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In un tempo inesistente. Intervista a Nicola Samorì

di Paola Milicia.

In un tempo inesistente. Intervista a Nicola Samorì

Se inquadrare l’opera di Nicola Samorì (Forlì, 1977) come percorsa da una sollecitazione di rottura è la versione a cui siamo soliti tendere, è altrettanto verosimile ripensarla a partire dal suo contrario, ancorché le tensioni e le scomposizioni materiche di cui è fatta richiamano di volta in volta un equilibrio estetico e psichico in cui il rapporto che si instaura tra lacerazione e rimarginazione richiede di essere concepito come naturale genealogia, unica salvaguardia nei confronti di una interpretazione che sembra viceversa prospettarsi come sola evenienza possibile.

Operando un esercizio di inversione percettiva, l’opera dell’artista forlivese racconta del valore di una simmetria di forze che può rivelarsi in modo del tutto inattesa, in una relazione che non annulla il suo dialetticamente contrario, ma individua e depone a favore di una saldatura tra strappo e cucitura, tra dentro e fuori, tra prima e dopo. È in questo passaggio decisivo, sempre nell’alveo della cultura barocca e sacrale che Samorì espressamente predilige (con chiari riferimenti a Guido Cagnacci, a José de Ribera), che si ravvisa lo snodo cortocircuitante tra l’andare e il fare ritorno, tra il distruggere e il rinvenire: l’andirivieni tra un tempo della rappresentazione che è e un tempo trascorso, dell’avvenuto e del poi, come in un ciclo della Natura, che non attiene necessariamente al drammatico, ma alla geografia del tutt’uno, dell’unicum, della conservazione nella trasformazione e nel suo incessante destino delle cose viventi di nascere e morire, cessare di esistere nella medesima forma di sempre e di riconfigurarsi nel flusso del tempo.

L’opera non è che il risultato di questa trasformazione, la testimonianza di una sofferta interazione con il tempo, o con la coscienza di ritrovare. Corpi implosi, afflosciati, sfumati, svaniti e decostruiti, apparentemente inaccessibili e inconoscibili di cui si trattiene pur sempre una memoria residuale univocabile e invocabile: non sono opere morte né vive, ovvero, non troppo morte né troppo vive, ma morenti e viventi allo stesso tempo, attraversate simultaneamente tanto dal desiderio vitale quanto da una magnanima rassegnazione che si rafforzano nella reciproca prossimità. È una morte orfanizzata quella proclamata dall’artista, è una morte che nasce prima che accada, e che sul piano percettivo offre la sua stessa neutralizzazione, giacché è già decisa, e dunque non esiste davvero come evento incombente, ma evento che nasce col nascere dell’opera.

© Nicola Samorì

L’impulso catastrofico dell’artista viene trasferito da uno spazio all’altro e la convergenza tra quanto si percepisce e quanto si vede nella realtà è da sola in grado di stemperare la portata psichica del “crimine”, la cui esplicitazione è anche e soprattutto sinonimo di veritas e appagamento, dell’artista come dell’osservatore. La vocazione alla de-costruzione accredita all’opera di Samorì la capacità di elaborare, contemporaneamente, una rappresentazione del proprio atto (dell’artista) e una rappresentazione degli atti altrui, di chi osserva e immagina l’altro-ve. Nell’opera di Samorì, il dolore si mostra come un evento silenzioso e dinamico, potremmo osservare la scena e viverlo senza sentirlo, giacché lo strappo non è vero strappo né ferita che non abbia una sua risignificanza; il dramma, che pure esiste, viene simmetricamente controbilanciato da un diverso piano propriocettivo, dopo e al di là di quello che vediamo, in un tempo inesistente.

Non c’è dubbio che le opere di Samorì assorbono bellezza dalla propria lesione, ma più che uno sfregio quello che l’artista compie è un depistaggio. In una sequenza paratattica, somma di tanti f-rammenti cronologici, le opere di Samorì annullano il tempo della disperazione, del dolore, della colluttazione, a vantaggio di uno stato dissolto e altro, di una nuova esperienza nello sguardo, che si gioca nell’oscillazione tra prima e dopo, in cui avvertire l’incombere di un tempo più grande della stessa visione. L’immagine che ne scaturisce è quella indipendente, anarchica dell’opera, privata di un tempo oggettivo, colma di residui indimenticabili, di rimandi e profezie.

