Il pensiero tragico moderno e l’illusione del tempo. Intervista a Wainer Vaccari

di Paola Milicia.

Il pensiero tragico moderno e l'illusione del tempo. Intervista a Wainer Vaccari

Sull’opera di Wainer Vaccari grava da sempre la semplificazione del tempo, più ancora, l’ossessione di assegnare una corrente di appartenenza o una scuola, come conseguenza di quell’impellenza della modernità che scalpita nel formulare definizioni e racchiudere tutto il racchiudibile in comode etichette ready to use.

La verità è che Vaccari, artista modenese, classe ’49, riesce a vivere nella cesura del tempo, nella pausa, nel passaggio prima che si compia del tutto: costantemente sulla linea di fine campo visivo, né dentro né fuori, ma inter-, la sua ricerca pittorica non si sforza di tenere insieme la contemporaneità e la sua negazione, né di mettere in opposizione i due tempi, piuttosto, miscelando tanti stili, generi, e linguaggi, inventa una commistione visiva e immaginaria virtuosa che si risolve nella costruzione di un’identità mai troppo contemporanea, mai troppo anacronistica.

L’anacronismo (“di cosa o persona in contrasto coi tempi in cui viviamo”) tecnico-artistico di Vaccari può far scaturire una nuova obiettività storica, ma può anche farci cadere in un delirio di interpretazioni soggettive. La rappresentazione sembra essere sempre prossima a un quasi paradosso per quanto appare cronologicamente incompatibile, senza però esserlo del tutto, o veramente: con la contemporaneità, ad esempio, quando compie, per così dire, un’interruzione di stile, ma anche per via dei numerosi rimandi al Novecento, mai dissolto né distinto, i cui effetti Vaccari mette perennemente in scena (soprattutto dell’espressionismo), come pure del Cinquecento italiano di cui replica la lezione manierista e la tecnica ad olio; con il passato figurativo quando dai vecchi miti e dalle pennellate “piene” e “unte” passa alla rappresentazione di corpi celluloidi, più vicini alla grafica e alla computeristica, che comunque ricordano certi manifesti e poster delle seconde scuole pubblicitarie americane, se non addirittura di certi slogan caricaturali politici e di partito passati.

Nella produzione artistica degli anni Ottanta-Novanta si esplicita meglio, tra le altre cose, il carattere illusorio a cui l’artista ricorre in una sequenza di personaggi e paesaggi vagamente leggendaria e filmica. L’artista vi delinea il pensiero tragico moderno come fosse una rappresentazione teatrale, con oggetti e personaggi “strani”, cacofonici e satirici, inquadrati in vere e proprie scene mute, senza eccesso di artificio troppo lambiccato a togliere spazio alla realtà, a evocare un bestiario umano fantastico.

Le fantasie simboliche sono ovviamente quelle del Novecento, ma è ovvio per chi abbia un minimo di dimestichezza con la storia. La scena si colloca al punto di convergenza tra simbolismo, espressionismo e surrealismo, in cui le proporzioni psicologiche e fisiche sensibilmente stravolte dei personaggi, i corpi traslucidi e pallidi, ma soprattutto zoomorfici e mitologici, lasciano rivivere l’allucinazione fantastica e onirica, visionaria e demoniaca assieme. Ne il “Minotauro e dintorni” (1992), ad esempio, che presenta la doppia età di un uomo divisa tra l’adulto (mostro) e il bambino (innocenza) con non poche allusioni sessuali, ci consegna un filone psicoanalitico e letterario caro al secolo breve: da Freud alle litografie fantastiche di Alfred Kubin, al dramma mitteleuropeo di Friedrich Dürrenmatt, per citarne alcuni. Così si dica di “Un nuovo giorno” (1993) in cui il riflesso allo specchio potrebbe alludere al tema freudiano del Doppelgänger e delle ambiguità psicoanalitiche umane.

Su tutto, si impone l’illusione di un tempo (dalla coincidenza o alla negazione di tempi diversi; all’eternizzazione di un istante, alle pose rallentate), ma più ancora di una felicità che viene rimandata, non esclusa né inclusa, ma sospesa e invisibile. Le sagome dei personaggi, sempre dentro paesaggi di natura, sono impalpabili eppure piene, sono tese e mute, ferme eppure assorbite dentro un movimento presunto, e un’azione come in certi film asiatici contemporanei, dove al dialogo e alla parola si sostituisce l’idea di un lento divenire che è prima di tutto una filosofia di sopravvivenza, e poi di vita.

