua di certi archetipi, alle predominanti narrative che fanno del corpo strumento di lotta e rivendicazione.

Solo un piccolo inventario, ancora con l’ausilio di Fabio Bo: «Quando i soldati – tra fumi e vapori – si lavano collettivamente, ripropongono i climax delle adorate saune mittel-europee […]. I giochi (gioghi?) tra uomini, i banchetti, i deliri sadomasochisti di Sebastiane rintracciano e adunano le orge visive e pietrificate del Ludwig di Luchino Visconti. La danza fallica di Lindasay Kemp negli ultimi lavori gay? Ricorda le sensuali incisioni art nouveai di Aubrey Beardsley o gli sfrenati baccanali del Fellini Satyricon. […]. La nudità insistita (anzi, programmatica) ma anche i luogji (deserti sabbiosi, pastorali) rammentano le gioie dell’eros sublimate dalla visionarietà realistica di Pier Paolo Pasolini (Edipo re, Medea, Il fiore delle mille e una notte, Il Vangelo secondo Matteo […])».

“Imagining October” di Derek Jarman (fonte mubi.com)

Tale classificazione, naturalmente mai neutra e senza pretesa di esaustività, è comunque utile a focalizzare quella “militanza iconografica” cui si accennava in precedenza, una testimonianza di libertà che si colloca prima del nuovo millennio che inaugura, per dirla con Pier Maria Bocchi, «anni di superficiali riflessioni con le immagini (il più delle volte sterili e vane), e non di profonde riflessioni sulle immagini stesse» (Dove sono le immagini? Alla ricerca di un cinema queer italiano, in A. Inzerillo, cit.).

Sebastiane, dunque, si pone al centro di un dibattito ideologico inesaurito ed è, in rapporto alle elaborazioni filmiche odierne, un punto cardinale della cinematografia queer, offrendo un orizzonte cui rivolgersi per una trasformazione semantica delle immagini e per una ri-declinazione del corpo che sia sempre, e ancora, soggetto imprevisto e resistente.
Ginevra Amadio

“Sebastiane” di Derek Jarman (fonte Berlinale)

Elenco (non esaustivo) di film sul tema

Immagine in evidenza
“Sebastiane” di Derek Jarman (Screenshot di Maxpoto, Wikimedia Commons)