© Nicola Samorì

[Paola Milicia]: Le tue opere vengono uccise prima ancora di nascere. È un destino già scritto quello al quale le sottoponi. Cosa ambisci a rimuovere, a infrangere, a trasferire o a riportare in vita, quando compi il tuo crimine, salvo dare esecuzione a una cifra e a una necessità formale-stilistica?

[Nicola Samorì]: In realtà non penso di uccidere immagini: le creo, e può accadere che io le accompagni fino ad un punto critico, una soglia oltre la quale si cade nell’informe o nel silenzio dell’icona. Tuttavia quel limite non viene mai superato e, se accade, l’opera si disinnesca e non mi interessa presentarla perché sarebbe solo lo sfoggio di una sconfitta.

Le tue dinamiche sono quelle della damnatio memoriae. Eppure, vi si percepisce dell’altro, una volontà divinatoria formale e semantica, che conduce alla distruzione creativa: il desiderio di interruzione e quello di recupero convergono nello stesso gesto creativo di un moderno dottor Frankenstein. Come ti poni di fronte a questa ambiguità?

Comporre, scomporre e decomporre sono dinamiche naturali; non hanno implicazioni culturali, morali o religiose. Sono processi chimici che cerco di mettere in circolo quando lavoro, perché l’opera per me è sempre un corpo, e in quanto tale è sottoposto alle forze appena evocate.

© Nicola Samorì

Friedrich Dürrenmatt scriveva: “eppure ho come la sensazione che l’assassino dei miei racconti sia anche il mio assassino”. Vale in un certo senso anche per te? Quanto la tua opera può essere autobiografica e in che termini?

Fingere l’uccisione di un’opera significa dissipare il mito dell’immortalità dell’arte. Forse sono invidioso della durata delle opere nel tempo, una resistenza che la mia carne non ha, e allora spingo le sostanze della mia pittura e della mia scultura verso una instabilità che somiglia a quella della nostra specie.
Ogni opera è un documento di vita vissuta; non credo possa sfuggire all’autobiografia. Penso alla mia esistenza come a una successione di immagini. Non sono le opere che somigliano alla mia vita: è piuttosto il mio esistere che è in forma d’opere.

È tua l’attitudine alla riscrittura di temi e modelli pittorici, il che ti consente di rielaborare le immagini in termini di forma e di tempo. Ci sono tanti piani temporali nelle tue creazioni: dalla rielaborazione pittorica di un’arte passata, a una riscrittura che viene deviata da sé stessa, in un tempo altro, quando strappata dalla sua stessa citazione. In che misura e termini il fattore “tempo” è protagonista nella tua opera?

L’opera è quella presenza che imprime forma ai giorni prima della scomparsa, e la somma dei lavori realizzati nel tempo è un calendario infallibile che mi aiuta a ricordare il passato.
E poi c’è il tempo molle nel quale affondano le singole immagini, che sprofondano con naturalezza nelle poche passate con improvvise divagazioni verso il presente. L’opera è un campo di forze a cavallo di un tempo confuso, poiché la memoria del mondo è in crescita e la possibilità di fissarla è sempre più fragile.

© Nicola Samorì

Sei attualmente in mostra a Sassoferrato: “Salvifica. Il Sassoferrato e Nicola Samorì, tra rito e ferita”, a cura di Federica Facchini e Massimo Pulini. Salvifica: che conduce alla salvezza dell’anima, alla beatitudine eterna. In cosa è salvifica l’arte di Samorì? Ci vuoi parlare di questa nuova esperienza?

Il fermo immagine mostrato nei miei dipinti e nelle mie sculture è un istante nel quale non è possibile intendere se è la degenerazione che avanza o se è la guarigione che si sta facendo strada. Io, unico testimone del processo, preferisco pensare alla seconda via, al corpo risparmiato – e curato – prima di scomparire.
La comparazione col Sassoferrato è audace, quasi crudele, poiché mette in scena due visioni della forma che abitano gli antipodi: l’imperturbabile del Sassoferrato e il perturbante del mio immaginario. Da una parte si trasforma la pelle in porcellana, dall’altro si muta il minerale in malattia.

Tutte le immagini: © Nicola Samorì

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