Anche nelle opere collocabili sul finire degli anni Novanta, segnate da una decisiva sperimentazione linguistica, Vaccari resta sincronizzato a un’ideale continuazione della ricerca dell’ambiguità storica che allude a modelli di tempo artistici e tecnici, riportando l’osservatore a misurarsi, per così dire, con la memoria delle cose, con il karma dei personaggi. Ad accomunare la ricerca del secondo periodo, in cui lo sfaldamento della forma si sostituisce alla nitidezza, è proprio quello stare sempre un passo “indietro” rispetto alle attese dell’osservatore, stare altrove, in un altro tempo, o in un’altra epoca.

Il momento della conoscibilità storica dell’opera di Wainer Vaccari è, dunque, un perno dialettico: si costituisce tra verità e smentita, tra aderenza e distacco, nell’istante bifronte che c’è tra ieri e oggi, tra ora e dopo, tra gli effetti che il passato ha sul presente e viceversa.

In questa sua costruzione e decostruzione credo che l’opera di Vaccari sia inafferrabile nel senso che si costruisce in un cammino che ogni volta si ritrova, si modifica, e si autodistrugge nella relazione con il tempo, sempre alla ricerca di un nuovo ritmo, di una nuova pelle, di una nuova tristezza.
Paola Milicia

L’intervista

[Paola Milicia]: La tua opera ha un rapporto doppiamente ambiguo con il tempo. Intanto, con quello di chi la osserva, e dunque con certe aspettative che ci trasciniamo come formulazioni di un diffuso atteggiamento contemporaneo; ma anche con una misura di tempo, per così dire, interna alla narrazione che suggerisce una rilettura in chiave letteraria (fantastica, ma anche fiabesca alla stregua dei fratelli Grimm, e leggendaria), e filmica. L’anacronismo artistico sembra esserti congeniale e fecondo… Qual è l’utilità – se esiste – di questa distonia? Ti consente un margine di libertà fuori dal coro?

[Wainer Vaccari]: Io conosco solo un tempo, quello dell’esecuzione di un disegno o di un quadro dove io stesso sono attore…e il primo osservatore. Quando l’opera è finita appartiene ad altro, ad altri osservatori con i loro tempi.
Se c’è anacronismo nelle mie opere ben venga. D’altronde io penso che alcuni ritratti dipinti da Pietro Annigoni siano tra le opere più importanti del novecento italiano. Lo dico “anacronisticamente” e con tanto amore…

I personaggi che “inventi” hanno tutti un’acuta caratterizzazione data dal tempo e dalla natura: la ferocia degli adulti, ad esempio, e il candore fanciullesco, la saggezza del gatto…Un dialogo che si ispira ad antiche leggende tra tempo e natura (anche umana). Che ne pensi?

Mi ritengo un bravo disegnatore, bravo al punto che un bel giorno di quarant’anni fa mi sono messo nelle vesti del creatore ed ho deciso di reinventare il nostro pianeta. Una terra uguale ma diversa. Una terra all’insegna “del non senso” e “Dell’elogio della follia”.

La superficie della tela è prima di tutto una fabula, una trama. Quali sono i temi a cui non rinunceresti? Soprattutto alla luce del ritorno a un racconto delle origini.

La tela è il contenitore delle mie scorribande visive. Dico contenitore perché usando la prospettiva il quadro può diventare un pozzo profondo, senza fine.
I miei attori protagonisti sono sempre le donne, gli uomini, gli animali, ai quali non rinuncerei mai.
Sono loro i miei “Avatar”.

Di recente in mostra al Mart di Trento: un ritorno al linguaggio e alle inquietudini del primo periodo. Una “nuova necessità”, come l’hai definita in un’intervista. “Si era infatti esaurita la spinta propulsiva del percorso precedente e non potevo che tornare sui miei passi, certamente con occhi e spirito rinnovati”. La sperimentazione: ci sono artisti che si ripetono da sempre. Cosa significa per te sperimentare e cosa ritornare sui propri passi artisticamente parlando?

Si, è quasi fisiologico, può capitare. Una vena creativa si può esaurire ma se ne può scoprire subito un’altra. Oppure no. Oppure si può anche tornare diversamente indietro. Non c’è niente di male. Importante è restare sé stessi.
Se devo essere sincero non amo molto la parola sperimentazione. Preferisco la parola “ricerca”. Secondo me non si sperimenta sulla tela ma si cerca, nel mio caso col pennello. Poi so anch’io che nel novecento la sperimentazione, la tela, ahimé, l’ha massacrata!

Parliamo di impressioni. Un critico ha definito la tua opera “divertente”, priva di tristezza. A me pare piuttosto più vicina a una melanconia e a una solitudine “necessarie” e confortanti. Quell’andare in sé stessi per ore…

Qualche volta può risultare anche divertente. Ma io sento di più “quell’andare in sé stessi per ore…”

Immagine in evidenza: Wainer Vaccari – Minotauro e dintorni. Olio su tela cm 51×71,1997. Coll. Grosshaus Germania